Nel leggere le testimonianze di questi contadini friulani, uomini e donne, vissuti tra '500 e '600, si è afferrati, come lo furono gli inquisitori, dallo stupore che si prova di fronte a qualcosa di assolutamente inaspettato. «Di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo somno» racconta il benandante Paolo Gasparutto «mi apparse un angelo tutto tutto d'oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo spirito andò fuori ... Egli mi chiamò per nome dicendo: "Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere per le biade" ... Io gli resposi: "Io andarò et son obediente"». Spinti dal destino perché nati con la camicia - cioè involti nel cencio amniotico - i benandanti combattevano in spirito, tre o quattro volte all'anno, armati di mazze di finocchio, contro gli stregoni armati di canne di sorgo, per assicurare l'abbondanza dei raccolti. Gli inquisitori si convinsero che dietro questi racconti si nascondeva il sabba diabolico: i benandanti non erano nemici di streghe e stregoni, come affermavano, bensì streghe e stregoni essi stessi. Dalle voci di Anna la Rossa, di Olivo Caldo, di Michele Soppe e di tanti altri, pur filtrate dai notai dell'Inquisizione, emerge uno strato profondo di credenze contadine, altrove cancellate. Oggi i benandanti, per tanto tempo dimenticati, viaggiano in spirito per il mondo: dall'Europa, alle Americhe, alla Cina.
Gli “Assassini” sono noti come una cerchia di fanatici sicari musulmani, responsabili di un numero enorme di delitti efferati e di azioni suicide, che compivano nella convinzione di guadagnarsi così il paradiso – questo almeno era quanto credevano dopo essersi storditi con l’hashish (donde il loro nome arabo Hayiyiyyun, “assassini”). Sin qui la leggenda. Ma la vera storia dei Nizariti (questo il nome della setta) è ben più affascinante. Nati nel 1094 da uno scisma interno all’Ismailismo, a sua volta un ramo dello Sciismo, i Nizariti conquistarono in breve tempo una serie di fortezze tra la Siria, l’Iraq e l’Iran e vi si asserragliarono. Da lì lanciarono una sfida all’intero mondo islamico, che li considerava temibili eretici, e per quasi due secoli seppero tenergli testa sia militarmente sia culturalmente, elaborando una versione dell’assetto sociale, politico e religioso dell’Islam radicalmente alternativa a quella sunnita che si andava allora affermando. E il coronamento di questa visione fu, nel 1164, la proclamazione della Qiyama o “Risurrezione”, cioè l’abrogazione dei vincoli della sari‘a, la legge religiosa, e l’istituzione del Paradiso in terra con la rinascita dei fedeli nizariti a una vita spirituale immortale. In questo libro, divenuto subito un classico, Hodgson non solo traccia per la prima volta la complessa storia dei Nazariti, ma ne ricostruisce la raffinata e stupefacente dottrina, a partire dai testi sacri della setta e dai dotti scritti dei loro strenui oppositori.
Pubblicato per la prima volta nel 1976, «Il formaggio e i vermi» ritorna con una postfazione. Nel frattempo, tradotta in ventisei lingue, la vicenda del mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, messo a morte dall'Inquisizione alla fine del Cinquecento, ha fatto il giro del mondo, mostrando come sia possibile, attraverso gli archivi inquisitoriali, cogliere le voci di individui che spesso non compaiono, o compaiono solo in maniera indiretta, nella documentazione storica: dai contadini alle donne. Il mugnaio Menocchio era senza dubbio una figura straordinaria, percepita come anomala anche dai suoi compaesani; l'ampiezza delle sue letture, la ricchezza delle sue reazioni ai libri, l'audacia delle sue idee non finiscono di stupire. Ma anche un caso eccezionale (qui sta la scommessa del libro) può gettar luce su problemi di vaste dimensioni: dalla sfida alle autorità in una società preindustriale all'intreccio fra cultura orale e cultura scritta. Come chiarisce la nuova postfazione, «Il formaggio e i vermi» è stato letto retrospettivamente come un esempio di microstoria. Ma lo scopo di quest'esperimento di scrittura della storia era, ed è, quello di far arrivare al lettore la voce di Menocchio: «Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli...».
Tra gli orrori di cui la storia del Novecento è stata prodiga, pochi sono paragonabili alla condizione dei besprizornye, come venivano chiamati nella Russia postrivoluzionaria gli innumerevoli bambini e ragazzini rimasti orfani in seguito alla guerra, alla guerra civile o alla carestia. Stimati tra i sei e i sette milioni nel 1921, sporchi, vestiti di stracci, vagavano da soli o in gruppi per le città e le campagne in cerca di cibo, spostandosi nel paese aggrappati alle balestre sotto i vagoni dei treni, trovando riparo dal gelo negli scantinati delle stazioni o dentro i cassonetti, spinti dalla fame a un crescendo di aggressività e violenza che arrivava fino al cannibalismo. Né potevano offrire un'alternativa a quella vita gli orfanotrofi pubblici: strutture, in tutto simili ai lager che di lì a poco sarebbero sorti per altri scopi, dove bambini scheletrici giacevano ammassati in condizioni spaventose. E se negli anni Venti il problema viene studiato sul piano sociale, politico, giudiziario, psicologico ed educativo, in seguito saranno imposti il silenzio e la censura da parte di uno Stato che non può certo ammettere un simile sfacelo nel 'paradiso' della società sovietica. Negli ultimi trent'anni il fenomeno è tornato oggetto di analisi e rigorose ricerche storiche. Ma solo Luciano Mecacci è riuscito, grazie a testimonianze dirette e documenti dell'epoca spesso trascurati, a offrirne una ricostruzione completa anche dall'interno, calandosi - e calandoci - nell'abisso psicologico e umano dei protagonisti di vicende che possono sembrare, oggi, semplicemente inverosimili.
Nel 1839 un'armata britannica di quasi ventimila uomini invade l'Afghanistan per insediare sul trono del paese un sovrano fantoccio, Shah Shuja, e contrastare così la temuta espansione russa in Asia Centrale: è l'inizio del Grande Gioco, la sanguinosa partita a scacchi tra potenze coloniali europee per il controllo della regione, immortalata da Kipling in Kim. Ma è anche il primo fallimentare coinvolgimento militare dell'Occidente in Afghanistan. Meno di tre anni dopo, il jihad delle tribù afghane guidate dal re spodestato, Dost Mohammad, costringe gli inglesi a una caotica ritirata invernale attraverso i gelidi passi dell'Hindu Kush. Soltanto una manciata di uomini e donne sopravvivrà al freddo, alla fame, e ai micidiali jezail afghani. L'impero più potente al mondo era stato umiliato. Attingendo a fonti storiche in persiano, russo e urdu sino a oggi sconosciute - compresa l'autobiografia di Shah Shuja, la cui tragica figura rappresenta il vero fulcro del libro - nonché ai diari e alle lettere dei protagonisti inglesi dell'invasione, Dalrymple racconta una vicenda insieme drammatica e farsesca, popolata di personaggi affascinanti e crudeli, incompetenti e geniali, eroici e boriosi. E la racconta in maniera trascinante, senza tuttavia farci mai dimenticare quanto quegli eventi - le antiche rivalità tribali sullo sfondo di territori inaccessibili e inospitali, gli errori strategici che portarono al massacro dell'armata britannica risuonino, ancora oggi, come un monito.
Dai ghetti moravi alla corte imperiale di Vienna, dalle salmodie cabbalistiche agli idilli pastorali, dal traffico d'armi ai club giacobini, dalle logge massoniche alla ghigliottina: le tappe della vita avventurosa di Moses Dobrushka si leggono come altrettanti capitoli di un romanzo d'appendice, prodigo di colpi di scena, oscuri complotti, immense ricchezze e atroci miserie. Spia al soldo delle potenze reazionarie, sincero rivoluzionario, ebreo convertito (ma senza rinunciare alla fede frankista) o semplice avventuriero? Poeta e uomo d'affari, iniziato e citoyen, Dobrushka era imparentato con lo scandaloso pseudomessia Jacob Frank e, prima di salire sul patibolo, durante il Terrore, era stato in predicato di ereditare il comando dell'equivoca e strampalata corte di Offenbach, sulla quale regnava la figlia di Frank, Eva, che aveva ricevuto i favori e gli omaggi dell'imperatore Giuseppe II e dello zar Alessandro I. Gershom Scholem, affascinato da questa figura enigmatica, esemplare della parabola dell'ebraismo moderno alle soglie dell'emancipazione, illumina le tracce confuse che ce ne restano, riuscendo a far convergere in un saggio gli strumenti dello storico e l'interrogativo metafisico.
"Sono cose che ancora non si possono dire". Questa affermazione di Cesare Luporini, una delle teste pensanti del PCI nel secondo dopoguerra, risale a un'intervista radiofonica sull'"affaire Gentile" rilasciata nel 1989, a quasi cinquant'anni di distanza dai fatti. Bene, chi vive in Italia è abituato a delitti politici preparati, eseguiti e poi coperti in un'atmosfera acquitrinosa, dove nessuno per certo è innocente, ma un colpevole sicuro non esiste. Eppure, l'assassinio di Giovanni Gentile in quel freddo aprile del 1944 rimane un cold case diverso da tutti gli altri - che l'indagine di Luciano Mecacci, condotta anche su documenti inediti, riapre in modo clamoroso. Tutto, in questa ricostruzione, è perturbante. I moventi, molto meno limpidi - o molto più umani - di quanto fin qui si è tentato di far credere. La scena del delitto, cioè la Firenze cupa e claustrofobica occupata dai tedeschi. E naturalmente gli attori. Qualcuno ha discusso, deciso, agito: ma come, fino a che punto, perché? Le figure che appaiono sul palcoscenico sono numerose, e molto diverse fra loro. Oscuri gappisti. Feroci poliziotti. Informatori. Doppiogiochisti. E al centro di tutto, il meglio dell'intellighenzia italiana di allora: Luporini, certo, ma anche Eugenio Garin, Antonio Banfi, Mario Manlio Rossi, Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Concetto Marchesi.
Crescere in un mondo "senza passato" può segnare una vita intera. Non stupisce dunque che Naipaul, da ragazzo, a Trinidad, si sentisse "tagliato fuori dalla storia": nessuno, intorno a lui, sapeva che Chaguanas, la sua città d'origine, trae il nome dai nativi che Colombo aveva chiamato "indiani" e che ora non esistono più; a nessuno interessava che l'isola fosse servita agli spagnoli solo come base per la corsa all'oro nella giungla sudamericana; e su quanto rimaneva delle piantagioni di canna da zucchero nessuno si interrogava. La storia era stata sostituita dai favoleggiamenti, che depuravano i fatti dalle loro scorie livide, e soffondeva di un'aura fantastica i tumultuosi eventi delle Indie Occidentali. Ma alla fine degli anni Sessanta, attraverso lo studio rigoroso dei documenti conservati al British Museum, Naipaul intraprende un viaggio che lo sprofonda "in un orrore al quale non era preparato": ma lo spinge anche a scrivere questa lucida, scabra cronaca, dove il fiabesco Eldorado si tinge di barbarie e lascia affiorare schiavitù, massacri e torture divenuti e rimasti per secoli agghiacciante normalità. Visitando sotto la sua guida i grandi momenti in cui Trinidad è stata "toccata dalla storia", vedremo così gli europei "civilizzatori" in una sinistra quotidianità, e l'epopea della Conquista trasfigurarsi in catastrofe. E verificheremo che Naipaul sa diagnosticare e curare una malattia tipicamente coloniale: la perdita della memoria.
Ci sono opere che hanno letteralmente cambiato il panorama della civiltà, e a questa categoria appartiene senza dubbio l'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert. Con i ventotto volumi in folio della prima edizione e l'enorme varietà delle sue 71.818 voci, accompagnate da 2885 tavole, segnò un rivolgimento radicale nel modo di concepire la cultura, presentandosi come la summa dell'Illuminismo. Ma fu - come subito apparve evidente - anche un'impresa economicamente assai redditizia, e in virtù dello stesso motivo per cui il governo francese voleva sequestrarla: in odor di eresia, si vendeva perché sfidava i valori tradizionali e le autorità consolidate. Alle speculazioni dei philosophes, ben presto, fecero quindi da prosaico controcanto le speculazioni di genere assai diverso dei vari editori dell'Enciclopédie, che, mossi da un'avidità senza limiti, rappresentarono la perfetta incarnazione di quella fase della storia economica che prende il nome di "capitalismo selvaggio". Ricostruendo la biografia dell'Encyclopédie, Robert Darnton racconta così un'appassionante storia di spionaggio industriale ante litteram, e al tempo stesso compone un magistrale trattato in cui convergono storia del lavoro e dell'economia, storia delle idee e della cultura, e dove trovano risposta domande fondamentali: in che modo si propagarono nella società i grandi movimenti intellettuali? Che peso ebbero sulla sostanza e sulla diffusione della letteratura la sua base materiale?
Il Palazzo della memoria era un sistema mnemotecnico che prevedeva la costruzione di «strutture, forme mentali» composte di «immagini» organizzate in «spazi capaci di immagazzinare gli infiniti concetti costituenti l'insieme delle conoscenze umane». Nel 1596 Matteo Ricci, missionario gesuita, matematico, cartografo e soprattutto primo sinologo europeo, volle insegnare il metodo ai cinesi, nella speranza che avrebbero finito per interessarsi alla religione che rendeva possibili simili miracoli. A questo scopo preparò un libretto, scritto in cinese, in cui illustrò un unico gruppo di quattro «immagini», ognuna collocata in un suo specifico spazio. E qualche anno più tardi, mosso dal medesimo intento missionario, realizzò quattro disegni religiosi che avrebbero fissato nella memoria dei cinesi i momenti più drammatici della Bibbia. «Intorno a quegli otto frammenti, così lontani da noi, ho deciso di costruire a mia volta questo libro» ci dice Jonathan D. Spence, invitandoci a intraprendere «un viaggio in compagnia di Matteo Ricci» _ ovvero a ripercorrere un'avventura umana e intellettuale che non ha eguali. E possiamo immaginare con quale emozione abbia compiuto il viaggio insieme a quello che si può considerare il suo primo e più eminente maestro, perché la stessa emozione si trasmette al lettore, che si trova a rivivere, a tratti quasi fisicamente, l'esistenza di Matteo Ricci nell'Europa e nell'Asia tra Cinquecento e Seicento: dall'infanzia a Macerata ai molti inconvenienti della vita nelle missioni lontane; dai terrifici viaggi per mare ai tentativi di evangelizzazione dell'India, non sempre coronati dal successo; dall'impatto con la spiritualità orientale ai lunghi anni in una Cina che Spence riesce ancora una volta a restituire amalgamando magistralmente l'acribia dello studioso e il talento del grande narratore.
Quando nel 1982, uscì "Alla conquista di Lhasa", molti trovarono semplicemente entusiasmante la rievocazione della corsa, fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, per la conquista di quello che ancora era, nell'immaginazione popolare, il Paradiso Perduto: il Tibet. In effetti le imprese di personaggi come Anne Royle Taylor - che nel 1892 dai teatri dell'East End passò ai sentieri himalaiani, arrivando, a dorso di mulo, a un passo da Lhasa -, o di Maurice Wilson - fermato dalle autorità inglesi in India poco prima di mettere in opera l'ultima fase del suo piano, che prevedeva di schiantarsi con un biplano Gipsy Moth alle falde dell'Himalaya per poi proseguire a piedi alla volta dell'inaccessibile capitale - restano nella memoria. Ma a chi lo sa davvero leggere il racconto di Hopkirk suggerisce anche qualcos'altro, e cioè ad esempio il senso di una credenza antichissima, secondo la quale chi conquista il Tibet conquista, semplicemente, il mondo, oltre alla strana sensazione che le tensioni globali, se accostate a quello che ancora oggi rimane il loro misterioso e segreto epicentro, non siano che epifenomeni marginali.
"Anche in queste ultime, angosciose settimane ho continuato a sperare che trovaste un modo qualunque per fare del trattato un documento giusto e realistico. Ma ora è troppo tardi, evidentemente. La battaglia è perduta". Il 7 giugno del 1919, con queste parole, John Maynard Keynes comunica a Lloyd George le proprie dimissioni dall'incarico di rappresentante del Tesoro alla Conferenza di Versailles. Poco dopo parte alla volta di Charleston, nel Sussex, apparentemente per un periodo di vacanza, in realtà per scrivere, in due mesi scarsi, un libro destinato ad avere vaste conseguenze: questo. Keynes non aveva mai sottoscritto la convinzione dei vincitori di avere combattuto, secondo la celebre formula di Wilson, la "guerra che avrebbe posto fine a ogni guerra"; e si era opposto invano alla miopia di Clemenceau, Lloyd George e dello stesso Wilson, distanti in tutto, ma concordi nel ridurre i problemi del dopoguerra a un mero fatto di "frontiere e sovranità". Prima ancora, era certo che le durissime riparazioni imposte alla Germania avrebbero portato il continente, nel giro di due o tre decenni, a un secondo conflitto e, come scriveva alla madre già in una lettera del 1917, alla "scomparsa dell'ordine sociale come lo abbiamo fin qui conosciuto". Se a distanza di nove decenni gran parte di tali questioni sono ancora all'ordine del giorno, si capirà immediatamente l'immensa fortuna del libro, e anche l'immenso scandalo che ha suscitato.
Città di Xi'an, Cina, 28 ottobre 1728: poco prima di mezzogiorno, una portantina atttraversa la lunga via centrale, mentre un uomo "vestito curiosamente" la insegue con una corsa affannosa, brandendo nell'aria una lettera. Alcune guardie lo bloccano, e il destinatario, il generale governatore delle province di Shaanxi e Sichuan, ordina di arrestarlo. Gli basterà leggere poche righe per intuire i contorni di una gigantesca congiura anti-imperiale e dare il via a una caccia all'uomo che si concluderà con la cattura di tutti gli implicati.
"Improvvisamente il cielo diventa nero ... e subito dopo la tempesta aggredisce con violenza terrorizzante la carovana. Enormi vortici di sabbia mista a sassi sono sollevati in aria e turbinando colpiscono uomini e bestie. L'oscurità aumenta e strani schianti risuonano fra i ruggiti e gli ululati della bufera ... è un fenomeno che sembra lo scatenarsi dell'inferno". Il deserto del Taklamakan, nel Turkestan cinese, è ancora oggi una meta sconsigliata dalle agenzie turistiche, e per secoli, dal graduale abbandono della Via della Seta in poi, è rimasto uno dei luoghi meno attraversati del pianeta. Finché all'inizio del Novecento, quasi all'improvviso, alcuni fra i migliori - e più visionari - studiosi di cose antiche hanno deciso, tutti insieme, di partire alla scoperta delle civiltà che si dicevano sepolte, e intatte, sotto la sabbia. In questo libro, Peter Hopkirk racconta la storia, ancora una volta semisconosciuta ed emozionante, di come un gruppo di uomini quasi troppo adatti alla parte - per rendersene conto, basta guardare i ritratti di Le Coq, di Aurel Stein o di Paul Pelliot che corredano il volume abbiano sfidato e sconfitto il caldo rovente, il gelo mortale, le tribù ostili, e persino i demoni che la leggenda voleva a guardia dei tesori disseminati sulla Via della Seta. Il risultato è una cronaca accurata e fedele che trasuda, quasi involontariamente, romanzesco ed esotismo.
Un alone di mistero circonda da sempre i fatti accaduti nelle poche, terribili, convulse ore di Dongo. A distanza di anni nessun enigma è stato risolto tranne, forse, grazie a questa indagine di Luciano Canfora, la presenza di Goffredo Coppola (filologo valente della prima metà del Novecento) nella colonna Mussolini e quindi davanti al plotone d'esecuzione. La fine di Coppola è per Canfora l'inizio di una storia ripercorsa a ritroso in cui entrano in scena i protagonisti della vicenda - "mostri sacri" dell'accademia italiana fra le due guerre, da Pasquali a Vitelli, fino alla figura misconosciuta di Medea Norsa - che ruota attorno alla scoperta di un papiro greco di enorme importanza.
"Fisso è il pensiero alle sorti d'Italia: il fascismo mi pare già un passato, un ciclo chiuso e io non assaporo il piacere della vendetta, ma l'Italia è un presente doloroso". Così annotava Croce nei suoi taccuini di lavoro il 27 luglio 1943 e, proprio con queste parole, riemerge dall'isolamento e dà avvio a una fase radicalmente nuova di impegno e partecipazione alla vita politica, dalla quale si era tenuto distante. I "Taccuini" permettono di penetrare in un laboratorio in cui l'attività di studioso si accompagna a quella di politico militante: un politico lungimirante, concreto, impegnato a dialogare con le personalità più rilevanti dell'epoca. Ma permettono anche di ripercorrere anni cruciali della storia italiana attraverso una testimonianza diretta.
Davanti al palazzo dell'emiro di Buchara, due uomini in cenci sono inginocchiati nella polvere. A poca distanza, due fosse scavate di fresco, e tutt'intorno una folla sgomenta, che assiste in un silenzio irreale. Non è certo insolito che l'emiro faccia pubblico sfoggio di crudeltà, ma è la prima volta che il suo talento sanguinario si esercita su due bianchi, e per di più servitori di Sua Maestà britannica. La scena non è stata scritta da Kipling, ma è accaduta una mattina di giugno del 1842, dando inizio a una vicenda che in questo libro Hopkirk ricostruisce nella sua fase più avventurosa, allorché gli ufficiali dei servizi segreti zarista e vittoriano valicavano passi fino allora inaccessibili per stringere alleanze con i khan della regione.
Il 7 luglio 1792 un deputato dell'Assemblea legislativa (la Rivoluzione era oggetto di duri attacchi) prese la parola e con la parola "fraternità" propose la sua soluzione. I presenti, in procinto di scannarsi, si abbracciarono e baciarono. Darnton prende questo episodio come emblema della sua riflessione sulla storia. Il discorso trascorre dall'esperienza diretta dell'autore su come i fatti diventano racconto, all'analisi serrata delle posizioni di alcuni fra i maggiori storici e studiosi contemporanei o di alcune celebri scuole (dalle Annales alla Storia delle mentalità). E in mezzo non mancano indagini sulla storia dell'editoria e della lettura, o riflessioni su singoli episodi, come quel "bacio di Lamourette" che dà il titolo al volume.