
Il romanzo racconta la storia di una donna bellissima e audace, che attraversa gli anni difficili del '900, cercando di aver salde in mano le redini del potere. Naturalmente alla fine il mondo sfuggirà al suo controllo, come la sua incantata bellezza sfiorirà impietosamente, ma la lotta tra amore e potere, che si combatte nella sua stanza, è appassionata e crudele e Isabella ne è per lungo tempo al centro come una torbida e inquietante eroina.
È un pomeriggio d'estate a Bombay nel quartiere malfamato di Kennedy Bridge. A partire dalle prime ore del pomeriggio, i marciapiedi davanti ai bordelli e ai ritrovi per soli uomini si riempiono di sguardi equivoci e indiscreti. Proprio nei pressi dei bordelli, in fondo alla strada, vive Dhondutai, la grande musicista, l'allieva di Bhurji Khan, il figlio di Alladiya Khan, il leggendario fondatore del gharana di Jaipur, una delle più antiche scuole di musica classica indiana, e di Kesarbai, la cantante celebre per essere stata una donna senza peli sulla lingua, ma che quando intonava un raga di straordinaria bellezza dietro l'altro trascendeva davvero la sua natura mortale. Sono le cinque, quando Namita e sua madre arrivano a casa di Dhondutai. Namita ha dieci anni e un solo desiderio: fare sua la divina arte dei raga. La sua futura insegnante la accoglie con un sorriso angelico. Alta più o meno un metro e mezzo, porta una sari bianca, stirata e inamidata con cura. Ha i capelli neri cosparsi da un'abbondante dose di olio e un aspetto sorprendentemente giovanile. La fa subito entrare nella stanza della musica: una cameretta angusta, con due lucidi tanpura appoggiati alla parete, i muri spogli, a parte una fotografia ingiallita dei genitori, un Ganesh in technicolor, ritagliato dal vecchio calendario di un'industria farmaceutica, e il ritratto di Kesarbai Kerkar, con il capo coperto da una sari bianca, i capelli con la riga da una parte e un filo di perle al collo.
Marocco, 1769. Helen Gloag ha diciannove anni quando scappa dal villaggio scozzese in cui è cresciuta, in cerca di avventure nelle colonie americane. Ma la sua fuga si interrompe bruscamente quando la nave su cui è imbarcata viene assaltata dai pirati provenienti dalle coste africane, che uccidono barbaramente i passeggeri e l'equipaggio. Solo Helen e una manciata di altre donne sopravvivono. Sono merce preziosa: la loro bellezza le rende prede uniche e ricercate al mercato delle schiave, dove possono essere vendute in cambio di enormi somme di denaro. E infatti, giunta a Tangeri, grazie ai suoi capelli rossi e alla sua pelle di latte, Helen viene subito notata dal nano Microphilus, sovrintendente all'harem dell'imperatore. È l'inizio di un nuovo viaggio attraverso il deserto marocchino, fino a Marrakesh, luogo di eccessi e voluttà, tripudio di profumi e colori. È nella gabbia scintillante e claustrofobica dell'harem, un luogo in cui l'unica dote che conta per una donna è la sua abilità nel soddisfare i capricci del padrone, che Helen verrà iniziata all'arte della seduzione. Ma insieme scoprirà anche gli intrighi e i giochi di potere che regolano la vita quotidiana di centinaia di concubine.
A Bombay, Pinky, tredici anni, vive con la nonna Maji, che l’ha adottata dopo la morte della madre, e la sua famiglia. Nonostante l’amore della nonna, Pinky non riesce a superare un senso di emarginazione. Però ama quella casa con il giardino tropicale, i suoi alberi di mango, il profumo di sandalo e di cumino fritto. E poi c’è Nimish, il bel ragazzo da cui vorrebbe ricevere le stesse attenzioni che gli uomini dedicano alle donne.
Ma quando, una notte, Pinky sorprende Nimish con la sua migliore amica, la sensazione di solitudine si fa ancora più esasperata. Pinky piange nel silenzio della casa, mentre strani tintinnii e fruscii d’acqua la raggiungono da dietro una porta. Una porta misteriosa, che Maji spranga ogni sera per riaprirla al mattino, vietando ai bambini anche solo di toccarla. Pinky non ha mai saputo che cosa ci fosse là dentro e ora il desiderio di trasgredire al divieto le sembra l’unico modo per trovare sollievo. In fondo, che altro potrebbe accaderle di peggio? Invece il peggio è proprio dietro quella porta. Perché Pinky, tirando quel chiavistello, libera un fantasma imprigionato da tredici anni. Lo spirito di una neonata uccisa, che prende a ossessionarla, insieme a tutti gli altri della casa, scardinando l’apparente pace della famiglia con la stessa violenza di un monsone. Nessun rituale potrà fermare la forza della verità, e non ci sarà altra strada per Maji che accettare il passato per allontanare gli spiriti, ombre esterne dei fantasmi che vivono in lei.
Jane, Jinx come ama farsi chiamare, ha un nomignolo che è sinonimo di cattiva sorte e la sua esistenza è stata segnata da una tragedia - la morte del marito, barbaramente ucciso - che ha lasciato, oltre al dolore, l'indelebile cicatrice di un sospetto orribile. Davvero suo padre, che l'adora e vede rivivere in lei la moglie defunta, potrebbe essere stato l'autore del delitto? La polizia di Londra lo ha creduto a lungo, ma senza poterlo dimostrare. Tra il padre severo e la figlia adorata è calato il silenzio. Ma sono trascorsi anni, Jinx è diventata una donna di successo con le sue forze, ha dimenticato la malasorte. Questa però, purtroppo, non ha scordato lei.
All'inizio degli anni settanta Dominique Lapierre e Larry Collins attraversano il continente indiano per raccogliere interviste con testimoni, registrare vicende strabilianti, comporre la trama di un potente racconto corale: quello del popolo indiano in cammino verso la propria indipendenza. Dalla nomina di Lord Mountbatten a viceré delle Indie, il 1° gennaio 1947, all'assassinio di Gandhi, il 30 gennaio 1948, "Stanotte la libertà" ripercorre i tredici mesi che cambiarono per sempre il volto dell'Impero britannico e il destino di quattrocento milioni di indiani. Un viaggio serrato e appassionante tra i segreti di una terra incantevole, le miserie e gli splendori del suo popolo, il coraggio e la fede degli uomini che aprirono la via alla libertà. Su tutti, s'irradia la figura del Mahatma Gandhi, la Grande anima, il profeta dal fascino tuttora inesauribile. Quel viaggio segnerà la vita di Dominique Lapierre, che da allora, preso d'amore per la sua India, vi ritornerà per infiniti viaggi, memorabili incontri, nobili slanci umanitari.
Afghanistan, anni novanta. Alì è un ragazzino che trascorre le giornate tirando calci a un pallone con il suo amico Ahmed, in una Kabul devastata dalla lotta tra fazioni, ma non ancora in mano ai talebani. La città non è sempre stata così, gli racconta suo padre: un tempo c'erano cinema, teatri e divertimenti, ma ad Alì, che non ha mai visto altro, la guerra fa comunque meno paura delle sgridate del maestro o dei rimproveri della madre. Il giorno in cui, di ritorno da scuola, Alì trova un mucchio di macerie al posto della sua casa, quella fragile bolla di felicità si spezza per sempre. Convinto inizialmente di aver solo sbagliato strada, si siede su un muretto e aspetta il fratello maggiore Mohammed, a cui tocca il compito di spiegargli che la casa è stata colpita da un razzo e che i genitori sono morti. Non c'è più niente per loro in Afghanistan, nessun futuro e nessun affetto, ma "noi siamo come uccelli e voliamo lontano" gli dice Mohammed, che lo convince a scappare. E in quello stesso istante, l'istante in cui inizia il loro grande viaggio, nascosti in mezzo ai bagagli sul portapacchi di un furgone lanciato verso il Pakistan, il diciassettenne Mohammed diventa per Alì un padre, il miglior amico e, infine, un eroe disposto a tutto pur di non venire meno alla promessa fattagli alla partenza: Alì tornerà a essere libero e a guardare le stelle, come faceva da bambino quando il padre gli spiegava le costellazioni sul tetto di casa nelle sere d'estate.
Afghanistan, anni novanta. Ali è un ragazzino che trascorre le giornate tirando calci a un pallone con il suo amico Ahmed, in una Kabul devastata dalla lotta tra fazioni, ma non ancora in mano ai talebani. La città non è sempre stata così, gli racconta suo padre: un tempo c'erano cinema, teatri e divertimenti, ma ad Ali, che non ha mai visto altro, la guerra fa comunque meno paura delle sgridate del maestro o dei rimproveri della madre. Il giorno in cui, di ritorno da scuola, Ali trova un mucchio di macerie al posto della sua casa, quella fragile bolla di felicità si spezza per sempre. Convinto inizialmente di aver solo sbagliato strada, si siede su un muretto e aspetta il fratello maggiore Mohammed, a cui tocca il compito di spiegargli che la casa è stata colpita da un razzo e che i genitori sono morti. Non c'è più niente per loro in Afghanistan, nessun futuro e nessun affetto, ma "noi siamo come uccelli (...) e voleremo lontano", gli dice Mohammed, che lo convince a scappare. E in quello stesso istante, l'istante in cui inizia il loro grande viaggio, nascosti in mezzo ai bagagli sul portapacchi di un furgone lanciato verso il Pakistan, Mohammed diventa per Ali un padre, il miglior amico e, infine, un eroe disposto a tutto pur di non venire meno alla promessa fattagli alla partenza: Ali tornerà a essere libero e a guardare le stelle, come faceva da bambino quando il padre gli spiegava le costellazioni sul tetto di casa nelle sere d'estate. Dal Pakistan all'Iran, e poi dall'Iran alla Turchia, alla Grecia e infine all'Italia, quella di Ali e Mohammed è un'epopea tragica, ma anche una storia di coraggio, determinazione e ottimismo.
"... Osservo i miei commensali con maggiore attenzione, e mi accorgo che non mi sono per niente estranei, anzi, li conosco benissimo. Vedo tra i tanti il mio amato Socrate, Platone, Epicuro, san Tommaso, Pascal, Friedrich Nietzsche e addirittura Totò. Eccomi qua, ospite di un vero e proprio simposio insieme ai filosofi che ho sempre amato. A quanto pare, il tema prescelto per la serata è la felicità. Ora, che sia un sogno oppure no, se avete un po' di tempo, vi racconto a modo mio cos'è la felicità per ognuno di questi filosofi." Attingendo al pensiero dei suoi "amici" filosofi, De Crescenzo prova a spiegare non solo cosa sia la felicità, ma qual è il segreto, ammesso che esista, per riuscire a vivere relativamente bene. "Stammi felice" è una lezione in cui l'autore, senza prendersi troppo sul serio, sa indicarci una via magari più vicina di quanto pensiamo.
Quando Pëtr Vavilov, un giorno del 1942, vede la giovane postina attraversare la strada con un foglio in mano, puntando dritto verso casa sua, sente una stretta al cuore. Sa che l'esercito sta richiamando i riservisti. Il 29 aprile, a Salisburgo, nel loro ennesimo incontro Hitler e Mussolini lo hanno stabilito: il colpo da infliggere alla Russia dev'essere "immane, tremendo e definitivo». Vavilov guarda già con rimpianto alla sua isba e alla sua vita, pur durissima, e con angoscia al distacco dalla moglie e dai figli: «...sentì, non con la mente né col pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l'orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell'acqua». È il fiume della Storia, che sta per esondare e che travolgerà tutto e tutti: lui, Vavilov, la sua famiglia, e la famiglia degli Saposnikov - raccolta in un appartamento a Stalingrado per quella che potrebbe essere la loro «ultima riunione» -, e gli altri indimenticabili personaggi di questo romanzo sconfinato, dove si respira l'aria delle grandi epopee... E se Grossman è stato definito «il Tolstoj dell'Unione Sovietica», ora possiamo finalmente aggiungere che Stalingrado, insieme a Vita e destino, è il suo Guerra e pace.
Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva. Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti «dovremmo dire anche farmacisto». Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando si mettono a spiegarvi qualcosa che sapete già perfettamente, quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta. Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ha un'ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno.