
Se le categorie politiche fondamentali fossero rappresentabili sotto forma di corpi geometrici, la cittadinanza sarebbe uno di quei poliedri rotanti a superficie riflettente che creano insieme effetti luministici e zone d'ombra. Con sapientissimo discernimento Etienne Balibar scruta una a una le facce di quel solido, più numerose - e molto più incrinate - di quanto si potrebbe supporre. Il significato dell'essere cittadini era infatti tutt'altro che univoco e pacificato, già agli albori della politica in Occidente. E la modernità lo ha mostrato ancor più enigmatico e conflittuale. Indissociabile dalla democrazia, e dalle rivendicazioni di uguaglianza e libertà da cui essa trae origine, la cittadinanza si ridefinisce ogni volta all'interno della contraddizione irrisolta tra vocazione universale dei principi e dispositivi selettivi che regolano l'appartenenza a una comunità politica. Non tutti sono cittadini, ancne all'interno di uno stesso Stato-nazione. Fu detto che "alcune persone sono nella società senza essere della società". La dinamica di inclusione ed esclusione continua a generare drammatiche asimmetrie, a operare aperture e chiusure soprattutto oggi, in un momento di particolare fragilità dello spazio pubblico e di trasformazione della sovranità nazionale. Troppe antinomie dunque nella cittadinanza? Balibar non se lo nasconde, ma sa che rinunciarvi equivarrebbe a negarsi la possibilità di ideare nuovi modi di autonomia collettiva, in una parola di democratizzare la democrazia.
L'idea che la creazione artificiale della vita sia una cosa perversa e blasfema - in una parola "innaturale" - è essenzialmente un costrutto culturale. Affrontare le attuali controversie su staminali, clonazione, modificazioni del corredo genetico e biotecnologie in generale senza studiare la storia culturale della "creazione della vita" è impossibile. Solo esaminando i miti e le leggende, da Aristotele a Paracelso, da Mary Shelley ad Aldous Huxley, dal Golem della tradizione ebraica al replicanti di "Blade Runner" e i modi in cui sono mutati nelle varie epoche possiamo capire i timori e i preconcetti che pullulano sotto la superficie di queste discussioni. Una ricerca che ha un punto d'arrivo: le ragioni per creare o meno esseri umani con mezzi "artificiali" si devono concentrare sulle intenzioni e sui risultati, sul loro effetto sulla vita di tutti noi e sulla società.
L'argomento fondamentale di questo testo consiste nell'avvalorare l'ipotesi più probabile che Zaratustra sia il padre di tutti i monoteismi principali oggi esistenti e che fu anche il progenitore della filosofia.
È sempre più difficile fare i genitori. Alle tradizionali preoccupazioni quotidiane (la scuola, le amicizie, i capricci), se ne aggiungono di inedite che rischiano di trovarci impreparati: le nuove tecnologie, Facebook, la realtà virtuale, ad esempio. "E adesso cosa faccio?" (una frase che, prima o dopo, tutti abbiamo pronunciato) affronta le questioni più urgenti, con un taglio originale: non offre ricette o istruzioni per l'uso, ma propone uno sguardo nutrito di stima verso il bambino e il ragazzo. Con i figli, infatti, le strategie e le pianificazioni non hanno successo. Non si gestiscono i figli. I giovani sono più di ciò che sembrano, sanno costruire desideri grandi e soprattutto pensano: pensano sé, il mondo e gli altri. Riconsiderare e rilanciare il rapporto con loro è quanto tocca, oggi più che mai, ai genitori. Perché ricompaia la soddisfazione e la pace nelle nostre case.
Cosa accade quando il metodo fenomenologico viene applicato nell'ambito del religioso? Il libro parte da alcuni problemi classici della filosofia della religione e impiega lo strumento della fenomenologia per trattarli in maniera feconda e farne emergere la rilevanza per il pensiero contemporaneo. Tali questioni sono espresse in sette "parole chiave" che danno il titolo ai capitoli. Si parte dal termine sacro, attorno all'esperienza del quale si costituisce fin dal suo sorgere la comprensione della religione, per poi passare all'espressione totalmente altro, che del sacro è una delle definizioni più fortunate. E si prosegue con miracolo, felix culpa, dialogo per poi esaminare la situazione del religioso nell'epoca del nichilismo, dal quale si origina la riflessione su vanità e sovrapposizione. Un alfabeto per pensare la religione oggi.
Quella di Bernhard Casper è una delle proposte più originali nel panorama degli studi filosofici contemporanei. In questo libro si esplora la sua connotazione dell'idea di trascendenza, considerata non soltanto, sulla scia della filosofia della religione classica, come fenomeno attribuito all'aldilà. Secondo Casper, la trascendenza è un'idea interna al linguaggio umano e alle relazioni che ne derivano. Bancalari e gli altri autori dei saggi qui raccolti chiariscono che esiste una trascendenza che innerva i rapporti tra esseri umani. Gli autori inquadrano, inoltre, la prospettiva di Casper nella storia della filosofia contemporanea ed evidenziano i rapporti di questo filosofo con Heidegger, Levinas, Rosenzweig, Buber. Interessandosi alla prospettiva di Casper, gli autori di questo libro vogliono ridiscutere i confini tra le scienze umane e, in particolare, tra filosofia delle religioni, fenomenologia, pensiero ebraico e pensiero cristiano.
Il secolo scorso ha variamente proclamato la fine della filosofia in quanto metafisica. Nel nuovo millennio si indovinano, a livello istituzionale, sintomi di una sempre più conclamata obsolescenza degli studi umanistici, e quindi della filosofia intesa come disciplina accademica ed esercizio puramente intellettuale. Eppure, nel gesto ampio di questo transito epocale, trovarsi di fronte ai testi antichi può essere occasione di esperienze sorprendenti. Vale a dire, avvicinarsi al testo nella sua materialità impervia, nell'effetto straniante della sua opacità, nella sua refrattarietà alla risoluzione interpretativa o manualistica, può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci - che interrogano l'umano, le sue vicende e possibili configurazioni, le scelte, i percorsi, l'ipotesi della felicità. Incontrare l'antico (Aristotele, per esempio) in questo modo implica coltivare l'intimità con ciò che ancora ci elude. Allora diagnosticare la fine, intravedere altri inizi, non significa superare, passare oltre, né ancora andare altrove. L'origine ci scruta enigmatica. Il suo mistero inconsumato ci sta davanti. Lungi dal comportare una deposizione o un ritorno, lo sguardo volto al passato si espone a ciò che nel passato resta impensato, inaudito. Forse è proprio cogliendo l'antico nel suo carattere insondabile che si vi può intravedere la possibilità inespressa: nella fine, in seme, il compito del pensiero a venire.
«Mostra un panno rosso a un toro e questo si arrabbierà», scrive Goethe, «ma parla anche soltanto di colori a un filosofo e lo farai infuriare». I colori ci sono familiari da sempre, ma per la filosofia rappresentano da sempre una sfida, un enigma che la spinge a interrogarsi sulle sue stesse condizioni di possibilità. Che cos'è, infatti, il colore? È una proprietà degli oggetti? O la scienza moderna ci mostra invece - come sostengono molti filosofi contemporanei - che il mondo non è affatto colorato? Partendo da questa domanda, che attraversa tutta la filosofia anglo-americana degli ultimi quarant'anni, l'investigatore-filosofo seguirà le tracce del colore in fuga, cercandolo nel laboratorio del pittore (che cos'ha il colore dell'arte da insegnare al filosofo?) e nel linguaggio di tutti i giorni (la parola blu è blu?). Ne uscirà con la convinzione che, come canta in una famosa canzone Kermit la Rana (il pupazzo dei Muppets): «it's not easy being green», «non è facile essere verde» (e neppure giallo).
Quasi un testamento intellettuale, "L'anima smarrita" provoca il lettore su alcune delle grandi questioni con le quali siamo confrontati oggi. Che cosa ne è dell'anima all'epoca delle neuroscienze? Chi ha interesse a manipolare la vita? Quale narrazione è ancora capace di dare senso a ciò che siamo e facciamo? Ultima testimonianza scritta dall'autore, il saggio qui presentato mette in scena la verità di una vita che accoglie se stessa nel pensiero della vita. È la vita che accetta questa compromissione senza temere alcuna diminuzione di oggettività, poiché sa che la contrapposizione tra oggettività e soggettività è un artificio della scienza: utilissimo secondo certi scopi, ma ingenuissimo quando si tratta di capire chi siamo nella nostra relazione con il mondo, con gli altri e, soprattutto, con noi stessi.