Più di altri sommi filosofi del Novecento nei quali la vulgata ci ha abituati a contrapporre una "prima" e una "seconda" maniera, Ludwig Wittgenstein è finito ingessato nella discontinuità tanto conclamata dai suoi esegeti. Fra il Tractatus logico-philosophicus, unico libro pubblicato in vita, e la massa degli scritti postumi su cui svettano le Ricerche filosofiche, si è instaurato uno schema oppositivo che talora appanna, invece di illuminare, lo sviluppo e gli esiti di una riflessione di enorme presa sul pensiero contemporaneo. Anthony Kenny, che di Wittgenstein è finissimo conoscitore, preferisce movimentare questo quadro interpretativo: compie una ricognizione che entra in ogni aspetto dell'opera filosofica, ne discrimina le fasi, gli stili concettuali contrastanti, le ascendenze, gli spostamenti speculativi dall'atomismo logico ai giochi linguistici, dalla natura del linguaggio al suo rapporto con gli stati mentali e le forme di vita -, e riesce nell'intento di elucidazione delle sostanziali differenze anche grazie a una lettura continuista, che rileva i capisaldi mai abbandonati. Innanzi tutto la concezione della filosofia non come insieme di teorie o di risposte ai grandi quesiti esistenziali, bensì come attività di chiarimento delle proposizioni non filosofiche intorno al mondo, per prevenire gli sviamenti del linguaggio ordinario. Un compito terapeutico, la cui finalità è sciogliere i "nodi del nostro pensiero che noi stessi abbiamo intrecciato procedendo per non-sensi".
Grida d'allarme e inviti alla speranza si alternano spesso tra i lettori di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). La filosofia politica e le stesse esperienze di vita del Ginevrino, secondo recenti interpreti, all'inizio come alla fine del ciclo delle rivoluzioni, hanno costituito fonte di ispirazione per ipotesi secolariste e totalitarie. Augusto Del Noce - in questo testo del suo corso universitario del 1978-79, da lui personalmente rivisto e approvato - suggerisce che l'opera di chi studia un classico è come il restauro della platonica statua di Glauco, il dio marino sfigurato dall'infuriare delle tempeste. Occorre togliere una ad una le incrostazioni, attraversando la "selva selvaggia" dei commenti. E il lavoro che Del Noce propone nella interpretazione rousseauiana che torna qui in luce, con una rinnovata attualità affascinante sia per gli specialisti che per il comune lettore. A queste lezioni si aggiungono le ultime del 1981-82 su Antonio Rosmini: la rivendicazione di una natura umana che è insieme razionale e sociale ne fa, secondo Del Noce, un sorprendente analista della società civile, l'autentico filosofo del personalismo e un punto di riferimento nella critica di un pensiero, come quello di Rousseau, di cui il Roveretano intravede il percorso inevitabile, dal perfettismo alla decadenza.
"Un buon viaggiatore non sa dove va; un perfetto viaggiatore non sa da dove viene". Questo aforisma di uno scrittore cinese è il più perfetto compendio della "Metafisica del ping-pong". Perché quando s'impugna per la prima volta la racchetta non si sa dove può portare la passione per questo sport - magari addirittura in Cina, a sfidare i campioni locali - ma soprattutto non si sa di aver intrapreso una sorta di percorso iniziatico alla scoperta di sé e dei principi primi che governano la realtà. Lungo questo viaggio di perfezionamento sportivo, individuale e metafisico allo stesso tempo, Guido Mina di Sospiro non ha solo affrontato avversari di ogni tipo, affinato tecnica, tattica e strategia e appreso l'importanza di lasciarsi guidare da un maestro: grazie al ping-pong ha incontrato e visto in azione, nel vivo del gioco, la geometria non euclidea, la logica non lineare, la strategia da von Clausewitz a Sun Tzu; ha riscoperto Carl Gustav Jung e interrogato l'IChing, colto la potenza del mito platonico della caverna e dei principi della filosofia taoista. E naturalmente, inseguendo il suo "stato di grazia" mistico-sportivo, si è anche divertito, e continua a divertirsi moltissimo.
La sfida di questo saggio è percorrere la vicenda del pensiero filosofico considerandolo come lo snodarsi di un racconto che ha qualcosa da dire a tutti. Non dunque un'esposizione erudita e analitica dei diversi sistemi di filosofia considerati come tasselli di una disciplina specialistica, ma il tentativo di individuare per ciascun autore il fulcro della sua proposta, quella parola attorno a cui le sue riflessioni si sono affaticate e che egli ci ha voluto trasmettere. Così facendo, la filosofia diviene il fluire variegato di grandi prospettive di senso, capaci ciascuna ancora oggi di interpellarci. Essa è un racconto a più voci a noi rivolto. Ma perché ciò avvenga, chi ne dà conto e chi vi si accosta devono sentirsi partecipi di questa drammaturgia complessiva, in cui ognuno è chiamato a osare a sua volta una propria personale prospettiva.
I greci hanno contribuito in modo sostanziale a formulare un linguaggio della mente e a svilupparne i concetti. Le nozioni greche di mente e identità umana - che da Omero e Platone giungono fino a Epitteto e Plotino - toccano questioni di interesse ricorrente e universale, riguardano il modo in cui descriviamo le nostre esperienze, reali o potenziali, e il modo in cui ci confrontiamo, o dovremmo confrontarci, con il mondo e con noi stessi. Cosa ci accade quando moriamo? Gli esseri umani sono mortali o hanno la possibilità di conseguire l'immortalità? Come sono legate la mente, l'anima e il corpo? Siamo responsabili per la nostra felicità? Perché si è giunti a pensare che la vita migliore è una vita governata dalla ragione, con i desideri e le emozioni subordinate al suo comando? Che cosa ha significato pensare all'intelletto umano nei termini di una facoltà divina? Anthony Long si chiede quando e come queste questioni siano emerse nella Grecia antica, e dimostra quanto i modelli di mente ereditati dai pensatori greci siano ancora efficaci nel cogliere e illuminare la nostra comprensione di noi stessi e delle nostre aspirazioni.
Chiedersi che cos'è l'uomo è diventato difficile in un'epoca come la nostra, caratterizzata da una visione scientista del mondo. La scienza moderna si è, infatti, proposta di considerare ogni realtà naturale semplicemente come oggetto per poter così sottomettere ogni cosa al potere dell'uomo. Ma dopo aver tolto alla natura ogni somiglianza con l'umano, lo scientismo pretende di dire all'uomo che anche lui non è altro che una parte di quella stessa natura: "Così parlare di sé come di un uomo finisce per apparire all'uomo stesso come una caduta nell'antropomorfismo". In questa situazione Robert Spaemann vuole tornare a porre la domanda sull'uomo rifiutando il riduzionismo scientista ma senza accontentarsi neppure di un'antropologia filosofica che ne ignori semplicemente la sfida. La chiave di un'antropologia adeguata sta per Spaemann in un'idea di natura che ne colga il carattere teleologico e in un'idea di ragione che non dimentichi il rapporto che c'è tra questa e la natura. Sono queste le idee sviluppate nei quattro saggi che costituiscono il presente volume. Dopo aver riflettuto nel primo saggio sul modo in cui la nozione di natura umana può sfuggire al sempre risorgente dualismo di "natura" e "spirito", l'autore nel secondo saggio rivolge la sua attenzione alla teoria dell'evoluzione. Confrontarsi con questo tema appare infatti necessario per un'antropologia che accetta il dialogo con la scienza.
Nel leggere il titolo e sottotitolo di questo libro, forse qualcuno potrebbe sorprendersi che concetti così astratti come "identità" e "relazione" abbiano a che fare non solo con una realtà concreta e singolare come la corporeità umana, ma soprattutto con ciò di cui essa è condizione, ovvero l'Io, sorgente degli atti umani che rivelano persona. Il saggio vuole descrivere proprio il rapporto fra queste realtà, apparentemente così lontane le une dalle altre, perché - e questa è la tesi centrale - l'origine ed il destino della libertà umana si trova nella relazione con altre persone. A partire da questa tesi l'autore traccia una storia filosofica dell'identità in tre tappe fondamentali: la visione dell'identità come corporeità razionale, che corrisponderebbe al principio d'individualizzazione della metafisica classica ovvero alla materia signata quantitate; la visione moderna dell'identità come autocoscienza; e, infine, la visione post-moderna del rifiuto dell'identità e della sua sostituzione con le differenze. La tesi proposta in questo saggio tiene conto della verità parziale contenuta in questi modi di concepire l'identità. Secondo l'autore, l'identità non è costituita solo da corporeità, autocoscienza, ma anche dalle differenze, specialmente dall'alterità, anzi essa è presente in ognuna delle sue relazioni. Psicologia, neuroscienze e sociologia sono alcune delle discipline da cui si prende spunto nel tentativo di confermare la validità di questa tesi.
Supplizi capitali, deportazioni spietate, ovattati isolamenti. In questo corso, uno dei più importanti del suo insegnamento al Collège de France, Michel Foucault si interroga sul significato delle punizioni che l'Europa, nel corso dei secoli, ha predisposto per chi trasgrediva la legge e incorreva nelle sue sanzioni. Per la prima volta possiamo toccare con mano la documentazione da cui Foucault ricaverà le sue celebri analisi sul potere sovrano, sul potere disciplinare e sul paradigma biopolitico. Ed ecco che il patibolo, le prigioni, i lavori forzati, le torture più feroci, l'isolamento più silenzioso diventano lo specchio di ciò che l'Europa è stata ed è diventata nel corso dei secoli. C'è stato il tempo della punizione spettacolare e granguignolesca e quello della pena silenziosa e sottratta agli sguardi, il tempo del potere che inscena la sua magnificenza e quello del potere che si nasconde, il tempo del potere che dà la morte e quello del potere che amministra minuziosamente la vita dei cittadini. In questo specchio straniante vediamo prendere forma decisioni epocali circa i rapporti tra soggetto e potere, legalità e illegalità, ordine e disordine. Sullo sfondo di queste pagine, un'ipotesi finora meno evidente nell'itinerario foucaultiano: che la guerra civile non costituisca affatto una condizione eccezionale per le nostre società, ma sia lo stato normale, la materia sottostante, la stoffa eterna di cui è fatto il potere.
Nei saggi raccolti in questo volume, Jürgen Habermas indica la via di una cultura che superi la polarizzazione inconciliabile tra laicità e religione per il tramite di un accertamento riflessivo dei confini, sia della fede sia della scienza. La convivenza, nella tolleranza e a parità di diritti, di comunità religiose inconciliabili nelle loro visioni del mondo, e di queste con la comunità dei non credenti, è possibile solo se tutti i membri della collettività sono disposti a considerarsi reciprocamente liberi ed eguali nella loro cittadinanza politica.
Nonostante la presenza di voci critiche, di resistenze anche interne alla Chiesa cattolica, la popolarità di papa Francesco è universale: amato dal popolo cristiano per il suo tratto di umanità comprensiva e per la sobrietà del suo stile di vita, è ammirato dagli ambienti "laici" come il Grande Riformatore della Chiesa, chiamato a realizzare una volta per tutte la modernizzazione auspicata dal Concilio Vaticano II. E tuttavia, sia l'entusiasmo dei fedeli che l'ammirazione dei "laici" appaiono affetti da una strana miopia, che sembra non accorgersi delle contraddizioni vistose del suo magistero. L'esaltazione della povertà come "porta del paradiso" si accompagna a una denuncia simultanea della povertà come male estremo, e a una indicazione dei "rimedi" che ricalca vecchi schemi terzomondisti, decisamente poco aggiornati. L'"eco-teologia" che si profila nell'enciclica, fondata sul valore assoluto dell'ambiente e della sua salvaguardia, appare poi così in sintonia con la carta dei valori tardomoderni e tardocapitalisti - la biodiversità come Patrimonio universale da custodire - da ridurre la prospettiva religiosa e spirituale a un semplice alleato nella guerra "santa" contro i mutamenti climatici e i guasti della modernizzazione. Nell'uno come nell'altro caso quella che si delinea è una radicale svolta post-cristiana, in cui il materialismo pratico e ateo delle nuove moltitudini non sembra costituire un problema.
"Invito a Platone" rappresenta la sintesi più completa degli studi compiuti da Giovanni Reale sul filosofo di Atene e sulla sua Accademia. L'analisi puntuale del pensiero platonico è condotta a partire dai testi; fra i vari capitoli trovano inoltre posto le sintesi dei maggiori dialoghi platonici, quale invito alla lettura integrale di questi scritti che sono il punto di partenza imprescindibile per la comprensione di Platone e di tutto il pensiero antico. Brevi schemi riassuntivi e approfondimenti su alcune delle questioni più rilevanti accompagnano e integrano la lettura. Le tavole fuori testo che arricchiscono il volume contengono le note e i commenti di Giovanni Reale ad alcune delle testimonianze archeologiche e artistiche più importanti di tutti i tempi. Introduzione di Roberto Radice.
La pienezza dell'essere dell'uomo è nell'incontro dell'io con l'altro, nella condivisione della comune umanità. Legato all'io da uno rapporto di somiglianza e di prossimità e partecipe di uno stesso destino umano, l'altro non potrebbe mai essere o diventare un suo oppositore o un suo concorrente e tanto meno un suo nemico. L'altro è, soprattutto, il destino ultimo dell'io, il richiamo della sua massima responsabilità. Di questa comune responsabilità entrambi l'io e l'altro - sono nello stesso tempo i soggetti e i destinatari, i garanti e gli esecutori. I fili di un discorso sull'uomo e sul mondo sono dipanati e ritessuti sulla trama di un nuovo racconto sull'uomo, dove l'altro diventa la traccia della responsabilità dell'io. Non basta riconoscere all'altro la sua identità in rapporto all'io o affermarne la comune origine o la sua correlatività. È necessario disporre l'io e l'altro sullo stesso piano come due realtà plurali che si richiamano a vicenda e costituiscono l'espressione privilegiata dell'umano nel mondo. La responsabilità dell'io verso l'altro richiede che la responsabilità stessa si trasformi in azione con l'altro e per l'altro nell'assunzione della compassione come termine dell'azione stessa. Dono e perdono diventano, in questo contesto, i due paradigmi di una esistenza umana che fa del tempo presente lo spazio privilegiato del dono e nel perdono si riconcilia con un passato segnato dalla colpa e dall'offesa.