Dante e Beatrice attraversano la luna senza scompaginarla, come un raggio di luce entra nell'acqua senza turbarla. Un'immagine che diventa il modello della relazione tra individui. Certo, Dante intende riformare l'umanità degenerata e combattere gli eretici, ma nella terza cantica ci consegna un'altra verità, più nascosta e apparentemente impolitica, racchiusa in quella abbagliante epifania lunare. Attorno alla sacralità e inviolabilità dell'altro vengono convocate alcune "guide novecentesche" (Stein, Arendt, Zambrano, Levinas), capaci di ispirare un modello di conoscenza non più fondato sul dominio, ma su una passività ricettiva. La "mitezza", elogiata da Norberto Bobbio, ci ricorda che l'imperativo morale più alto non è tanto aiutare il prossimo quanto lasciarlo essere quel che è. In questa etica del rispetto - unico modo per dare realtà all'altro - sta la lezione sempre attuale di Dante, che dalla sua "distanza" giudica il nostro presente premendo su di noi con gli interrogativi più urgenti. Solo se ci accostiamo a lui come se la "Commedia" fosse stata scritta per noi, potremo ricavarne ragioni di vita.
Come educare oggi un giovane? In che modo riformulare i dilemmi dell'etica dopo che gli dèi hanno abbandonato i nostri cieli? Come ristabilire quel legame tra bene e realtà, e tra male e irrealtà? L'"inattuale" Dante, attraverso l'ausilio involontario di Simone Weil, può darci indicazioni preziose. La filosofa francese ha scritto: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie». Alla luce di questa intuizione La Porta individua l'idea morale all'origine della «Commedia», dimostrando come Dante può aiutarci a ridefinire un'etica che non consiste tanto in imperativi categorici ma che ci permette di far esistere il mondo, nella sua inviolabile, corposa, mutevole alterità. E che ci chiede di "ascoltare" gli altri proprio al fine di farli esistere, e di far esistere così anche noi.
In questo dialogo brioso e colmo d'ironia, il critico letterario Filippo La Porta veste i panni dell'umanista un po' interdetto che non capisce l'economia e non se ne sente capito, mentre l'economista Mauro Scarfone illustra maieuticamente le fondamenta della sua anomala scienza. I due intellettuali ci fanno entrare in modo semplice e divertito nell'universo dell'homo "oeconomicus", chiarendo concetti-chiave dell'economia contemporanea che si trovano quotidianamente sui giornali e spesso risultano indecifrabili. Dallo sferzante confronto i lettori potranno acquisire molte informazioni utili su una delle scienze più importanti nella nostra vita.
Nel mondo nuovo ognuno di noi è "indaffarato": sia nell'ansioso tentativo di restare sempre connesso sia nel condividere, nello scambiarsi qualcosa. La cultura umanistica, ridotta a materia per specialisti è tradita da se stessa per aver giustificato la barbarie, interroga oggi la nostra concreta esistenza. La tradizione può tornare a parlare. Le sue parole, scritte sui muri della metropolitana e nello spazio immateriale della Rete, invocano di essere messe alla prova. Le nuove generazioni leggono poco, appaiono smemorate, fanno troppe cose simultaneamente e sono meno abili a manipolare la lingua, però chiedono alle idee di incarnarsi in pratiche di vita (altrimenti non vi si appassionano), e tentano di rideclinare il concetto di intelligenza (come coerenza tra ciò che uno dice e ciò che uno fa) e quello di impegno (legandolo al quotidiano, non all'ideologia). E almeno nelle minoranze più attive l'etica vissuta prevale sul "culturalismo" e sul sapere libresco, l'umanità tangibile su un umanesimo disincarnato, l'esempio concreto sulle idee astratte.
Perché un'antologia poetica oggi? L'Italia, paese di poeti, oltre che di santi e navigatori, sembra affetta da una singolare schizofrenia: da una parte ha smesso di leggere la poesia, dall'altra tende a celebrarla come unico certificato di creatività (contiamo due milioni di poeti!). In questo viaggio alla riscoperta dei principali nomi della poesia italiana, da Dante a Zanzotto, passando - ne citiamo solo alcuni - per Petrarca, Ariosto, Tasso, e ancora Leopardi, Saba, fino a Pasolini e Amelia Rosselli, e per alcuni imprescindibili autori stranieri - tra cui Keats, Baudelaire, Rimbaud, ma anche Hikmet e Szymborska -, il critico e saggista Filippo La Porta rivendica il valore dei versi nel mondo contemporaneo. Oggi più che mai l'esperienza del linguaggio poetico, quella del corpo materiale del testo che si apre a innumerevoli orizzonti di senso, è un prezioso antidoto contro l'assuefazione a una comunicazione onnipresente e standardizzata: "equivalente emotivo del pensiero" (Eliot), la poesia risponde al nostro bisogno di un "sapere" degli affetti, di una scienza "esatta" delle relazioni invisibili (e non ovvie) tra le cose.
Pensata come complemento della "Storia della letteratura italiana" (6 voli., 2005), questa serie di "Profili" ne ripropone la formula introduttiva. Collocandolo nel quadro storico e sociale della sua epoca, ogni volume presenta uno dei grandi autori della tradizione letteraria italiana, ne discute criticamente le opere e ne illustra la poetica.
Attraverso quasi 150 recensioni di libri usciti nell'ultimo decennio (romanzi, saggi e reportage) un critico 'militante' riannoda i fili di una narrazione a più voci sul nostro presente. La 'scommessa' di queste pagine è che nella letteratura italiana attuale si rispecchi il Belpaese: mitologie e linguaggi, stili e visioni, miserie e zone di resistenza.
Gli autori, le città:
Carmine Abate: Calabria; Edoardo Albinati: Roma; Cosimo Argentina: Taranto; Gianfranco Bettin :Venezia; Gianni Biondillo: Milano; Gianni Bonina: Catania; Giosuè Calaciura: Palermo; Gaetano Cappelli: Potenza; Mauro Covacich: Trieste; Giuseppe Culicchia: Torino; Giovanni Di Iacovo: Pescara; Angelo Ferracuti: Fermo; Gianluca Floris: Cagliari; Marcello Fois: Bologna; Roberto Garlini: Pordenone; Chiara Marchelli: Aosta; Bruno Morchio: Genova; Valeria Parrella: Napoli; Antonio Pascale: Caserta; Mauro Pianesi: Perugia; Andrea Piva: Bari; Alessandro Tamburini: Trento; Marco Vichi: Firenze.
Ventitre interviste ad altrettanti scrittori italiani. Il tema: la città, quella in cui vivono o sono vissuti. L’intento: tracciare una mappa letteraria del nostro paese nel terzo millennio. L’assortimento degli scrittori è composito: alcuni molto noti (Culicchia, Fois, Parrella, Albinati, Pascale, Cappelli, Bettin, Covacich), altri cosiddetti «di genere» (Morchio e Vichi), altri ancora quasi esordienti (Di Iacovo, Pianesi). Il percorso lungo cui Filippo La Porta, critico tra i più rigorosi e agguerriti – a partire da un progetto di esplorazione dello spazio urbano avviato da Anci Rivista –, accompagna ogni autore, mira a intrecciare il profilo individuale di ciascuno di loro con una sorta di ricognizione storico-critica delle molteplici rappresentazioni letterarie delle città in cui vivono. Ed ecco che la letteratura, spinta ai margini nell’epoca dei linguaggi audiovisivi, si prende una rivincita e mostra la sua vocazione a rappresentare la realtà. Molti romanzi italiani di questi anni hanno saputo raccontare le complesse trasformazioni del nostro paese, e in qualche caso hanno intuito momenti di svolta e di rottura anche traumatici. Oggi i dipartimenti di architettura invitano gli scrittori per descrivere meglio il territorio, e i grandi quotidiani si affidano a loro per i reportage sui quartieri urbani. Una tendenza che viene da lontano, se pensiamo a scrittori americani come Paul Auster e Jonathan Lethem, cittadini del mondo ma anche ossessionati dalla loro «Brooklyn», dal loro quartiere, un po’ reale e un po’ immaginario.
Giuseppe Leonelli firma un saggio panoramico sulla critica degli anni '80. È un decennio in cui sono ancora attivi alcuni dei maggiori rappresentanti della cultura letteraria nazionale ed escono libri fondamentali come "Una pietra sopra" di Italo Calvino, alcuni dei più avvincenti saggi di Macchia, quali "Pirandello o la stanza della tortura", "Tra don Giovanni e Don Rodrigo", "Scenari secenteschi", "Proust e dintorni", cui si affiancano "Penna papers e Scritti servili" di Cesare Garboli, e testi vari di Baldacci, Citati, Magris, Calasse, Asor Rosa. Filippo La Porta prende idealmente la "staffetta" da Leonelli per introdurre il lettore agli anni '90, quando una "nuova critica" comincia a consolidarsi attraverso articoli, convegni, primi bilanci, e in forte intreccio con la narrativa. I compiti che si pone la nuova critica appaiono a volte eccessivi, ma fondamentali: l'analisi dei testi come discorso sulla società italiana, la critica letteraria come critica della cultura, il tentativo di ripensare il presente alla luce di una tradizione ancora viva, il contributo alla formulazione di una idea di modernità.
Perché parlare di maestri in un tempo in cui l'esperienza è così impoverita e accelerata da non essere quasi più trasmissibile? E chi è oggi maestro per un individuo adulto, cresciuto in una società senza padri? Che cosa può insegnargli davvero? Filippo la Porta si pone delle domande inattuali, e chiama a raccolta alcune grandi figure del Novecento - lontane ma non remote che sembrano scomparse dall'attuale orizzonte culturale, disinnescate da morte dopo essere state scomode o inassimilabili in vita: Nicola Chiaromonte, George Orwell, Simone Weil, Albert Camus, Ignazio Silone, Arthur Koestler, Carlo Levi, Hannah Arendt, Cristopher Lasch, Pier Paolo Pasolini, Ivan Illich. A ognuno riserva un profilo da cui emergono i tratti e le disposizioni comuni: criticano l'esistente per amore della realtà; sono radicalmente individui, schierati ma privi di appartenenza; la loro è una religiosità senza fede; praticano un saggismo divagante, senza lacci letterari.