600.000 italiani rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale di Mussolini dopo l'8 settembre. Furono trasformati in lavoratori coatti da Hitler e oltre 50.000 persero la vita. Protagonisti del primo 'referendum antifascista', questi italiani hanno sempre fatto fatica a trovare un riconoscimento nella memoria della guerra e della Resistenza e in questi ultimi anni sono diventati un oggetto di contesa politica. Di recente hanno preso a essere più considerati - dalle istituzioni, dalla retorica celebrativa, da un certo associazionismo - ma solo come prigionieri maltrattati: il loro no al fascismo di Salò ne risulta quindi depotenziato di ogni valore morale e politico. Sono tornati a essere dei prigionieri e non dei 'resistenti senz'armi'. Il libro ricostruisce questo cambiamento: dal silenzio al riconoscimento, alla retorica celebrativa e al depotenziamento morale e valoriale. Documenta come l'Italia della seconda repubblica sia anche un tempo di contese memoriali, un tempo nel quale la Resistenza rischia di finire accantonata.
L'8 settembre 1943, con l'occupazione nazista del nostro Paese, poco meno di un milione di militari italiani vennero disarmati e catturati dai tedeschi. Alcuni riuscirono a dileguarsi nel caos di quelle settimane, alcuni - una volta entrati nei campi di prigionia - aderirono alla Repubblica sociale italiana e tornarono in Italia. Ma la stragrande maggioranza, circa 600.000, preferì rimanere nei campi di prigionia piuttosto che aderire alla Rsi. Colpito dal rifiuto dei prigionieri, nell'estate del 1944 Hitler li trasformò in 'lavoratori volontari', ovvero coatti. Per le pessime condizioni di vita nei campi, circa 50.000 persero la vita. Gli Internati militari italiani (Imi), dunque, furono protagonisti del primo 'referendum antifascista', ma hanno sempre fatto fatica a trovare un riconoscimento nella memoria della guerra e della Resistenza e in questi ultimi anni sono diventati un oggetto di contesa politica. Il loro 'No' al fascismo di Salò è stato depotenziato di ogni valore morale e politico. Sono tornati a essere dei prigionieri e non dei 'resistenti senz'armi'. Un esempio di 'battaglia sulla memoria' nella quale la Resistenza rischia di essere di nuovo accantonata.
L'oblio e il silenzio sembrano essere caduti, nei decenni della Repubblica, sulla vicenda delle centinaia di migliaia di internati militari italiani, cioè i soldati prigionieri dei tedeschi chiusi nei lager di prigionia o costretti al lavoro coatto fra il settembre del 1943 e la primavera del 1945: decine di migliaia vi persero la vita e i loro parenti incontrarono grosse difficoltà, dopo la guerra, per cercare di ottenere i giusti risarcimenti. In questo volume gli autori, sulla base della consultazione di fonti inedite e di un uso innovativo di quelle già note, portano alla luce decine e decine di storie degli Imi morti e dei loro parenti, mostrando diverse modulazioni di «strazianti incertezze» che vissero sia i soldati nei luoghi di prigionia sia i loro cari in patria nell'attesa del loro ritorno, e persino i loro familiari affannatisi nel tentare di ottenere - a volta per decenni - un riconoscimento da parte dello Stato democratico.
Il 24 ottobre 1917, cento anni fa, truppe austroungariche e tedesche travolgevano le malpreparate trincee italiane sul Carso fra Plezzo e Tolmino, attorno a Caporetto. L'attacco portò alla conquista austriaca di tutto il Friuli, minacciando addirittura la pianura padana. Il fronte italo-austriaco precipitò sino al Piave e il rischio per l'Italia liberale fu enorme. Il comandante supremo Luigi Cadorna gettò invece la responsabilità sulle truppe, accusandole di aver ceduto, e su quelli che considerava gli avversari interni della guerra: socialisti, cattolici, liberali neutralisti. Nacque la paura che Caporetto fosse stata uno sciopero militare, quasi una rivolta. Qualcuno si apprestava in Italia a "fare come in Russia"? Disfatta militare o campanello d'allarme politico? Il libro ricostruisce lo scontro militare e politico giocato attorno a Caporetto e rilegge le spiegazioni che ne sono state date, da allora sino ad oggi.
Il 3 ottobre 1935 il regime fascista attaccò l'Etiopia. Dopo sette mesi di combattimenti, nell'isolamento internazionale, nel maggio 1936 truppe italiane entravano in Addis Abeba e Mussolini dichiarava costituito l'Impero, l'Africa Orientale Italiana. Ma la conquista di fatto non fu mai portata a termine: dal 1936 al 1940 si susseguirono continue operazioni militari di "pacificazione coloniale". Poi il Corno d'Africa divenne uno dei teatri della seconda guerra mondiale e nel 1941 fu il primo territorio perso da un regime dell'Asse. In fondo, la guerra d'Etiopia non era finita nel maggio 1936: finì con la sconfitta italiana del 1941. Nel frattempo però all'AOI, alla nuova colonia italiana del fascismo, erano state imposte una legislazione ed una normazione razziste.
Quella per la conquista dell'Etiopia fu la prima guerra voluta e vinta da Mussolini e, insieme alle due guerre mondiali, la terza guerra di massa degli italiani nel corso del Novecento. Cosa fu veramente per coloro che la combatterono? Quale impero pensavano di costruire? Di quale razzismo erano intrisi i loro comportamenti? Nei decenni della Repubblica a rivendicarne il ricordo sono stati soprattutto reduci ammalati di "mal d'Africa" o nostalgici e rancorosi. Basato sulle memorie dei combattenti, il libro illustra il tema in relazione al colonialismo fascista e al postcolonialismo repubblicano.
Nicola Labanca ripercorre le vicende politiche e militari che portarono gli italiani a stabilirsi in Eritrea, in Somalia, in Libia e poi in Etiopia. Ma l'espansione coloniale non fu, anche nel caso italiano, solo politica e guerra. Il volume smonta quindi i messaggi della propaganda colonialista che affascinarono generazioni di italiani al suono di "Tripoli bel suol d'amore" e mostra i pochi reali vantaggi economici che l'Italia trasse dai suoi domini africani. Inoltre descrive la società coloniale d'oltremare, i suoi tratti razzisti, la sua composizione sociale e demografica, le sue istituzioni.
Nicola Labanca ripercorre le vicende politiche e militari che portarono gli italiani a stabilirsi in Eritrea, in Somalia, in Libia e poi in Etiopia. Ma l'espansione coloniale non fu, anche nel caso italiano, solo politica e guerra. Il volume smonta quindi i messaggi della propaganda colonialista che affascinarono generazioni di italiani al suono di "Tripoli bel suol d'amore" e mostra i pochi reali vantaggi economici che l'Italia trasse dai suoi domini africani. Inoltre descrive la società coloniale d'oltremare, i suoi tratti razzisti, la sua composizione sociale e demografica, le sue istituzioni.