Il profitto e la circolazione delle ricchezze possono avvicinare il cielo alla terra? Fautori di una povertà rigorosa ed evangelica, i francescani sono paradossalmente indotti, proprio da questa scelta «scandalosa», a indagare tutte le forme della vita economica che stanno tra povertà estrema e ricchezza eccessiva, distinguendo tra proprietà, possesso temporaneo e uso dei beni economici. In che modo i cristiani devono fare un uso appropriato dei beni terreni? Per rispondere a tale interrogativo molti francescani, sin dal Duecento, scrivono sulla circolazione del denaro, sulla formazione dei prezzi, sul contratto e sulle regole del mercato, sottolineando l'importanza dell'investimento socialmente produttivo contro la tesaurizzazione improduttiva. In questo libro Giacomo Todeschini indaga lo sviluppo socio-economico in Occidente mediante la chiave interpretativa del concetto di ricchezza introdotto da San Francesco e poi lungamente lavorato, plasmato, in un certo senso snaturato, dalle abili e dotte menti dei suoi epigoni.
Gli ebrei sono presenti sui territori italiani da tempi remoti. Cittadini dell’impero romano, sono stati riconosciuti come tali durante le prime fasi della cristianizzazione. Nel periodo dal IV all’XI secolo, nonostante le polemiche conversionistiche, gli ebrei sono stati uno dei molti gruppi che componevano la complessa e multicentrica realtà italiana. Dal XII secolo alla fine del Medioevo questa relativa normalità divenne gradualmente una condizione minoritaria. Benché la storiografia abbia abitualmente rappresentato gli ebrei italiani soprattutto come specialisti del prestito a interesse e usurai pubblici, la loro presenza, precedente alla cristianizzazione stessa della penisola, fu in realtà caratterizzata da numerose attività professionali e da un’intensa produzione culturale, letteraria e giuridica. La componente ebraica della società italiana ha dunque attraversato i dieci secoli del Medioevo interagendo in diversi modi con la maggioranza cristiana. La storia della mutevole relazione del mondo ebraico italiano con la popolazione cristiana e con le élite che la governavano consente di rileggere la storia d’Italia alla luce della varietà etnica e culturale che le è propria sin da tempi antichissimi.
Fare la storia degli ebrei presenti nell’Italia del Medioevo significa scrivere un pezzo di storia italiana. D’altra parte, proprio perché la storia medievale dei territori che formavano la penisola italica è il punto di partenza della futura complessità italiana, parlare degli ebrei in Italia come di una componente strutturale della storia italiana significa mettere in discussione l’idea molto diffusa dell’omogeneità culturale e religiosa di questa storia, rimettere in gioco, dunque, l’immagine di un’Italia come realtà compattamente latina e cristiana da sempre. La rappresentazione postrisorgimentale, ma specialmente caratteristica della revisione storiografica fascista, dell’Italia come soggetto storico naturalmente e tradizionalmente unitario, storicamente unificato dalla religione cristiana, ha influenzato in modi diversi, talvolta anche contraddittori, la ricostruzione della presenza degli ebrei in Italia. Da un lato gli ebrei e le loro comunità sono stati descritti come una sorta di complemento della nazione italiana, un’aggiunta più o meno ben tollerata, dall’altro come una presenza diffusa localmente e comprensibile solo alla luce di vicende strettamente regionali o cittadine. In entrambi i casi, si è presupposto che la storia nazionale avesse una sua compattezza politica o almeno religiosa, e che l’esserci degli ebrei ricavasse il proprio significato unicamente dal rapporto con questo soggetto collettivo cristiano o con le sue configurazioni locali. Ebrei come rappresentanti di un ebraismo visto come appendice italiana di un cristianesimo dominante, oppure ebrei come presenze significative all’interno di contesti estremamente specifici, a loro volta da intendersi come tasselli del grande mosaico nazionale cristiano. In questo quadro, l’epoca medievale, in tutta la sua estensione e la sua complessità, ha giocato un ruolo importante anche se abbastanza equivoco. Si è infatti dovuto constatare che i modi dell’esistenza ebraica in Italia sono stati molto diversi, in primo luogo dal Sud al Nord, e poi che questa differenziazione è stata ulteriormente accentuata dal carattere tutto speciale e dall’intensità della presenza ebraica in alcune città o regioni: a Roma, in Puglia, in Campania, in Calabria, in Sicilia, e anche, dal Duecento, nell’entroterra veneto e in Friuli, Toscana e Umbria, ma non in Piemonte, Liguria, Abruzzo e Molise. Nonostante questo panorama molto variegato e discontinuo, si è venuta tuttavia tendenzialmente descrivendo una convivenza ebraico-cristiana che, seppure segmentata dalla differente conformazione politica del Sud e del Centro-Nord (Regno di Napoli e di Sicilia, e repubbliche, comuni e signorie centrosettentrionali) e poi spezzata dall’espulsione alla fine del Quattrocento degli ebrei dai territori italiani posseduti dalla Corona spagnola, avrebbe avuto una sua continuità tutto sommato pacificamente omogenea, caratterizzata dalla funzionalità delle presenze ebraiche all’organismo nazionale cristiano. In altre parole, la rappresentazione piuttosto artificiosa di un’Italia armoniosamente cristiana dal IV al XV secolo ha prodotto di conseguenza una complementare raffigurazione degli ebrei analogamente caratterizzata dall’univocità del senso di questa presenza.
Un senso che rimanderebbe, secondo questo schema semplificato, alla tolleranza o all’intolleranza religiosa cristiana, oppure ai bisogni e ai problemi economici e politici della società dei cristiani.
La banca e il ghetto sono due invenzioni italiane. Nel 1516 veniva fondato il ghetto di Venezia. Negli stessi anni, sempre in Italia, si assisteva alla nascita di un nuovo modello finanziario, destinato a grandi fortune: la banca pubblica. Questa coincidenza non è casuale. La banca e il ghetto sono le due costruzioni complementari di una modernità che riconosce nella finanza l'aspetto più efficace del governo politico. La banca diventa in Italia, tra Medioevo e Rinascimento, un'invenzione strategica grazie alla quale le oligarchie cristiane al potere (dagli Sforza ai Gonzaga ai Medici, dal papa alle élites di Venezia o Genova) controllano direttamente lo spazio sociale che dominano. Si crea così la possibilità di indicare come economia "dubbia" quella in cui operano gli "infedeli". Il prestito a interesse e le attività economiche affidate dai governi agli ebrei sono derubricate ad attività minori e non rappresentative dell'economia "vera" degli stati. Questo percorso conduce alla delegittimazione progressiva della presenza ebraica in Italia e culmina con l'istituzione dei ghetti.
Fin dai primordi dell'era cristiana l'aspetto più inquietante della figura di Giuda è l'inadeguatezza della sua scelta economica, più ancora del suo tradimento: che tipo d'uomo era colui che aveva potuto scambiare l'infinito valore del Cristo per la misera somma di trenta denari? Giuda diventa così il prototipo negativo di chi non sa riconoscere il vero valore delle cose, e, a poco a poco, di chi non riesce a comprendere le regole del mercato e dell'economia che si vennero definendo tra medioevo ed età moderna. Di contro, la figura della Maddalena, che "sperpera" un prezioso unguento per ungere il capo del Signore, diventa emblematica dell'agire economico lungimirante e corretto, del sapere distinguere fra il gretto calcolo privato e l'uso sociale della ricchezza. Le conseguenze di questa contrapposizione si riflettono nel codice di esclusione sociale che caratterizza la modernizzazione economica europea e alimenta lo stigma della gente comune di cui Giuda rappresenta la maschera.
Infedeli, malfattori, eretici, ebrei, usurai; ma anche coloro che esercitavano un mestiere vile o disonorevole come il boia, la prostituta, il servo; e ancora gli stranieri, le donne, i minori, le persone deformi, i poveri. In un crescendo di sospetti e inaffidabilità, il catalogo degli "infami", ovvero dei soggetti che per la loro natura ferina e criminale o semplicemente per la loro condizione sociale o fisica non potevano godere della pienezza dei diritti della "civitas christiana", si allunga a dismisura nel corso dei secoli fino a lambire pericolosamente l'intera popolazione. Attraverso quali pratiche e quali categorie prese forma il codice sociale dell'esclusione in Europa? Chi contribuì a disegnarne i contorni e quali ne furono le vittime? Questo volume propone paesaggi brulicanti di un'umanità periferica, come in un dipinto di Bosch o di Bruegel dove anche i tratti del volto e le vesti recano lo stigma di una specifica inferiorità morale e sociale. Un quadro arricchito dall'esame dei testi e delle scritture che venivano diffondendo la nozione di subalternità civica, sanzionando la debole cittadinanza di un popolo cristiano sempre a rischio di precipitare nella marginalità.
Uno studio che sottolinea la modernità della visione francescana del mercato che, ben prima dell'etica protestante di Weber, considerava la ricchezza individuale una componente fondamentale del bene comune. L'analisi della ricchezza dei laici chiarisce il modo in cui i cristiani devono fare un uso appropriato dei beni terreni. Per questo producono scritti sulla circolazione del denaro e sulle regole del mercato, distinguendo tra investimento sociale della ricchezza e accumulazione improduttiva. La figura del mercante operoso è positiva nella misura in cui contribuisce alla crescita della "felicità cittadina", mentre la ricchezza del proprietario terriero che si limita ad accumulare beni appare sterile e negativa.