Dov'è stato pubblicato il primo Corano in arabo? Il primo Talmud? Il primo libro in armeno, in greco o in cirillico bosniaco? Dove sono stati venduti il primo tascabile e i primi bestseller? La risposta è sempre e soltanto una: a Venezia. Nella grande metropoli europea - perché all'epoca solo Parigi, Venezia e Napoli superavano i 150.000 abitanti - hanno visto la luce anche il primo libro di musica stampato con caratteri mobili, il primo trattato di architettura illustrato, il primo libro di giochi con ipertesto a icone, il primo libro pornografico, i primi trattati di cucina, medicina, arte militare, cosmetica e i trattati geografici che hanno permesso al mondo di conoscere le scoperte di spagnoli e portoghesi al di là dell'Atlantico. Venezia era una multinazionale del libro, con le più grandi tipografie del mondo, in grado di stampare in qualsiasi lingua la metà dei libri pubblicati nell'intera Europa. Committenti stranieri ordinavano volumi in inglese, tedesco, cèco, serbo. Appena pubblicati, venivano diffusi in tutto il mondo. Aldo Manuzio è il genio che inventa la figura dell'editore moderno. Prima di lui gli stampatori erano solo artigiani attenti al guadagno immediato, che riempivano i testi di errori. Manuzio si lancia in progetti a lungo termine e li cura con grande attenzione: pubblica tutti i maggiori classici in greco e in latino, ma usa l'italiano per stampare i libri a maggiore diffusione. Inventa un nuovo carattere a stampa, il corsivo. Importa dal greco al volgare la punteggiatura.
Pochi intellettuali si opposero al regime fascista; pochi protestarono apertamente contro le leggi razziali. Furono molti, invece, quanti si formarono all'interno delle istituzioni fasciste di cultura e che poi, con il 1943, abbracciarono gli ideali dell'antifascismo e della resistenza, vivendo questa svolta come un'esperienza di "redenzione". Mirella Serri ricostruisce, anche sulla base di documenti inediti, segmenti della biografia dei molti intellettuali italiani che non furono "dissimulatori onesti", e neppure "voltagabbana", ma uomini che "vissero due volte" e che rappresentano il doloroso processo di maturazione di un'Italia democratica all'interno di un regime totalitario messo in crisi dalla guerra mondiale.
Per qualche decennio il Partito comunista italiano ha realizzato un miracolo. Apparteneva al Movimento comunista internazionale e aveva rapporti "fraterni" con l'Unione sovietica, ma era al tempo stesso una grande forza democratica, un argine contro le incombenti minacce fasciste, una indispensabile componente della vita democratica nazionale e, grazie al ruolo di Palmiro Togliatti nell'immediato dopoguerra, uno dei principali costruttori dello Stato repubblicano. Quasi tutti erano stati fascisti sino al 1942 e avevano quindi una particolare familiarità con la professione dell'intellettuale organico. Il Partito comunista conosceva i loro trascorsi, ma li aveva perdonati e sapeva che questo atto di clemenza avrebbe garantito la loro fedeltà. Il successo dell'operazione ebbe l'effetto di oscurare l'esistenza di un'altra intelligencija italiana, poco incline a lasciarsi attrarre dalle seduzioni del grande Partito comunista. I suoi esponenti avevano combattuto il fascismo negli anni del regime, in patria o all'estero, conoscevano la natura del movimento comunista, sapevano che le sue strategie non erano compatibili con il futuro di un paese democratico. Le loro origini politiche erano diverse, ma avevano una comune ispirazione liberale. Erano "Profeti disarmati", come li definisce Mirella Serri, ma avevano un piccolo quotidiano, "Risorgimento Liberale", che fu in quegli anni uno dei più vivaci e brillanti organi d'informazione e di opinione della rinata democrazia italiana.
La reazione di Stalin all'improvvisa invasione tedesca nel giugno del 1941 è uno dei capitoli più discussi e controversi della storia contemporanea. Secondo alcuni, il dittatore fu colto di sorpresa, precipitò in una crisi depressiva e fu per dieci giorni del tutto incapace di dirigere la resistenza del paese contro il micidiale attacco congiunto della Wehrmacht e della Luftwaffe. Secondo altri, Stalin sapeva che la guerra sarebbe scoppiata e si preparava a farla lui stesso nel 1942, non appena le forze sovietiche fossero state pronte a prendere l'iniziativa. Ma i suoi piani furono sconvolti dalla mossa d'anticipo di Hitler e l'unica difesa possibile, in quelle circostanze, fu quella di contenere, con qualche misura di ripiego, l'avanzata del nemico. Oggi, grazie alle ricerche di Constantin Pleshakov negli archivi sovietici, il quadro è più chiaro. Stalin preparava la guerra per il 1942 e fu effettivamente sconcertato da un evento che non aveva previsto; per 48 ore si assentò dal Cremino e stentò poi, per qualche tempo, a regolare il passo delle sue decisioni sui tempi di un'operazione travolgente che permise ai tedeschi di penetrare per 550 chilometri nel territorio dell'Urss. Da quel momento il paese, sia pure con grande lentezza cominciò a dare segni di ripresa.
Per gli studiosi che affrontano il problema della storia italiana esiste un problema cronologico. Occorre cominciare dalla caduta dell'Impero romano? È preferibile assumere come punto di partenza la formazione, in epoca medioevale, delle libere città e delle repubbliche marinare? O addirittura iniziare dagli anni, nella seconda metà del Settecento, in cui i primi segni di un nascente sentimento nazionale lasciano intravedere la grande stagione del Risorgimento. Fu quest'ultima, quando si aprì un grande dibattito sul tema negli anni Venti, la tesi prevalente. Pierre Milza, invece, ha deliberatamente adottato la prospettiva del lungo periodo e ha deciso che la protagonista della sua storia sarebbe stata la penisola dalle sue vicende più antiche agli avvenimenti degli ultimi decenni. Ma questa scelta (dagli etruschi a oggi) è possibile soltanto se la prospettiva dello storico si allarga sino a comprendere, accanto agli eventi politici e militari, tutto ciò che concorre a definire la vita di un territorio nell'arco di tremila anni: i costumi domestici e civili, i conflitti intestini, le credenze religiose, l'organizzazione sociale, le tendenze demografiche, le condizioni sanitarie, le scoperte scientifiche, l'agricoltura, l'industria, l'artigianato, il pensiero filosofico, le influenze straniere, l'arte nobile e quella popolare, insomma la cultura nel suo significato più largo.
Sugli attentati orditi contro Hitler esistono altri libri, da quello di Indro Montanelli, apparso nel 1949, a quello di Guido Knopp, pubblicato nel 2004. Ma quello di Roger Moorhouse presenta molte caratteristiche originali. È anzitutto una storia del nazismo e del suo leader, scandita dalle bombe, dai pugnali, dai colpi di pistola e dai minuziosi o fantasiosi complotti con cui un pugno di uomini e di donne cercarono di eliminare lo "spirito del male". È in secondo luogo un ritratto biografico del "bersaglio" e delle sue ossessioni. Pochi uomini furono così dominati dal sentimento del pericolo e dalla necessità di innalzare intorno alla propria persona un baluardo di protezione. Ma pochi furono altrettanto convinti della propria invulnerabilità. Fra gli uomini pubblici del suo tempo, Hitler fu uno dei primi che si servì per i suoi spostamenti di vetture blindate, di aerei gelosamente sorvegliati sino al momento della partenza, e di corpi speciali, composti da fedeli pronti a sacrificarsi per la sua sicurezza. Ma Hitler preferiva le vetture scoperte e dava prova, in molte circostanze, di una irresponsabile audacia. In terzo luogo il libro di Moorhouse è un saggio sulla razionalità e sulla follia dell'assassinio politico. Dallo svizzero Maurice Bavaud, "sicario di Dio", a Claus von Stauffenberg, ufficiale della Wehrmacht e gentiluomo prussiano, "Uccidere Hitler" è una galleria di "assassini" animati da motivazioni diverse.
Napoleone Bonaparte annoverava Eugenio di Savoia fra i sette grandi condottieri militari della storia. Federico il Grande lo considerava suo maestro e lo definiva il "vero imperatore degli Asburgo". Nato nel 1663 a Parigi, Eugenio di Savoia compì una folgorante carriera militare che lo pose alla testa degli eserciti imperiali da dove ottenne clamorose vittorie contro i turchi emarginandoli per sempre dall'Europa, mentre durante la guerra di successione spagnola sconfisse l'esercito francese liberando la città di Torino da un drammatico assedio. Riformò l'esercito imperiale e fu governatore dello Stato di Milano, consentì agli Asburgo di ampliarsi nel Balcani e condusse l'ultima campagna militare all'età di 72 anni.
Daniele Comboni (1831-1881) visse in Sudan proprio quando le società e le economie tradizionali stavano per essere travolte dagli effetti della scoperta delle sorgenti del Nilo. La sua opera di evangelizzazione si inserì nella complessa trama di rapporti politici, diplomatici ed economici che avevano come soggetti le potenze europee, l'Egitto e le compagnie commerciali, e come oggetti l'avorio e le popolazioni subsahariane. A queste Comboni si dedicò infaticabilmente, combattendo il commercio degli schiavi e sognando e progettando l'autogoverno del continente, in base al principio della "rigenerazione dell'Africa coll'Africa stessa".
In un momento nel quale tutti gli occhi sono puntati sulla situazione russa e sui possibili esiti della sua crisi politica ed economica, Arrigo Levi racconta e spiega, con gli occhi di un contemporaneo e di un cronista, la storia russa di questo secolo.
Ancora una volta Torey Hayden si trova ad affrontare una classe di "bambini difficili". Due sorelline irlandesi traumatizzate dagli orrori della guerra, il loro cuginetto che è stato testimone del suicidio del padre, l'undicenne Dirkie che conosce solo la vita di un orfanotrofio, l'eccitabile Marianna, otto anni, aggressiva e sessualmente precoce e Leslie, sette anni, forse quella con maggiori problemi, totalmente chiusa nel suo mondo, incapace di comunicare con l'esterno. Ma di questa classe così disastrata entra a far parte, ufficialmente come aiutante, anche la mamma di uno dei bambini, una giovane donna che, dopo un inizio molto conflittuale, si appoggia alla Hayden perché l'aiuti a risolvere i suoi numerosi problemi.
Questo libro è una medaglia su cui sono ritratti due volti. Il primo è quello del suo protagonista: Amedeo Guillet, ufficiale di cavalleria, comandante di un Gruppo Bande a cavallo che fece contro gli inglesi, durante la seconda guerra mondiale, una sorta di guerra di corsa fra le colline e le pianure desertiche dell'Eritrea. Dopo la resa dell'esercito italiano in Africa Orientale, Guillet continuò a combattere. Vestito come un arabo, si mise alla testa di una banda composta da guerriglieri eritrei, etiopici e arabi. Dopo mesi di guerriglia dovette nascondersi a Massaua a lavorare come acquaiolo sino al giorno in cui riusci ad attraversare il Mar Rosso per raggiungere lo Yemen neutrale. L'altro volto inciso sulla medaglia è quello del suo nemico, Vittorio Dan Segre, politologo, giornalista, professore a Haifa e a Stanford, uno dei maggiori esperti di questioni mediorientali. Nel 1938, all'età di 16 anni, emigrò in Palestina. Guillet e Segre s'incontrarono a Napoli nel 1944, combattendo ora dalla stessa parte, ma si conoscono dal giorno in cui Segre studiava nell'esercito britannico sui rapporti dell'Intelligence Service le spericolate azioni di un ufficiale piemontese. Da questa lunga amicizia è nata una biografia in cui Segre, per disegnare il ritratto di Guillet, ha utilizzato soprattutto fonti "nemiche": i rapporti e i ricordi degli ufficiali inglesi che lo combatterono in Etiopia e in Eritrea.