Tra le "Vite dei filosofi all'asta" e "La morte di Peregrino" si apre una medesima scena e si svolge, al contempo, una medesima vicenda del pensiero: è un teatro e una storia della mimesi, con la giostra - un po' folle e bislacca - delle copie, delle imitazioni, dei simulacri che danzano ormai liberi e festeggianti sulla morte, inequivocabilmente definitiva, della verità. Il grande cadavere è quello della filosofia platonica e di tutte le filosofie che, sulle orme di Platone, hanno voluto porsi sul piedistallo della virtù e della conoscenza vera. Così Luciano, il grande scrittore di Samosata (II secolo d.C.), mette in vendita, anzi in svendita, tutte le filosofie possibili sulla piazza del mercato ed erige un grande rogo su cui, simbolicamente, con l'impostura di Peregrino, sale anche tutta quella vanagloria filosofica che ha spirato con potenti soffi di alterigia per secoli e secoli. Da queste ceneri possono così rinascere la scrittura e il racconto, liberati dai sequestri e dalle ipoteche della verità e della virtù, del bene e della politica. Ha l'aria della vendetta, tutto ciò, e lo è certamente. Ma è anche qualcosa in più. Questa scena, allestita da Luciano tra le "Vite" e il "Peregrino", è una delle riflessioni più profondamente filosofiche che sia dato di leggere sul "ragno implicito" di ogni filosofia: l'ipocrita recita dell'esemplarità. Se poi questa recita ha già trovato dei pericolosi eredi, come i cristiani...
Sfilano in questi Dialoghi fanciulle costrette nei bordelli a ridere, a suonare il flauto, a cantare e danzare e a far l'amore col migliore offerente. Capaci di affascinare i personaggi più in vista, regnanti e uomini di governo ricchi e potenti, queste "etère" della Grecia antica erano circondate dal desiderio e dalla passione amorosa di numerosi uomini, di cui appagavano gli egoismi e le sregolatezze, ma che suscitavano in essi anche un senso di ambiguo timore per la pericolosità di questi amori non socialmente regolati.