A dispetto del nome, la guerra fredda fu un lungo periodo di pace e stabilità per l'Europa. Pur se costellati da momenti di grande tensione, i decenni che seguirono la seconda guerra mondiale furono caratterizzati dalla fermezza con cui le due superpotenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, seppero frenare le forze che al loro interno premevano per lo scontro, ben consapevoli che lo scoppio di una guerra nucleare avrebbe avuto conseguenze disastrose per tutti. Con la caduta del muro di Berlino e la disintegrazione dell'Urss, i confini dell'ex Impero sovietico divennero nuovamente contesi, rinacquero antichi nazionalismi, scoppiarono numerose guerre: in Cecenia, nel Caucaso e nella ex Jugoslavia. Gli Stati Uniti, dal canto loro, pensarono di avere vinto la guerra fredda, ma oggi emergono chiari i limiti della superpotenza americana e le conseguenze del suo avventurismo: rivoluzioni sfuggite di mano, guerriglie fomentate dal fanatismo religioso, contrasti sempre più accesi con la Russia. Ma la fine della guerra fredda, e i conflitti del dopoguerra, hanno avuto come effetto soprattutto il sorgere dei "non Stati" - Isis, Ghaza, Kurdistan iracheno, Bosnia, Kosovo, Siria, Libia - con le grandi incognite che ne derivano: come si combatte contro un "non Stato"? Come lo si governa? E come si può ricostruire l'ordine perduto?
"L'eclisse dell'antifascismo" racconta l'intreccio tra storia italiana, paradigma antifascista e memoria della Resistenza e della Shoah. È in questo contesto che il mondo ebraico del dopoguerra ha assunto un ruolo di protagonista della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia. I percorsi che questo volume segue sono tre: la storia politica del nostro Paese, la memoria della Resistenza e del fascismo e la memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. L'antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato contribuendo a forgiare l'Italia democratica. Un paradigma quello antifascista - e il suo uso politico - non privo di conseguenze anche nell'oggi. Pilastro della narrazione de "L'eclisse dell'antifascismo" è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all'antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all'etica e alla politica. Da "Se questo è un uomo" a "I sommersi e i salvati", le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro. Prefazione di Anna Foa.
La storia del Novecento in Europa parte da est, dai grandi imperi multietnici dove le idee di nazione rompono gli equilibri secolari, innescano le scintille di due devastanti conflitti e portano alla distruzione di tutte le potenze europee, un tempo padrone del mondo. Vista così, l'Europa del Novecento è un continente incendiato e distrutto, ricostruito e nuovamente disseminato di rovine, povertà, ingiustizie, massacri, odi e orrori. Eppure cento anni di divisioni non hanno spento la civiltà europea, né interrotto il percorso per l'affermazione dei valori democratici, né soffocato la speranza di un futuro di giustizia e di benessere per tutti. La storia di questo secolo in Europa è anche il racconto del coraggio di donne e uomini che negli ideali di libertà e nei diritti hanno creduto. È la storia del riscatto dalla povertà e dall'oppressione di milioni di europei che acquistano coscienza di sé, istruzione, piena cittadinanza e pari diritti. È anche il racconto di una civiltà che cambia sulla scia di due rivoluzioni industriali e di una terza tecnologica e informatica: le prime segnano la scomparsa del mondo contadino, mentre l'ultima, dalla fine degli anni Settanta, marca l'avvento di una nuova era post moderna, l'era della comunicazione e della conoscenza.
La Resistenza a lungo è stata considerata solo una "cosa di sinistra": fazzoletto rosso e Bella ciao. Poi, negli ultimi anni, i partigiani sono stati presentati come carnefici sanguinari, che si accanirono su vittime innocenti, i "ragazzi di Salò". Entrambe queste versioni sono parziali e false. La Resistenza non è il patrimonio di una fazione; è un patrimonio della nazione. Aldo Cazzullo lo dimostra raccontando la Resistenza che non si trova nei libri. Storie di case che si aprono nella notte, di feriti curati nei pagliai, di ricercati nascosti in cantina, di madri che fanno scudo con il proprio corpo ai figli. Le storie delle suore di Firenze, Giuste tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei; dei sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che sceglie di morire con i suoi parrocchiani dicendo "vi accompagno io davanti al Signore"; degli alpini della Val Chisone che rifiutano di arrendersi ai nazisti perché "le nostre montagne sono nostre"; dei tre carabinieri di Fiesole che si fanno uccidere per salvare gli ostaggi; dei 600 mila internati in Germania che come Giovanni Guareschi restano nei lager a patire la fame e le botte, pur di non andare a Salò a combattere altri italiani. La Resistenza fu fatta dai partigiani comunisti come Cino Moscatelli, ma anche da quelli cattolici come Paola Del Din, monarchici come Edgardo Sogno, autonomi come Beppe Fenoglio. E fu fatta dalle donne, dai fucilati di Cefalonia, dai bersaglieri che morirono combattendo al fianco degli Alleati...
La notte del 24 aprile 1915 iniziava l'orrendo sterminio del popolo armeno nei territori dell'Impero ottomano. In un solo mese, più di mille intellettuali (giornalisti, scrittori, poeti, politici) furono deportati verso l'interno dell'Anatolia e massacrati. A costoro si unirono altre centinaia di migliaia di persone uccise con ferocia inaudita. Alla fine gli armeni cristiani "martirizzati" furono circa un milione e mezzo. A distanza di cento anni da quel genocidio parlano da Yerevan gli ultimi sopravvissuti di una tragedia che ancora oggi la Turchia si rifiuta di riconoscere. Oltre alle eccezionali e uniche testimonianze, il libro descrive il terrificante passato facendo i dovuti parallelismi con quanto accade ora in Medio Oriente, in cui il governo di Ankara, ancora oggi, persegue una politica brutale e finanzia movimenti come l'Isis. E così gli eccidi di ieri sono attualizzati dalla incredibile disinvoltura dei vertici dello stato turco che finanziano e foraggiano, sotto gli occhi di tutti, i tagliatori di teste, compresi quelli che massacrano gli armeni di Aleppo e della Siria. Un libro che occorre leggere per non dimenticare e, soprattutto, per non ripetere gli stessi errori.
Bollini arrivò a morire con eroismo grazie alla solida formazione ricevuta all'interno del suo oratorio e nella Giac, la Gioventù Italiana di Azione Cattolica. Da qui la necessità di alzare lo sguardo verso un orizzonte più ampio, ovvero quello costituito dalla partecipazione alla lotta di Liberazione dei giovani e degli uomini che nell'antica associazione militavano o avevano militato pochi anni prima. Il rapporto tra Ac e Resistenza è stato studiato finora sotto molti profili, ma per lo più in modo disorganico oppure apologetico o, ancora, all'interno della più vasta storia dei cattolici nella Resistenza. Le pagine che seguono non hanno certo la pretesa di colmare questa lacuna, ma vorrebbero sollecitare gli studiosi ad affrontare in modo più organico e completo questi argomenti, oltre che invogliare gli attuali appartenenti all'Azione Cattolica (e, certo, non solo loro) a riscoprire e valorizzare un patrimonio di idealità e di fede che non deve andare disperso.
Nel 1915, in piena Guerra mondiale, il regime dei Giovani Turchi fece deportare la gran parte degli armeni di Turchia nelle lontane terre dell'Anatolia orientale. Quasi il quaranta per cento della popolazione armena morì nel corso di poche settimane, tra marce forzate, massacri e brutalità di ogni genere. Da allora gli armeni di ogni paese ricordano quel tragico avvenimento come il primo genocidio del XX secolo. Guenter Lewy, celebre storico del nazismo, ha ricostruito la vicenda attraverso un imponente lavoro su archivi riservati e sulle testimonianze dei sopravvissuti. Il risultato è il primo, vero lavoro di storia su una delle pagine piú discusse del Novecento.
Mentre la pallida luce dell'alba si diffondeva sulla Manica, un corpo d'invasione composto da centotrentamila unità si apprestava a sbarcare sulle coste della Normandia. Era il 6 giugno 1944, il D-Day, "il giorno più lungo", che avrebbe cambiato il corso della seconda guerra mondiale e della storia del Novecento. "È suonata l'ora per la quale siamo nati" proclamava il "New York Times", l'ora che lasciava intravedere l'inizio della fine della Germania nazista. Ma per i soldati stivati nei mezzi da sbarco, paralizzati dal freddo e dalla paura, che a migliaia sarebbero caduti sulle spiagge presto divenute celebri di Omaha e Utah, l'assalto alla Fortezza Europa era solo all'inizio. Sarebbe trascorso un altro anno prima che nella Berlino circondata dall'Armata rossa il cadavere di Hitler bruciasse in uno squallido cortile. Un anno di combattimenti atroci, di battaglie epocali e di luoghi destinati a rimanere per sempre nella memoria e nella coscienza dell'Occidente: il porto di Cherbourg, la valle del Rodano, i boschi delle Ardenne, le lanche del Reno, la foresta di Hürtgen. La strada verso il cuore del Terzo Reich sarebbe stata ancora lunga e lastricata di incomprensioni, dissidi strategici, rivalità personali oltreché di innumerevoli vite spezzate. Un lungo cammino che avrebbe confermato, ancora una volta, che la guerra non è mai lineare, ma è un'impresa caotica, disordinata, fatta di errori e di slanci, di successi e di rovesci.
Dongo, 27 aprile 1945, è una mattina livida e piovosa, quando Mussolini e i gerarchi in fuga vengono fermati dai partigiani della 52' brigata Garibaldi, sulla litoranea del lago di Como. Nella lunga autocolonna che accompagna il Duce e gli epigoni del fascismo di Salò viene trovata un'ingente quantità di beni preziosi, banconote di ogni taglio, oro, gioielli, titoli di Stato, valuta straniera, in gran parte provenienti dai fondi segreti dei ministeri della Repubblica sociale. Un ricco bottino che da quel giorno tutti conosceranno come il "tesoro di Dongo". Chi si è impossessato di quell'oro, destinato alle autorità del nuovo Stato italiano? Chi lo ha trasferito alla federazione comunista di Como? Chi se n'è impadronito in seguito? E chi ha fatto scomparire il "capitano Neri" e la partigiana "Gianna", combattenti garibaldini che ne avevano compilato l'inventario? Nella primavera del 1957 ha finalmente inizio, presso la Corte d'assise di Padova, il processo che dovrebbe fare luce su questi interrogativi. Un procedimento che suscita tante attese, ma che viene rinviato dopo quarantatré udienze per il suicidio di un giudice popolare e che non verrà mai più ripreso, perché "scomodo". Dalle carte disponibili emergono infatti con chiarezza le responsabilità politiche degli eventi che si sono consumati in quei lontani giorni del 1945.
"Io non combatto per la mia patria, combatto per mia madre, per rivedere il suo viso." A settant'anni dalla Liberazione, queste parole del diario partigiano inedito di Angelo Del Boca gettano nuova luce sulla storia, il dramma e le ragioni dei molti giovani nati tra le due guerre che, ricattati e mandati allo sbaraglio dalla Repubblica sociale, scelsero la montagna come estremo gesto di fedeltà ai più profondi valori umani e affettivi, contro la retorica fascista del credere-obbedire-combattere, gli orrori della guerra civile e la barbarie dell'occupazione tedesca. Aspirante scrittore che affonda lo sguardo in sé stesso e in ciò che lo circonda, il diciannovenne Del Boca annota scrupolosamente ogni fase delle peripezie del giovane alpino rimpatriato nell'estate del 1944 dall'addestramento militare in Germania nelle file della divisione Monterosa, schierata nell'appennino ligure-emiliano come forza antiguerriglia: la scelta della libertà e la fuga, l'impatto traumatico con la diffidenza e il disprezzo del capo di una formazione garibaldina, l'arrivo a Bobbio (Piacenza) e l'inserimento nella 7a brigata alpini Aosta del comandante Italo. Il diario parla di marce, pioggia, neve, fame, freddo, sonno, paura, vergogna, e di nostalgia di casa, di ricordi d'infanzia, di foto, occhi e sorrisi di ragazze che accendono la fantasia e il desiderio, di qualche bacio rubato, di una irresistibile e pervasiva sete di amore e normalità.
Angelo Del Boca è nato a Novara il 23 maggio del 1925. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Del Boca fu costretto ad arruolarsi e spedito in Germania per un corso di addestramento. Ritornato in Italia nell’estate del 1944, decide di disertare e di unirsi alla resistenza. Durante il periodo in cui militò nei partigiani, conobbe Maria Teresa Maestri, una crocerossina dei partigiani che nel 1947 sarebbe divenuta sua moglie. In seguito alla Liberazione Del Boca si è dedicato alla scrittura, pubblicando la raccolta di racconti “Dentro mi è nato l’uomo”. Contemporaneamente lavora come giornalista, divenendo in breve Redattore Capo, a Novara, del settimanale socialista Il Lavoratore. Dopo questa prima esperienza giornalistica passa alla redazione de La Gazzetta del Popolo, dove lavora come inviato speciale, e poi a Il Giorno. Nel 1981, quando sulla scena politica italiana irruppe la figura di Bettino Craxi, Del Boca decise di lasciare la redazione de Il Giorno e anche il partito socialista. Del Boca è autore di numerosi volumi, molti dei quali raccontano e denunciano le atrocità perpetuate dal fascismo durante il processo di colonizzazione in Africa. Fu il primo a raccontare le azioni del fascismo in Libia e in Etiopia, dove le truppe italiane ricorsero a bombardamenti aerei su centri abitati, all'impiego di armi chimiche e alla creazione di campi di concentramento. A causa delle sue affermazioni è stato molto contestato dalla parte conservatrice della stampa e dalle associazioni dei reduci di guerra. Angelo Del Boca attualmente vive a Torino, dove dirige la rivista di storia contemporanea I sentieri della ricerca.
Dall'estate del 1943 alla primavera del 1945, mentre la Wehrmacht arretra dal Sud al Nord Italia e il nuovo fronte della resistenza prende corpo, il Terzo Reich scatena la violenza delle sue truppe sulla popolazione civile. Uomini, donne e bambini diventano nemici da annientare, bersagli scelti di corpi speciali. Di quelle stragi Carlo Gentile si è occupato da studioso e da perito nei processi che in alcuni casi - come Sant'Anna di Stazzema - sono ancora storia viva. Frutto di anni di ricerca nei principali archivi internazionali compreso il noto "armadio della vergogna" - il suo lavoro ripercorre la storia delle vittime e ci offre un ritratto inedito dei carnefici, spesso militari molto giovani ma fortemente ideologizzati. Già pubblicato in Germania, dove è stato accolto come un importante contributo al dibattito storiografico, lo studio di Gentile è la cronaca di un biennio che ha ferito l'Italia nel profondo, ma soprattutto è un quadro dettagliato, assai significativo, delle strategie di guerra tedesche nel nostro paese.
«Tiri su il suo body count o ha chiuso». Il generale Ewell incalzava senza pietà i suoi sottoposti in Vietnam con la conta dei morti. Era ossessionato. Nessuno doveva permettersi di abbassare il livello della sua divisione. 6.000 morti al mese come minimo, era l’obiettivo. Ne andava della sua reputazione di “macellaio” del Delta del Mekong. Tutto in Vietnam ruotava intorno al body count. Sulle pareti della mensa campeggiavano i punteggi settimanali di ogni soldato, in modo che tutti vedessero. E si regolassero di conseguenza. Se eri tra i primi avevi premi, licenze, casse di birra e altre piacevolezze. In caso contrario, stavi molto molto scomodo. Il sergente Roy Bumgarner pare ne abbia uccisi 1.500 da solo. E come lui, ce n’erano decine.
«Uccidi, uccidi, uccidi», urlavano le reclute per tutto l’addestramento. «Spara a tutto ciò che si muove» era l’ordine dall’alto per le missioni. Disobbedire non era contemplato. La retorica della guerra in Vietnam ha riconosciuto My Lai come l’unico crimine di guerra commesso dai soldati americani. La strage di 500 donne, anziani e bambini, tutto un villaggio, compiuta nel 1968 è definita un caso isolato, opera di mele marce.
Non è così. Basandosi su documenti riservati e sulle voci di testimoni oculari americani e vietnamiti, Turse costruisce un racconto mozzafiato e definitivo della “sporca guerra”.