Vogliamo avere il 'controllo della situazione' senza esserne ossessionati; vogliamo sfuggire alla morsa del controllo senza finire 'fuori controllo'. Cosa cerchiamo nel controllo di noi stessi, degli altri e del mondo e cosa ci lascia insoddisfatti se lo otteniamo? In che consiste, dunque, il controllo? Il libro intende rispondere a questa domanda e lo fa interrogando la storia e i contorni di questo concetto, attraverso la filosofia, il diritto, la sociologia. Ma, soprattutto, attraverso l'arte contemporanea, in particolare attraverso le opere di due grandi artisti. Tehching Hsieh - 'il Maestro' secondo Marina Abramovic - con le sue incredibili performance, tutte della durata di un anno, che rivelano i risvolti più intimi del nostro rapporto con il controllo e l'incontrollabilità e chiamano in causa la relazione tra l'arte e il grande libro confuciano 'dei mutamenti', I Ching. Thomas Hirschhorn, uno dei protagonisti della scena artistica contemporanea, che lavora alle sue opere 'sotto la soglia del controllo', facendo emergere i rapporti incommensurabili tra l'ipersensibilità dell'Occidente e il suo risvolto oscuro, quello che affiora dal dark web e dalle violenze planetarie.
Questo libro si rivolge a chi vuole cambiare il corso degli eventi, alle anime inquiete, a chi sente il disagio del tempo presente. Parla a chi, preoccupato, avverte i rischi di una caduta, ma è confortato da una solida certezza: la storia, fatta da donne e da uomini concreti, non è predeterminata negli esiti. "Diritto o barbarie" perché ci troviamo a un bivio, perché il regresso è sempre possibile. Non un destino necessario, ma una minaccia incombente. Solo le ragioni del diritto ci allontanano dalla barbarie. Ma per conquistare quale orizzonte? Secondo Gaetano Azzariti, quello espresso dal movimento storico del costituzionalismo democratico moderno. La Costituzione è la nostra 'utopia concreta'. Ed è la Costituzione che deve tornare a dettare l'orizzonte del cambiamento possibile, prospettiva che, per essere attuata, implica la presenza di tre condizioni inalienabili: critica del presente, coscienza organizzata, spinta al cambiamento. Solo un popolo consapevole, determinato e fantasioso, infatti, può realizzare un'utopia.
Dal 1990 a oggi un'ondata di guerre civili si è abbattuta su singoli paesi e intere aree regionali: la Jugoslavia all'indomani della fine della guerra fredda, la Somalia, l'Africa occidentale e la regione dei Grandi Laghi nei dieci anni immediatamente successivi, il Medio Oriente, l'Africa settentrionale e l'Ucraina nel periodo più vicino a noi. Questa proliferazione di guerre civili ha attirato l'attenzione di decisori politici, operatori umanitari, giornalisti e, naturalmente, studiosi. Ma, allo stesso tempo, li ha convinti sempre di più a vedere nella guerra civile un fenomeno marginale, confinato una volta per tutte fuori degli spazi 'centrali' del sistema internazionale e associato a qualche forma di arretratezza economica, politica o persino culturale. Allargando la prospettiva oltre l'ultimo trentennio, il libro rovescia questa immagine. È sufficiente attingere all'esperienza storica, infatti, per constatare che la guerra civile costituisce un'esperienza centrale nella storia europea (e italiana). Attorno a essa ruotano alcune delle determinanti fondamentali dell'ordine politico: l'edificazione e la successiva implosione della distinzione tra 'noi' e gli 'altri'; la conseguente separazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dall'unità politica e, quindi, tra politica 'interna' e politica 'estera'; la distinzione ancora più capitale tra violenza 'buona' e violenza 'cattiva', 'legittima' e 'illegittima', 'legale' e 'criminale'.
Benedict Anderson indaga un tema di straordinaria attualità: la microfisica del sentimento di appartenenza nazionale, i suoi linguaggi, la sua genesi e la diffusione in ambiti culturali enormemente diversi tra loro.
Il diritto non piove dall'alto sulle teste dei cittadini. Al contrario, è qualcosa che si trova nelle radici di una civiltà, nel profondo della sua storia, nell'identità di una coscienza collettiva. Deve essere identificato negli strati profondi della società, laddove allignano i valori fondamentali. La riflessione originale di un grande Maestro sul ruolo cruciale del diritto per la convivenza umana.
Cosa succede quando il diritto esige un certo comportamento, o nega una certa opportunità, ma questo appare inaccettabile ai cittadini perché in conflitto con le ragioni ultime che giustificano le loro azioni? In queste situazioni, il diritto diventa immorale. Sono conflitti che investono tipicamente la sfera personale degli individui: il governo del corpo, l'immagine di sé, le relazioni affettive primarie, i progetti di vita. In taluni casi diventano così rilevanti da mobilitare l'opinione pubblica, fino a scatenare delle vere e proprie battaglie civili combattute da chi rivendica una pretesa che il diritto nega, o contesta un obbligo che esso impone. Attraverso l'analisi della struttura dei conflitti tra diritto e morale e l'esemplificazione di casi paradigmatici - ad esempio l'eutanasia, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la pena di morte - il libro consente al lettore di costruire un proprio punto di vista sulle questioni in gioco.
L'età dei genocidi è alle nostre spalle? Se facciamo una ricostruzione storica e comparativa dei casi, sforzandoci di comprendere la violenza genocidaria nelle sue molteplici manifestazioni, ci sono molti segnali che . inducono a ritenere che il XXI secolo sarà un secolo di pulizie etniche e di genocidi. Non si può non rilevare, infatti, che in molte aree del mondo in cui la saturazione demografica raggiunge livelli d'insostenibilità, la sindrome dell"uomo superfluo' si sia aggravata. A ciò si aggiunge l'aumento della violenza democidaria, di cui il terrorismo internazionale è l'esempio più eclatante.
Da dieci anni non passa giorno senza che qualcuno invochi l'esigenza di una nuova classe dirigente. Eppure quasi nessuno sembra accorgersi che, se tale espressione suona ormai logora all'orecchio dei più, non è per l'inettitudine o la disonestà dei singoli, ma anche e soprattutto perché l'età globale ha inesorabilmente compromesso le condizioni d'esistenza di una classe dirigente in senso proprio. Le oligarchie si sono sgretolate, dunque, in una società liquida e trasparente? Nient'affatto. Il nostro è il tempo opaco dei gruppi di interesse privato, che premono sui decisori pubblici in vista di un tornaconto particolare. Che cosa resta, quindi, della democrazia? Finché si ignorerà che le élites politiche sono essenziali per una democrazia libera e pluralistica, partecipata e consapevole, i partiti soccomberanno ai movimenti e il potere scivolerà indisturbato nelle mani di pochi giganti transnazionali.
Un sinodo o concilio (i due termini sono sinonimi) è il luogo in cui ogni volta si forma un nuovo consenso dei credenti. Questo avviene quando la novità della storia impone di comunicare il vangelo in modo diverso dal passato. Fu questo il senso del concilio ecumenico Vaticano II, celebrato cinquanta anni fa, lo stesso senso del sinodo che recentemente ha riformulato la disciplina cattolica sulla famiglia. La prassi sinodale è tuttavia antica e risale alla stessa chiesa primitiva. Da sempre infatti - anche se il principio verrà formulato fra tarda età antica e Medioevo - nella chiesa «ciò che interessa tutti deve essere discusso da tutti». Ma quale sarà il futuro della prassi sinodale?
Carl Schmitt è ancora oggi un pensatore che divide, ma è indubbio che nessuno come lui sia stato capace di pensare rotture e instaurazioni dell'ordine politico e giuridico. Jean-Francois Kervégan "riparte" da Cari Schmitt in due modi, da un lato prendendone congedo quando necessario, dall'altro cogliendo i concetti che ci aiutano a reinterpretare il mondo contemporaneo: perché Schmitt, dalla sua posizione esterna e anche ostile nei riguardi dei presupposti delle nostre riflessioni sulla società moderna, ci aiuta a comprenderne le contraddizioni e ad affrontarle meglio.
La crisi economica sta cambiando la struttura della nostra società, introducendo disuguaglianze insormontabili, marginalizzando le energie più giovani, soffocando la ricerca scientifica e cosi inibendo anche la possibilità di sviluppare quelle idee e tecnologie innovative che potrebbero contribuire a guidarci fuori dalla crisi stessa. La scienza può però fornire degli strumenti chiave non solo per la comprensione dei problemi alla radice della crisi attuale, ma può anche suggerire soluzioni possibili e originali.
Derive oligarchiche, delegittimazione dei partiti, scollamento tra istituzioni e popolo, dominio dei poteri economici. Perché proprio quando la democrazia sembra diventata ovvia, la partecipazione deperisce e il potere reale diventa sempre più opaco e indiscutibile? Può rinascere un'energia politica nuova e dissidente che rompa il conformismo del discorso pubblico dominante, rilanciando la sovranità democratica e la dimensione sociale dei diritti, oggi gravemente minacciate?
Più volte ristampata e tradotta in un numero crescente di paesi, quest'opera è una rilettura originale della storia contemporanea, dove l'analisi critica del revisionismo storico - a cominciare dalle tesi di Nolte sull'Olocausto e di Furet sulla rivoluzione francese - si intreccia con quella di una serie di fondamentali categorie filosofiche e politiche come guerra civile internazionale, rivoluzione, totalitarismo, genocidio, filosofia della storia. Questa edizione ampliata analizza le prospettive del nuovo secolo. Da un lato il revisionismo storico continua a riabilitare la tradizione coloniale, com'è confermato dall'omaggio che uno storico di successo (Niall Ferguson) rende al tramontato Impero britannico e al suo erede americano, dall'altro vede il ritorno sulla scena internazionale di un paese (la Cina) che si lascia alle spalle il "secolo delle umiliazioni". Sarà in grado l'Occidente di tracciare un bilancio autocritico o la sua pretesa di essere l'incarnazione di valori universali è da interpretare come una nuova ideologia della guerra?
Gli ultimi decenni hanno visto sorgere un tema completamente nuovo: le società europee già ampiamente secolarizzate si sono trovate di fronte alla rinnovata vitalità di movimenti e fondamentalismi di natura religiosa. Per la filosofia ciò comporta una sfida doppia. Come teoria politica normativa, la filosofia deve rivedere quell'idea di stato secolarizzato che voleva espellere dalla sfera pubblica politica le comunità religiose, confinandole nel privato. Come "custode della razionalità", non può non chiedersi cosa significhi il fatto che nel cuore delle società moderne rifioriscano - quali produttive figure dello spirito - confessioni e dottrine religiose già radicate in arcaiche pratiche di culto. La sorprendente contemporaneità della religione sfida la cultura laica: fin dall'illuminismo la filosofia si era schierata dalla parte delle scienze, e aveva finito o per trattare la religione come un oggetto oscuro e bisognoso di spiegazione o per "razionalizzarla". Dobbiamo allora chiederci: come deve comportarsi una filosofia che si vede venire incontro la religione non più come una figura del passato, ma come una - sempre opaca, ma per il momento di nuovo attuale - figura del presente?
Il costituzionalismo rigido ha cambiato profondamente la natura del diritto e della democrazia, imponendo alla politica limiti e vincoli sostanziali, a garanzia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. Oggi l'intero edificio della democrazia costituzionale è aggredito, come modello teorico e come progetto politico, dall'asimmetria tra il carattere globale dei poteri economici e finanziari e i confini ancora statali del diritto e della democrazia; dall'abdicazione al ruolo di governo della politica, tanto impotente e subordinata ai mercati quanto onnipotente nei confronti dei soggetti deboli e dei loro diritti; dal generale sviluppo dell'illegalità o peggio dall'assenza di regole sui poteri, sia pubblici che privati. L'espansione del costituzionalismo e la costruzione delle sue garanzie all'altezza dei nuovi poteri economici globali è perciò il compito principale della politica e la sola alternativa razionale a un futuro di disordini, di violenze, di disuguaglianze e devastazioni ambientali, oltre che di involuzioni autoritarie e antidemocratiche.
Il diritto è un "affare tra uomini": posto da uomini per altri uomini. La positività è la sua stessa umanità. E ne svela anche l'intima artificialità, l'esser fatto con la volontà umana, e non ricevuto dal di fuori o dal di sopra. La natura sollevata contro il diritto positivo, è, anch'essa, la "nostra natura", osservata e interpretata dal pensiero umano.
Troppo a lungo si è pensato che per capire il peso del cristianesimo nella storia italiana bastasse parlare dei rapporti Chiesa-Stato o rintracciare le radici del cattolicesimo politico. Anche se è proprio su questo che è cresciuta tutta una storiografia di grande valore, chi oggi si proponga di comprendere il peso dei cristiani come tali nella storia d'Italia non si trova davanti identità astratte, ma una fede concreta che appartiene a luoghi, culture, letture, mode, ideologie diverse e le percorre tutte. Questo saggio si propone di sondare lo spessore storico di questa realtà e mostra come dimensioni trascurate - le forme della devozione o le estetiche del religioso, le culture del nemico e le concezioni del potere - siano decisive per capire gli snodi storici, ecclesiologici e politici dell'Italia, dalla sua unità fino alle cesure che segnano il nostro presente.
"Vorrei richiamare l'attenzione su alcuni aspetti di quella sostanza normativa della democrazia che dobbiamo oggi difendere dalle tendenze che vorrebbero trasformarla in una semplice maschera costituzionale dei meccanismi di mercato. Si tratta infatti di capire che cosa noi vogliamo salvare e recuperare nella costellazione posnazionale di una società mondiale in via di formazione." (dalla prefazione di Jurgen Habermas). Una delle opere principali del grande filosofo tedesco, una grande sintesi sul rapporto tra etica, morale e diritto.
Sia in Italia, sia in Francia, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy sono spesso stati percepiti come espressione di uno stesso fenomeno di degenerazione della politica, come espressione di politiche populiste e plebiscitarie che si nutrono delle nuove forme di comunicazione per incrinare i saldi principi della democrazia, i suoi meccanismi di contenimento ed equilibrio dei poteri e per realizzare nuove forme di concentrazione del potere. In entrambi i paesi una parte consistente della classe politica e del ceto intellettuale ha cercato di innalzare un fuoco di sbarramento nei confronti di questi due strani animali politico-mediatici, considerandoli del tutto estranei alla buona politica e pericolosi per la democrazia. La sovrabbondanza di discorsi polemici ha messo in ombra altre riflessioni, che, da diverse prospettive, hanno consentito di cogliere le ragioni più profonde del successo di queste due figure. Sofia Ventura analizza le narrazioni e le storie raccontate dai due leader per far conoscere loro stessi, la loro idea della politica, del presente e del futuro; indica quali sono le somiglianze tra i due ma al tempo stesso sottolinea le importanti differenze e più in generale affronta i temi della leadership nelle democrazie contemporanee, dell'uso sistematico e consapevole del raccontare storie (storytelling) come forma del marketing politico, del rapporto tra media e politica e della conseguente affermazione di una politica spettacolarizzata.
Quali sono i confini della libertà? Tradizionalmente si è pensato che si estendessero alle cose che possediamo, alle parole che pronunciamo, agli incontri che facciamo e che arrivassero al corpo solo per rifiutare la violenza o la detenzione senza diritto. Gli sviluppi della biotecnologia e i casi della bioetica hanno mostrato che la libertà si estende fin dentro il corpo. Ma per poterlo fare, la libertà deve affrontare avversari vecchi e nuovi. Deve affrontare le concezioni religiose e conservatrici che hanno sempre concepito il corpo e alcuni suoi momenti cruciali, come la procreazione, la sessualità e il morire, come sfere indisponibili alla scelta e alla libertà umana. E deve affrontare anche avversari nuovi che trattano la vita umana dal punto di vista medico e degli interessi sociali alla salute. Piergiorgio Donatelli difende la libertà sulla propria vita intima, nella procreazione, nella sessualità e nel morire: difende la possibilità che anche questi momenti siano governati in modo radicale dalla propria soggettività, dal proprio punto di vista sulle cose. Il volume smonta le argomentazioni religiose e conservatrici, ma affronta anche i pericoli sottesi alla medicalizzazione dei corpi. Discute il quadro liberale e mostra l'inadeguatezza di trattare la libertà come un principio neutrale e astratto, come è stato dipinto in genere dai teorici liberali. La libertà va vista invece come un modo specifico di affrontare la vita, che si vede in cose...
Se noi donne fossimo umane, saremmo trasportate come merce pronta a essere venduta dalla Thailandia al bordelli di New York? Saremmo date in sposa ai sacerdoti, in cambio di denaro per espiare i peccati della nostra famiglia, o per migliorare le prospettive terrene della nostra famiglia? Ci sarebbe impedito di imparare a leggere e a scrivere? Avremmo così poca voce in capitolo nelle deliberazioni pubbliche e nel governo del paesi in cui viviamo? Saremmo sessualmente molestate all'interno delle nostre famiglie? Saremmo stuprate durante i genocidi per terrorizzare, espellere e distruggere le nostre comunità etniche, o stuprate durante la guerra non dichiarata che si svolge ogni giorno e in ogni paese del mondo nel cosiddetto tempo di pace? E, se fossimo umane, e queste cose accadessero, non ci sarebbe nulla da fare in proposito?": Catharine A. MacKinnon non ha dubbi, quel che accade alle donne ha poco a che fare con i diritti umani e c'è ancora moltissimo da fare, perché nonostante i buoni propositi e le normative, la società resta sessista e a molte, troppe donne è negata la dignità oltre che l'eguaglianza. MacKinnon, avvocatessa e ordinaria di Diritto alla University of Michigan Law School è da decenni impegnata a modificare un diritto che riflette il potere maschile. Questa raccolta di scritti copre un ampio spazio temporale, dai primi anni '80 fino al 2000.
La concezione più comune del piacere lo identifica come l'esito di un processo, che soddisfa un bisogno o un desiderio oppure riduce la tensione causata da quello stesso bisogno o desiderio. In questa concezione, il piacere si identifica con uno stato di quiete, e al limite di morte; non sorprende dunque che in Freud il principio del piacere diventi principio del Nirvana e si sposi infine all'istinto di morte. Nella concezione alternativa articolata da Bencivenga sulla scorta di autori come Kant, Hegel e soprattutto Aristotele, il piacere si accompagna invece sempre a un'attività condotta con passione e partecipazione, ed è sempre espressione di vita. Non esiste anzi il piacere, inteso come stato indifferenziato, identico a sé stesso, nelle condizioni più diverse: esistono invece i molteplici piaceri corrispondenti alle molteplici attività perseguite dagli esseri umani: da quelle più elementari, metaboliche, come lo sfamarsi, il dissetarsi o il respirare, a quelle più complesse e sofisticate come il suonare uno strumento o l'immergersi in una riflessione filosofica. L'ontologia del piacere conduce così naturalmente a una sua etica: alla necessità di scegliere fra le occasioni di piacere che ci vengono di volta in volta offerte in modo da privilegiare e promuovere la nostra comune umanità.
Carl Schmitt e Hans Blumenberg erano due opposti speculari: il primo critico acuto e radicale della modernità, il secondo teorico della sua piena legittimità e autonomia. Ma entrambi interni alle correnti più innovative e originali della cultura contemporanea. Estraneo a ogni nostalgia tradizionalista il primo, alieno da ogni ingenua retorica progressista il secondo. Furono avversari scientifici, Hans Blumenberg e Carl Schmitt: le rispettive concezioni sul fondamento e la giustificazione delle pretese conoscitive dell'epoca moderna erano radicalmente differenti e la discussione a riguardo proseguì anche in una serie di lettere che si scambiarono tra il 1971 e il 1978. Tale corrispondenza e i testi ritrovati nel lascito di Blumenberg documentano una controversia assai significativa, da cui emergono scambi di tipo scientifico e biografico. Ma furono avversari "necessari" l'uno all'altro, come due interlocutori che sanno di trovare nel confronto con l'altro la propria vera "questione". La replica di Carl Schmitt ha influito in maniera decisiva sul rifacimento della "Legittimità dell'età moderna" di Blumenberg e ha lasciato tracce evidenti sino alla successiva "Elaborazione del mito". Per questo motivo la presente opera riporta brani da entrambi i volumi, oltre a tutto lo scambio epistolare, testi inediti provenienti da opere postume di Blumenberg ed estratti da altri saggi già pubblicati.
II tratto più caratteristico del dibattito pubblico dell'ultimo trentennio è stata la tendenza a una progressiva spoliticizzazione. Un processo che ha investito tanto il piano dei fatti, delle strutture sociali e istituzionali, quanto quello delle teorie e delle narrazioni. Cause e sintomi non mancano: la progressiva demolizione di tutto ciò che è pubblico; lo sdoganamento del qualunquismo più becero; l'inaridimento delle radici della vita democratica, delle sue precondizioni, che ha trasformato la sfera pubblica in fiction, il popolo in 'pubblico'; la sempre più frequente abdicazione delle istituzioni agli interessi e alla legge del più forte; la paura del conflitto e la criminalizzazione del dissenso (anche il più democratico e legalitario); la colpevole chiusura della politica tradizionale in una logica separata e autoreferenziale da piccoli apparati; la fuga degli intellettuali nel formalismo o nel cinismo. Un processo che si è potuto affermare perché preparato e accompagnato culturalmente. La crisi delle ideologie novecentesche ha infatti alimentato una serie di luoghi comuni (ideologici): che la politica non dovesse più proporre grandi idee né occuparsi della costruzione delle identità; che l'azione politica si riducesse essenzialmente a tecnica, nella migliore delle ipotesi a buona amministrazione; che la stessa dimensione politica in quanto tale fosse in qualche modo esaurita, e con essa le speranze e le ambizioni connesse al progetto moderno....
«Credo nella capacità che hanno le idee di favorire importanti cambiamenti sociali e politici. Credo inoltre nella forza progressista della vita e nella capacità delle persone di combattere e di ottenere una qualità di vita compatibile con la loro dignità umana e il loro benessere.»
Abdullahi Ahmed An-Na'im appartiene a pieno titolo alla corrente dell'Islam riformista e può essere considerato uno dei riformatori oggi più noti e più discussi per la radicalità e il rigore argomentativo delle sue posizioni revisionistiche. L'importanza del suo contributo intellettuale sta nel tentativo di dare vita a una corrente di pensiero innovativo all'interno del mondo islamico. Altrettanto rilevante è la sua esplicita proposta di dialogo fra l'Islam e la modernità occidentale alla ricerca di un'intesa su alcuni essenziali temi giuridici e politici che renda possibile la comprensione reciproca e quindi la pace. Sarebbe molto grave se la sua voce non venisse ascoltata – nel mondo islamico, in Europa, negli Stati Uniti – e se il suo ottimismo venisse cinicamente irriso e squalificato.
Dalla Presentazione di Danilo Zolo
Questo libro nasce da una doppia interrogazione: sulla democrazia e sulla situazione attuale del nostro Paese. Si sofferma su alcuni classici della democrazia fra Otto e Novecento e su questo sfondo interpreta il fenomeno del berlusconismo. È stato infatti Tocqueville a segnalare i rischi dispotici della democrazia con due esiti possibili: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi. Ma la storia europea moderna ha dimostrato che la prima possibilità è più concreta della seconda: quello che, infatti, sta crescendo è un 'potere sociale' che assume il controllo di tutti, togliendo autonomia e responsabilità ai singoli, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione della loro vita. Non si tratta di un problema solo italiano; né di un morbo che affligge solo la destra. È una tendenza dell'epoca nella quale si intrecciano dispotismo, plebiscitarismo, populismo, dinamiche di tipo carismatico. Per questo «il berlusconismo è una forma patologica della democrazia dei 'moderni'; appartiene alla storia e alle metamorfosi della democrazia occidentale; e in questo senso, come oggi riguarda l'Italia, così può riguardare anche altre democrazie europee».s
In breve
Esistono valori universali? Dove possiamo collocare la dimensione comune a tutti gli uomini? Come concepire il dialogo fra culture? È infatti giunto il momento di abbandonare sia l’universalismo superficiale che il relativismo pigro: di riqualificare attraverso il loro versante negativo il carattere assoluto dei diritti umani; di ripensare il dialogo fra culture non più in termini di identità o differenza bensì, a partire dal piano comune dell’intelligibile, in termini di scarto e fecondità; di considerare le culture come tante risorse da esplorare, minacciate però dall’uniformazione del mondo contemporaneo. Solo la pluralità delle culture ci consentirà di sostituire il mito eterno e stereotipato dell’Uomo con l’infinito dispiegamento dell’umano che attraverso di esse si sviluppa e si riflette.
Indice
Premessa - Itinerario - I. L’universale - II. L’uniforme - III. Il comune - IV. Dalla nascita della «polis» all’estensione cosmopolitica del comune - V. L’altro piano: l’universale, categoria logica della filosofia - VI. Primo incontro tra universale e comune: la cittadinanza romana viene estesa all’impero - VII. San Paolo e il superamento dei comunitarismi nell’universalismo cristiano - VIII. Esiste una questione dell’universale nelle altre culture? - IX. Esistono nozioni universali? Statuto ideale di un universale culturale X. I diritti umani: concetto di universalizzante - XI. Né sintesi, né denominatore, né fondamento: da dove proviene il comune? - XII. Le «culture»: scarti linguistici e risorse del pensiero - XIII. Costruire il dialogo tra culture in opposizione all’uniformazione diffusa: l’auto-riflessione dell’umano
«La storia – si dice – la scrivono i vincitori, ma il problema è capire chi sono i vincitori». Anche se questo è un campo che si presta ai paradossi, è ben vero che molto dipende dalla periodizzazione che si adotta: cioè dal senso che si attribuisce a determinati eventi, dalla lettura che se ne dà nonché dalla comparazione di differenti, possibili, analogie. L’analogia come strumento principe della conoscenza storica è al centro di questo libro, il cui tema dominante è come si pensano i fatti storici, ed il cui interlocutore costante è il revisionismo storiografico. Perciò il lettore si imbatte dal principio alla fine nei due eventi archetipici della nostra storia, la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa, posti sul banco di prova della comprensione analogica e degli andirivieni mentali del revisionismo.
Indice
Prefazione Trent’anni dopo - Nota - I. L’analogia come forma della comprensione storica - II. Macroanalogia, microanalogia, narrazione «orientata» - III. Analogia e politica: l’analogia diagnostica - IV. «Pensare» la Rivoluzione francese: la tolleranza e la virtù - V. Tra i barbari e l’impero: analogia o cliofilia? - VI. Il filantropo e il politico - Appendice - Conclusione L’inquietante mestiere dello storico - Indice dei nomi