"Ho voluto sapere tutto di loro. Leggere, per quanto mi fosse possibile e in lingue che mi fossero accessibili, tutto quello che avevano scritto, saggi, romanzi, epistolari, interviste, e i libri che sono stati loro dedicati, compresi quelli dei nemici e dei detrattori che nel corso del tempo hanno voluto ossessivamente demolirne le opere e persino, troppo spesso, la persona. Ho voluto conoscere le loro vite, i dettagli conturbanti ma vitali, i colpi della fortuna e, molto più spesso, della sventura che ne anno scandito le esistenze. Approfondire ciò che pensavano del mondo, anche quando mi sembrava, anzi ne ero certo, che avessero commesso degli errori. Non mi è parso inopportuno addirittura intrufolarmi negli amori problematici e politicamente scandalosi della Arendt, nelle nevrosi da seduttore compulsivo - tubercolotico fascinoso con la sua Gauloise sempre tra le labbra - di Camus, nelle malinconie solitarie degli ultimi anni di Orwell - tubercolotico ma poco seduttivo - alla ricerca di una compagna che gli fosse vicina durante l'agonia. Non mi era mai successo prima, e non mi sarebbe più successo dopo. Dubito che possa accadere ancora. Arrivati a una certa età si è meno disposti a trovare nuovi eroi."
«Che libri leggi? Che film hai visto? Che musica ascolti? Quali oggetti acquisti, e di quali senti di non poter fare a meno? Cosa mangi, e che rapporti hai con la medicina, con la scienza? Quali vestiti indossi? E che mi dici della politica? Credi in Dio? Ti soddisfa il mondo così com'è, o vorresti cambiarlo? E hai fiducia che possa essere cambiato?». Un padre nato negli anni Cinquanta tempesta la figlia venticinquenne con domande pressanti, talvolta invadenti, ma sempre animato dalla voglia incontenibile di conoscere i suoi interessi, le sue scelte di vita, i suoi dolori e le sue speranze e, attraverso di lei, quelli della generazione dei cosiddetti «millennials», dai quali sente di essere diviso da una voragine psicologica e culturale. Le risposte che riceve lo lasciano dubbioso, a volte incredulo, recalcitrante e persino adirato, ma non spengono il suo desiderio di capire come va il mondo di adesso, quale direzione ha preso, con quale linguaggio parla, con quali immagini si emoziona. E così, per farsene un'idea più chiara, si ritrova a rubare brandelli di conversazione, a scavare nei ricordi, a spiare gergo, gesti e gusti, a scrutare comportamenti e rituali collettivi (la figlia in compagnia degli amici) che spesso precludono ogni genere di dialogo. Alla fine scoprirà che le tante, drastiche differenze (l'abbandono completo dei giornali, la sacralità della «natura» contrapposta alla scienza e alla tecnica, il diverso valore attribuito alla medicina, la preferenza accordata all'erboristeria rispetto alla farmacia, il ruolo centrale assunto dalla qualità del cibo e dalla cura del corpo, il culto del vintage), al pari delle insospettabili affinità (l'amore per i libri, ancora intatto nonostante certe statistiche, o la passione per la musica, per il cinema e per i musei, sia pure virtuali), descrivono una realtà in cui tutto muta a una velocità forsennata. Eppure qualcosa resta, anche se non sempre sappiamo riconoscerlo fino in fondo. Nel suo spiritoso e autoironico racconto di cose vissute, che ruota attorno a un sapiente intreccio di sfera personale e sfera pubblica, Pierluigi Battista è un padre che non sale in cattedra, ma si sforza di ascoltare i pensieri e le ragioni della figlia Marta, senza però mai mancare di far sentire la sua voce quando vede che alcuni valori essenziali di ieri rischiano di andare perduti nel grande cambiamento che sta rivoluzionando il mondo.
"Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei 'ragazzi di Salò'. Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla 'gabbia del gorilla' in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di 'esule in Patria' nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine."
"Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei 'ragazzi di Salò'. Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla 'gabbia del gorilla' in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di 'esule in Patria' nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine."
Continuano a bruciare libri. Sulle pubbliche piazze. O nelle piazze virtuali: i piromani d'oggi si dedicano ai social network. Ma chi sono i vecchi e nuovi incendiari? Dall'Inquisizione a Savonarola, da Hitler a Mao fino al caso Salman Rushdie, l'intreccio tra le fiamme dei roghi e le maglie della censura ha accompagnato in modo sorprendente tutta la storia del libro. Nel secolo dei Lumi più che nel Medioevo, tra i colti più che tra gli ignoranti, a sinistra non meno che a destra. Perché i libri sono davvero pericolosi, non sono la solida e rassicurante fonte di Bene e di Bellezza raccontata nella liturgia dolciastra degli appelli alla lettura. Queste pagine sono una difesa appassionata dei libri, ma anche una sferzata contro i luoghi comuni che li accompagnano. Perché forse a bruciarli non sono sempre i nostri nemici: "Guardiamoci attorno, guardiamo chi abbiamo al nostro fianco, forse il piromane è tra noi".
Il sesso nell'epoca della sua riproducibilità tecnica - ovvero del Viagra e della giovinezza artificiale. È il tema della breve opera a cui sta lavorando P., in un autoironico gioco intellettuale, quando arriva il fulmine che sconvolge la sua vita: alla compagna, Silvia, viene diagnosticato un tumore non operabile. I quindici mesi che seguono sono un corpo a corpo spossante con la malattia, che ribalta priorità, ruoli, senso. Gli inevitabili, temporanei cedimenti alla disperazione non fiaccano la resistenza coraggiosa di Silvia, che assapora con avidità straziante momenti e sensazioni quotidiani: una passeggiata, una cena con gli amici, un film, una mostra. Fino all'ultimo dei suoi giorni. E mentre P. si confronta con l'universo simbolico e reale della malattia, teso tra scienza e pensiero magico, sprazzi dell'abbandonata ricerca sul sesso si intromettono nei suoi pensieri. Tormentandolo con la frivolezza del dramma estetico dell'invecchiare male mentre Silvia fa i conti con un destino ben più crudele: non poter invecchiare affatto. Dal cortocircuito tra queste due dimensioni, dallo scandalo di questa vicinanza indicibile, eppure inevitabile, tra sesso e morte nasce questo libro. In quest'opera singolare, Pierluigi Battista si confronta con un nodo cruciale della contemporaneità: la tensione tra desiderio e pensiero della fine, tra narcisismo e accettazione del limite. Ed esplora con lucidità appassionata la realtà inesorabile della perdita e la profondità dell'amore.
CARO AMICO CHE PASSI IL TEMPO A INDIGNARTI CONTRO I CRIMINI VERI O PRESUNTI DI ISRAELE, CREDI CHE ESISTA UN ANTISIONISMO SENZA ANTISEMITISMO?
“Lascia che le mie parole echeggino nel profondo della tua anima: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei.”
— Martin Luther King
A più di sessant’anni dalla Seconda guerra mondiale, uno spettro si aggira per il pianeta: l’antisemitismo.
Oggi però si declina nel dibattito politico e si annida nelle coscienze in modo molto più subdolo, grazie a chi dichiarandosi tollerante e pacifista si nasconde dietro la bandiera dell’antisionismo per condannare sempre e comunque la politica di Israele, con tanto di boicottaggi nei supermercati, nelle università, nello sport. Peccato che nessuno di questi virtuosi censori batta ciglio per i curdi, gli uiguri, gli uzbeki, per i drammi in Somalia, in Ruanda e in Eritrea: se il colpevole non è Israele non vale la pena mobilitarsi. Strano cortocircuito, quello per cui le sbandierate migliori intenzioni sfociano nei peggiori luoghi comuni: le lobby, la violenza intrinseca, il popolo eletto e dannato. Strano controsenso, quello di chi è disposto ad allearsi con i responsabili di violazioni di diritti umani, stragi e genocidi pur di attaccare uno Stato che difende semplicemente il proprio diritto all’esistenza. E che invece è capace di lottare per la pace, anche contro se stesso e le frange interne più estreme, come dimostrano gli scioperi dopo le stragi di Sabra e Shatila, o le proposte d’intesa avanzate dal primo ministro israeliano Ehud Barak nel summit di Camp David.
Caro amico antisionista, concedi un attimo di pausa ai tuoi pregiudizi, è ciò che chiede Pierluigi Battista in questa lunga e appassionata lettera indirizzata a tanti antisemiti più o meno inconsapevoli. Perché dietro la buonafede o le belle parole di chi si finge imparziale, dietro l’irresponsabile conformismo, dietro tanta virtuosa indignazione si cela un vecchio cancro ideologico che ha già fatto milioni di vittime.
Dove sono finiti gli intellettuali
irregolari, gli unici che possano
resuscitare la cultura italiana?
Uno spettro si aggira per l’Italia: solo questo è rimasto della vittima eccellente del nostro tempo, la cultura. Si è spenta, o a essere ottimisti è in coma, l’idea di pensiero come valore civico e civile, come vero sforzo di comprensione del reale, come libertà. Avevano già inflitto un serio colpo alla cultura i linciaggi di partito come quello a Hannah Arendt. L’hanno ridotta in fi n di vita terribili silenzi come quello sul caso Solzenicyn. Le stanno dando il colpo di grazia le dietrologie, dall’11 settembre alle intercettazioni telefoniche; l’inesausta rivalutazione dei dittatori altrui, da Castro a Chávez; il pensiero doppio di un Nobel come Saramago che tuona contro la censura di un libro fotografico blasfemo (per i cattolici) dopo averla invocata per vignette altrettanto blasfeme (ma per gli islamici). Che ne è stato degli irregolari come George Orwell e Albert Camus, dei grandi intellettuali anticonformisti come Georges Bernanos e Simone Weil, che tradirono la loro appartenenza per non tradire se stessi? L’arma del delitto ultimamente è sempre il conformismo, che strumentalizza la realtà e distrugge gli individui a colpi d’ideologia. E come in un romanzo giallo troppo sperimentale, alla fine l’assassino coincide con la vittima: è la casta culturale italiana che, con il suo strabismo e i suoi pregiudizi, ha ucciso la cultura. La penna pungente di Pierluigi Battista individua e spietatamente trafigge la miopia intellettuale e l’incubo revisionista, i nuovi oscurantismi e il laicismo sfrenato, i germi del conformismo responsabili della cancrena del dibattito italiano. Ma con questo libro cerca anche di iniettarli come un antidoto nel pensiero di politici, scrittori, artisti, filosofi , intellettuali. Colpirne cento per educarne almeno uno.
Nell'estate 2006, il Premio Nobel per la letteratura Günter Grass rivela nella sua autobiografia di essersi arruolato, diciassettenne, nelle SS. Lo scandalo dilaga, disseppellisce vecchi rancori, chiama in causa i nomi più noti della cultura tedesca. E come un'onda di marea riporta alla luce il panorama sommerso e accidentato dei rapporti tra intellettuali e totalitarismi in Europa. È legittima infatti la domanda: e i tanti Günter Grass italiani? All'indomani del fascismo anche l'Italia piombò in un gorgo di odio, rivalità e tradimenti in cui l'imperativo categorico era rinfacciare i trascorsi altrui all'ombra della dittatura prima che venissero denunciati i propri. Per sottrarsi all'epurazione, l'unica via fu cancellare le tracce, con strategie diverse poi perpetuate e raffinate per decenni. Negare l'evidenza. Truccare i calendari. Sublimare il passato nelle opere artistiche del "dopo". E lamentare all'infinito la propria "generazione perduta", smarrita, incosciente. Sulla scorta di un ricco tessuto di citazioni e confronti, Pierluigi Battista analizza la malattia di un dopoguerra che, contrapponendo un passato da demonizzare a un presente mitizzato, ha impedito all'Italia di assimilare la "metamorfosi collettiva" dal fascismo all'antifascismo. Inserendo la vicenda del rapporto negato tra intellettuali e regime in un quadro storico-politico più ampio, contribuisce a spiegare una ferita che ancora oggi lacera l'Italia.