Il volume presenta per la prima volta lo scambio epistolare che Hannah Arendt e Gtinther Anders ebbero tra il 1989 e il 1975» insieme ad alcuni testi che i due pensatori redassero insieme o in cui trattarono tematiche comuni. Sia le lettere sia i testi fanno emergere la relazione personale e intellettuale dell'ex coppia di sposi e gettano una luce su alcuni illustri contemporanei come Walter Benjamin, Theodor W. Adorno e Martin Heidegger. Il libro è anche una preziosa testimonianza del processo di espulsione, fuga ed emigrazione degli intellettuali ebrei dalla Germania nazista.
"Lei, caro lettore e soprattutto cara lettrice, ama gli eretici, ne sono sicuro: sennò non avrebbe preso in mano questo libro. Infatti, con questo scritto io sono un eretico, se non altro perché esco dai binari che caratterizzano la mia attività di accademico (ammesso che accademico lo sia mai stato: secondo la maggioranza dei miei colleghi, non sono un uomo di scienza, quindi, non posso essere un 'accademico', semmai un avventuriero). Infatti, questo libro esula completamente, come può vedere dalle bandelle, da quello di cui mi sono occupato finora. Però, a parte che un eretico rispettabile dev'essere un avventuriero, c'è un filo conduttore che regge la trama della mia arrività. Sono passato dallo studio di uno dei più originali pensatori americani del secolo scorso, Thorstein Veblen, alle relazioni industriali e del lavoro e poi all'analisi delle organizzazioni complesse per finire per scoprire che al cuore del problema che catturava la mia attenzione, il potere, c'era la differenza di genere. Quando ho scritto un libretto per reagire sia alla retorica antiamericana che all'americanismo di maniera, riflettendo sulle origini di quella società dove la democrazia tiene duro, mi sono reso conto che bisognava risalire molto più indietro del viaggio che portò Max Weber a scoprire l'importanza delle sette per la democrazia: era necessario esplorarne la fonte. Così, di peregrinazione in peregrinazione, è nata la decisione di scrivere un libretto su quei sessant'anni del IV secolo i quali hanno partorito un apparato teologico-politico che ha letteralmente spaccato l'occidente in due, segnando l'inconscio collettivo dei paesi che vi sono rimasti intrappolati dal Portogallo alla Russia nei quali le istituzioni liberal-democratiche, il progresso economico e scientifico, l'emancipazione femminile hanno vita difficile. Così il cerchio si chiude e l'eretico appare essere un esploratore dotato di bussola." (L'autore)
Le "Lezioni di filosofia politica" di Lucio Colletti sono state tenute dall'autore nel 1958 all'Istituto Gramsci di Roma. Esse riflettono sia gli interessi del Colletti studioso di fama internazionale del pensiero marxista, sia le preoccupazioni ei temi vivi nel movimento operaio e più in generale nella sinistra italiana ed europea da poco uscita dalla guerra contro il nazifascismo e subito immersa nella Guerra fredda e nello scontro est-ovest. Vengono qui trattati il giusnaturalismo, Rousseau, Kant, il confronto fra liberalismo e democrazia, le trasformazioni del modo di produzione capitalistico, le trasformazioni dello Stato di diritto liberale. L'ultima lezione affronta anche il tema della rivoluzione, cercando di far emergere il vero pensiero di Lenin per distinguerlo accuratamente dalle interpretazioni "blanquiste". Tema, questo, che tornerà di attualità negli anni di piombo.
Il volume, partendo metodologicamente dal concetto agambeniano di «potenza di non», propone una ricognizione del tema della negatività nell'estetica di Schopenhauer, in particolare in Die Welt als Wille und Vorstellung. La tesi che accompagna il presente studio è che la tensione tra la kantiana «conformità a scopi senza scopo» e la negatività del Wille schopenhaueriano costituisca la radice di una modalità riflessiva, che vede nell'arte il paradigma negativo di un uso e di una tecnica liberati dalla presa finalistica della conformità a scopi e capaci di far emergere la dimensione del possibile, il fondamento ineludibile di ogni operari.
L'antropocentrismo è costruito sulla presunta superiorità dell'umano sulle altre forme di vita, oltre che su quella di certi umani rispetto ad altri: ma che succede quando scopriamo di essere della stessa sostanza di tutti gli esseri viventi del pianeta? Quando le proprietà che pensavamo ci rendessero speciali, come la vita mentale o la capacità di soffrire, si manifestano anche in ciò che definiamo ingenuamente «non umano», allora l'umanità come sistema chiuso dell'umanesimo classico si dissolve. Molte sono state le soluzioni proposte, a questa domanda, ma ognuna, presa singolarmente, non basta. Il postumano, così come declinato qui, contrapposto anche ai primi fallimentari tentativi dell'ultimo decennio dello scorso millennio, è volto a riposizionare l'umanità in uno schema integrato nella Natura, verso un superamento dell'antropocentrismo, e la costruzione di una nuova narrazione per il nostro futuro.
Razzismo, fanatismo, sentimento antidemocratico: il dibattito pubblico a cui partecipiamo è sempre più polarizzato, dominato da un pensiero pronto a contestare le posizioni degli altri, ma incapace di mettere in discussione le proprie.
Carolin Emcke oppone a questa omologazione la ricchezza di una società aperta a voci differenti: una democrazia si realizza pienamente soltanto con la volontà di difendere il pluralismo e il coraggio di opporsi all’odio. Con questi anticorpi possiamo sconfiggere i fanatici religiosi e nazionalisti, che raccolgono consensi ma hanno paura della diversità e della conoscenza, le armi più potenti che abbiamo.
Un saggio provocatorio e coraggioso, best seller da oltre 100.000 copie in Germania e in corso di traduzione in 11 lingue, che conferma Carolin Emcke come una delle voci più interessanti e seguite del panorama europeo.
L'esperienza estetica del paesaggio costituisce uno dei tratti costitutivi della sensibilità contemporanea. Partendo dai concetti di natura, ambiente, territorio, il libro mette in relazione il paesaggio con gli ambienti foggiati dall'uomo, come i giardini e le città; ripercorre poi l'emergere del sentimento del paesaggio nei vedutisti e nella letteratura di viaggio. Affronta quindi la peculiarità dell'esperienza estetica del paesaggio, in cui entrano in gioco le categorie estetiche della meraviglia, del pittoresco, del sublime, della grazia e della bellezza. Da ultimo è tracciata un'originale morfologia delle bellezze naturali, con una particolare attenzione per quegli aspetti del paesaggio che più sono stati associati all'emozione estetica: il colore dell'acqua e del cielo, la terra e la roccia, il fuoco e le eruzioni dei vulcani, le rovine, le montagne.
Cosa succede quando il diritto esige un certo comportamento, o nega una certa opportunità, ma questo appare inaccettabile ai cittadini perché in conflitto con le ragioni ultime che giustificano le loro azioni? In queste situazioni, il diritto diventa immorale. Sono conflitti che investono tipicamente la sfera personale degli individui: il governo del corpo, l'immagine di sé, le relazioni affettive primarie, i progetti di vita. In taluni casi diventano così rilevanti da mobilitare l'opinione pubblica, fino a scatenare delle vere e proprie battaglie civili combattute da chi rivendica una pretesa che il diritto nega, o contesta un obbligo che esso impone. Attraverso l'analisi della struttura dei conflitti tra diritto e morale e l'esemplificazione di casi paradigmatici - ad esempio l'eutanasia, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la pena di morte - il libro consente al lettore di costruire un proprio punto di vista sulle questioni in gioco.
La filosofia a tutto campo di Habermas avanza una drammatica scommessa sulla modernità. Scommessa qui ricostruita nella sua complessità, dove una ragione fallibile ma non scettica giustifica i fondamenti culturali di una democrazia liberale. Sullo sfondo di una dialettica della modernità, Habermas ripensa il ruolo che vi svolgono, senza riduzionismi, i mondi della vita, la ragione e i suoi linguaggi, le religioni, il diritto e la pluralità dei valori. Una dialettica in cui contingenza della storia, normatività della cooperazione sociale e funzione delle religioni, quali depositi di senso, rendono aperto l'orizzonte della storia, oltre il nichilismo post-moderno e l'ideologia di un progresso fatale. In tal senso per Habermas «nel diagnosticare il futuro della religione noi diamo un giudizio sul senso complessivo della modernità». Una scommessa che Habermas fa dialogando con Kant, Hegel, Marx, Weber e i classici della sociologia, i maestri della Scuola di Francoforte, Rawls. Un dialogo in cui lui stesso appare come uno dei maggiori eredi di questa tradizione.
Questi scritti di Bontadini e Severino, risalenti agli anni Ottanta, conducono nel vivo di una disputa durata più di trent'anni. L'origine del disaccordo coincide con la pubblicazione, nel 1964, del celebre saggio di Severino, "Ritornare a Parmenide", nel quale si mostra la necessità che ogni essente sia eterno e, al tempo stesso, si palesa la radicale distanza dal pensiero metafisico. Il disaccordo ruota dapprima attorno alla diversa interpretazione del "Principio di Parmenide" - l'essere è e non può non essere - e successivamente sul "divenire": ciò che per il senso comune è "un uscire delle cose dal nulla e un ritornarvi". Il contrasto fa sì che entrambi sviluppino le argomentazioni a favore della propria tesi facendo chiarezza, da opposte prospettive, su questioni decisive della filosofia; perciò rappresenta uno dei capitoli più significativi della storia della filosofia del Novecento.
Il volume è un'originale e concisa introduzione alla metafisica contemporanea, con ampi riferimenti alla storia della filosofia. Gli autori presentano una selezione di concetti centrali della metafìsica (sostanza, proprietà, modalità, causalità e libero arbitrio) discutendo al contempo i più recenti sviluppi del dibattito filosofico, come ad esempio la metafìsica dei "poteri", e illustrando nuove prospettive per l'applicazione di tali sviluppi nel dibattito sulla causalità e sul libero arbitrio.
"Cos'è l'esperienza mistica e quale credito si deve accordarle? Non ci sono individui che son detti mistici, i cui pensieri sembrano irragionevoli e disordinati? Non ci si può procurare, con delle droghe, le esperienze cosiddette mistiche?". Così s'interrogava Simone Pétrement mentre scriveva la biografia di Simone Weil, a proposito di alcune intense esperienze che l'amica aveva vissuto e raccontato a un sacerdote. A fronte d'interrogativi tanto radicali e pressanti che riguardano un vasto e complesso insieme di vicende, pratiche, dottrine a lungo considerate assolutamente centrali, malgrado la loro problematicità, in contesti culturali anche molto diversi e distanti, i contributi di questa miscellanea ad opera di alcuni tra i maggiori studiosi italiani che si sono occupati del fenomeno religioso non pretendono certo di dare risposte esaustive. E tuttavia offrono al lettore attento un'occasione propizia per un viaggio attraverso due millenni di vita spirituale che, pur lasciando inevitabilmente fuori importanti passaggi storici e testimonianze, consentono di far emergere almeno a tratti il corso più profondo della storia dell'Occidente, laddove più chiaramente e produttivamente si è di volta in volta concentrato il travaglio di un'epoca, filtrato e come purificato in vite e parole connotate dall'esperienza di un indicibile che, senza contraddire le esigenze della ragione, conduce a un ordine di conoscenze orientate verso un oltre o il profondo dell'anima. Vite e parole un tempo percepite come nutrimento per la convivenza sociale, ma oramai rese marginali dallo sguardo oggettivante dei saperi, nonché in gran parte remote all'esperienza comune.