L'amore per Orazio e il desiderio di tradurlo accompagnano Guido Ceronetti sin da quando, diciottenne, si cimentava in versioni oggi «ripudiatissime». L'Orazio interruptus viene poi ripreso al principio degli anni Ottanta col progetto, mai realizzato, di una piccola edizione concepita come prima tappa di un «viaggio ascetico verso il puro non-essere, lo spogliarsi d'ogni illusione e farsi 'jivanmukta' in compagnia di Orazio». Per Ceronetti, infatti, Orazio è lontano mille miglia dal poeta sondato e scrutato dalla filologia classica: il suo stile non è fredda accademia augustea, semmai «contrazione della vita, mediante l'impegno della parola», il che esige «tutto il fuoco della passione rivolto ad un fine che la contraria» - fuoco contratto, dunque. E a lui ancor meglio che a Kavafis si attaglia quel che diceva la Yourcenar: «Siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell'Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere». Dopo più di trent'anni il viaggio attraverso il «deserto fiorito» di Orazio ha preso la forma di ventotto traduzioni, che bastano a metterci di fronte a qualcosa di totalmente imprevisto: malgrado la sua fama ininterrotta, del più classico dei classici ci era sinora sfuggita l'anima segreta.
L'intensità espressiva delle "Epistole" poggia su un tono dimesso e colloquiale, quasi familiare. Orazio avverte che la "stagione bella", comunque la si sia vissuta, non ha più forza di essere protratta, con le sue impennate, le sue istanze sovvertitrici, con i suoi incanti e innamoramenti. Il futuro, anche se mai aveva voluto affrontarlo, è la morte, che non concede punti di fuga, non contempla alternative. Il contraltare a questa coscienza dell'ineluttabile, come spesso accade, è una strana serenità; se deve pagare un prezzo alla malinconia di una vicenda che troppo brevemente si esaurisce, la maturità ha in sé la saggezza di una minore intransigenza, di un più pacato impatto con le cose.