"Mi dissocio formalmente dall'organizzazione Cosa Nostra." Dopo aver pronunciato queste parole, la vita di Gaspare Mutolo non fu più la stessa. Era il 26 giugno del 1992 e l'Italia era nel pieno di una delle stagioni più buie della storia repubblicana, un biennio di sangue segnato dagli attentati a Falcone e Borsellino e dalle bombe a Roma, Milano e Firenze. La mafia, messa alle corde dal maxiprocesso, sferrava il suo attacco allo Stato. Mutolo è cresciuto all'ombra della cupola. Ragazzetto della Kalsa, quartiere popolare nel cuore di Palermo, ha cominciato come ladro di automobili, rubando pezzi di ricambio per un'officina che era punto di ritrovo di tanti uomini d'onore. Il giovane Gaspare subisce il fascino di questi signori dai modi eleganti, cerca la loro approvazione, porta loro informazioni, sigarette e caffè. Entra ufficialmente in Cosa Nostra nel 1973, dopo una lunga gavetta da affiliato. Ruba, si dà al narcotraffico, uccide. "Ammazzare gente del mio ambiente non mi è mai pesato più di tanto," racconta Mutolo "eravamo soldati, conoscevamo le regole." Rispettando questa inquietante "etica" mafiosa, diventa marito e padre: sua moglie e i suoi figli sanno quel che c'è da sapere, ma non fanno troppe domande. In queste pagine, Anna Vinci ci offre un ritratto intimo del mondo criminale di Mutolo lasciandoci pericolosamente avvicinare alla banalità di un ambiente in cui la violenza non è mai un imprevisto, ma il prezzo da pagare per un affare andato storto.
Diciotto anni dopo la strage di Via D’Amelio, la Procura di Caltanissetta ha riaperto le indagini sui mandanti occulti anche della strage Falcone. Si ipotizza che Borsellino sia stato ucciso perché si oppose a una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. E un sacco di gente sembra avere ritrovato la memoria, ricordando episodi e fatti che Mutolo aveva narrato quasi vent’anni fa. Si va alla ricerca di quel “quasi nessuno” che sapeva e che di fatto fece da trait d’union tra la mafia e lo Stato. Di lui ha parlato nell’ultimo anno Massimo Ciancimino, chiamandolo “signor Franco” (o signor Carlo), un uomo appartenente ai servizi segreti sempre presente accanto a suo padre quanto l’ingegner Lo Verde, noto al resto del mondo come Bernardo Provenzano, era libero di muoversi per la Capitale, andando a casa di Ciancimino. Si sa però ora, ormai quasi con certezza, che i boss pentiti non avevano mentito quando non avevano riconosciuto il “collaboratore ” Vincenzo Scarantino, il cui racconto aveva portato alla ricostruzione dell’attentato e del gruppo di fuoco che costò la vita a Borsellino. La tesi, dopo le dichiarazioni di un vero killer di Cosa nostra, e cioè Gaspare Spatuzza, è che qualcuno abbia imboccato Scarantino con una falsa verità