Nelle società che finalizzano l'economia alla crescita della produzione di merci il consumismo non è un vizio privato, ma una pubblica virtù, perché se la domanda non crescesse di pari passo con l'offerta occorrerebbe ridurre la produzione e l'occupazione, innescando una crisi che si aggraverebbe progressivamente. In queste società l'atto di acquistare travalica la sua funzione utilitaristica e diventa un valore in sé. Non importa cosa si compra. Importa che si compri. Secondo uno slogan pubblicitario, non a caso in inglese, "Shopping is life". Ma gli acquisti possono soddisfare solo le esigenze materiali della sopravvivenza, non possono dare un senso alla vita. Nel 1968, in un discorso pubblico, Robert Kennedy affermò che «il Pil misura tutto, ma non ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Solo la spiritualità, che è una dimensione costitutiva degli esseri umani (e non va confusa con la fede in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente), consente di appagare le esigenze esistenziali più profonde e di vivere come una conquista la riduzione della dipendenza dal consumismo compulsivo, che è la causa principale della crisi ecologica. Valorizzare la spiritualità significa oggi promuovere una forma di disobbedienza civile.
Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci, il consumismo è una pubblica virtù, il denaro da mezzo di scambio è diventato il fine della vita, i rapporti umani sono per lo più di carattere commerciale, il ben-essere viene identificato col tanto-avere. Queste sono le connotazioni essenziali della mutazione antropologica avvenuta a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. In questo libro, si sostiene che la dimensione materiale, pur essendo importante, non esaurisce le connotazioni costitutive degli esseri umani e, se si assolutizza, genera sofferenza. Per questo è fondamentale rivalutare la spiritualità, le relazioni umane fondate sul dono reciproco del tempo e la solidarietà, la conoscenza disinteressata, il fare bene al posto del fare tanto, la gentilezza, la contemplazione della bellezza che caratterizza ogni forma di vita, animale e vegetale.
Autore
Maurizio PALLANTE, laureato in lettere, si occupa di economia ecologica e tecnologie ambientali. Nel 2007 ha fondato il Movimento per la decrescita felice e nel 2019 l’associazione politico-culturale Sostenibilità equità solidarietà. Tra i molti libri pubblicati: La decrescita felice (2005, 2009), Monasteri del terzo millennio (2013), Destra e sinistra addio (2016), Il diritto di non emigrare (2020).
"Ci stiamo avviando alla fine dell'epoca storica iniziata nella seconda metà del 700 con la Rivoluzione Industriale. La crisi economica continua a far sentire i suoi effetti negativi da quasi un decennio. Nei Paesi industrializzati i livelli della disoccupazione aumentano soprattutto tra i giovani. La corruzione politica invade tutti i gangli del potere in forme sempre più spregiudicate e sempre più spesso impunite. Allo stesso tempo tutti i fattori della crisi ambientale continuano ad aggravarsi, anche perché i partiti non sono in grado di affrontarli. Non hanno un programma politico incardinato sui valori della sostenibilità ambientale, dell'equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani e della solidarietà. A loro interessa soltanto conquistare la maggioranza dei voti per governare nel modo che considerano più rispondente alle esigenze dei propri elettori, disinteressandosi della sostenibilità da cui dipende la continuità della vita sulla Terra. E del resto non si può pensare che un programma politico radicalmente nuovo possa essere gestito costituendo un partito con le stesse caratteristiche di quelli esistenti. Perché, come ricordava qualcuno, non si può mettere vino nuovo in otri vecchi. Il vino nuovo va messo in otri nuovi (Luca 5,37-38)." (Maurizio Pattante)
Non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Facciamocene una ragione. Le limitazioni alla democrazia, il potere dispotico esercitato sui popoli dalle istituzioni sovranazionali, la prevalenza della finanza sulla politica, sono tutti effetti prodotti dall'economia della crescita continua. Un sistema che sta giungendo alla fine e che, come un animale ferito, mostra il suo volto peggiore e aggressivo, pronto a trascinare tutto e tutti nel baratro. Per arginare questa potenza distruttrice non basta riformare il sistema, ma è necessario cambiare l'orizzonte culturale e le categorie attraverso le quali pensiamo e interpretiamo il mondo. Le grandi famiglie politiche tradizionali non sono in grado di comprendere i rischi che l'umanità corre in questa fase storica, in cui il modo di produzione industriale si sta estendendo a tutto il mondo. Destra e sinistra sono categorie del passato. E per certi versi incarnano anche parte del problema. Se vogliamo garantirci un futuro dobbiamo smetterla con la crescita. Solo una decrescita felice, selettiva e governata, può salvarci.
Tutti i tentativi di far ripartire la crescita per superare la crisi economica mondiale non hanno prodotto, sino ad ora, l'effetto desiderato. Oltre a ciò, la potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti, liquidi, solidi e gassosi, non metabolizzaci dalla biosfera. Per tutte queste ragioni, secondo Maurizio Pallante, occorre cominciare a costruire modelli economici e produttivi alternativi, a instaurare relazioni umane rondate sulla collaborazione e la solidarietà, a promuovere l'autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali, a realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli, a garantire il futuro delle generazioni a venire grazie al modello della decrescita felice proposto in questo volume. La vita monastica, che ha rappresentato per secoli uno dei modelli vincenti di utilizzazione delle risorse e di aggregazione sociale, ritrova in questo momento storico la sua attualità: l'organizzazione comunitaria, il rapporto tra la dimensione del lavoro e la dimensione spirituale degli antichi monasteri possono offrire indicazioni importanti a chi voglia fondare i monasteri del terzo millennio e attuare la rivoluzione dolce di cui c'è bisogno oggi.
La felicità, il benessere, la qualità della vita non hanno alcuna relazione diretta con la ricchezza materiale. Avere molto non significa stare bene. Al contrario, staremo meglio se sapremo proporci come obiettivo non il meno, ma il meno quando è meglio. Maurizio Pallante racconta in queste pagine una rivoluzione fatta di semplicità, di ragione e di rispetto, che si fonda sulla scelta di ridurre la produzione e il consumo delle merci che non soddisfano nessun bisogno. Dalla crisi di oggi - che è ambientale, energetica, morale e politica, oltre che economica - si potrà uscire se la società del futuro saprà accogliere un sistema di vita e di valori fondato sui rapporti tra persone, sul consumo responsabile, sul rifiuto del superfluo.
La recessione, afferma Pallante, è un’ancora di salvezza.
Sprechi: tra processo di trasformazione e uso finale, una lampadina a incandescenza disperde il 95% dell’energia; per ricavare una bistecca di manzo da un etto, occorrono tremila litri di acqua.
Beppe Grillo ha scritto: «Pallante ha il gusto della provocazione, ma anche il pallino della concretezza. Non si limita a criticare, propone anche».
La felicità — di una persona o di una comunità — può essere sostenibile? Attanagliati dalla crisi economica e dall’emergenza energetica e ambientale, possiamo sperare in un futuro di benessere e serenità? Sì, afferma Maurizio Pallante, ideatore della Decrescita Felice. Dobbiamo però invertire la rotta, ribellandoci all’imperativo che ci ha guidati nell’ultimo secolo — la crescita a ogni costo, misurata con l’aberrante strumento del Pil — e stabilire un nuovo modello di sviluppo.
La Decrescita Felice è una filosofia concreta che chiunque, ciascuno quotidianamente e i governi in politica, può mettere in pratica. Decrescere non vuol dire rinunciare a nulla, ma modificare i comportamenti che implicano inutili sprechi. Se rimaniamo imbottigliati nel traffico, bruciamo litri di carburante (accrescendo il Pil!), ma non passiamo ore piacevoli. Perché allora non usare mezzi alternativi o ridurre al minimo gli spostamenti? Se una famiglia — anziché acquistare frutta e verdura costosa perché proveniente dalla parte opposta del pianeta — coltiva un orto, mangia alimenti più freschi e risparmia. Ancora: se perdiamo l’abitudine di passare il sabato al centro commerciale e aderiamo a un gruppo d’acquisto solidale, spendiamo meno e abbiamo pure l’occasione di costruire rapporti basati sulla collaborazione e la fiducia.
Investire nelle tecnologie per il risparmio energetico e nelle eco-case, autoprodurre beni, ridurre i rifiuti, instaurare relazioni fondate sulla reciprocità e sul dono invece che sulla competizione… Perseguendo questi obiettivi, la Decrescita Felice corregge le storture del nostro modello economico e indica la via per un’altra dimensione del benessere, in un mondo meno inquinato e in una società più umana. Non è un’utopia, ma una nuova vita che possiamo cominciare già oggi.
II segnali sulla necessità di rivedere il parametro della crescita su cui si fondano le società industriali continuano a moltiplicarsi: l'avvicinarsi dell'esaurimento delle fonti fossili e le guerre per averne il controllo, i mutamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai, l'aumento dei rifiuti, le devastazioni e l'inquinamento ambientale. Eppure gli economisti e i politici, gli industriali e i sindacalisti con l'ausilio dei mass media continuano a porre nella crescita del prodotto interno lordo il senso stesso dell'attività produttiva. In un mondo finito, con risorse finite e con capacità di carico limitate, una crescita infinita è impossibile, anche se le innovazioni tecnologiche venissero indirizzate a ridurre l'impatto ambientale, il consumo di risorse e la produzione di rifiuti. Queste misure sarebbero travolte dalla crescita della produzione e dei consumi in paesi come la Cina, l'India e il Brasile, dove vive circa la metà della popolazione mondiale. Né si può pensare che si possano mantenere le attuali disparità tra il 20 per cento dell'umanità che consuma l'80 per cento delle risorse e l'80 per cento che deve accontentarsi del 20 per cento. Forse è arrivato il momento di smontare il mito della crescita, di definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive, di elaborare un'altra cultura, un altro sapere e un altro saper fare, di sperimentare modi diversi di rapportarsi col mondo, con gli altri e con se stessi.
Considerare la decrescita come una condizione felice può sembrare una contraddizione, ma in realtà essa indica un nuovo sistema di valori e una prospettiva economica e produttiva finalizzata allo sviluppo di tecnologie che frenino la catastrofe ambientale causata dai processi produttivi. La decrescita non è una rinuncia, una riduzione del benessere, un ritorno al passato. Piuttosto è una scelta consapevole, un miglioramento della qualità della vita, una rispettosa attenzione per il futuro. E la sobrietà non è solo uno stile di vita, ma una guida per la ricerca scientifica. La decrescita è l'elogio dell'ozio, della lentezza e della durata. Cos'è la decrescita? Un paradigma culturale per un rinascimento possibile.