
"Giulia fu una donna spiritosa, brillante, estroversa, sicuramente affascinante, conscia del suo ruolo e del suo peso sociale, che aspirava a conquistarsi sempre e comunque un proprio spazio nel quale, civettando, primeggiare: dalla frequentazione dei cenacoli letterari a quella dei circoli politici, dai salotti della ribellione generazionale a quelli, più insidiosi, della sotterranea opposizione al regime e al sistema. Tutto le era permesso, e dovunque si muovesse la seguiva un folto stuolo di corteggiatori che ne stimolava l'orgoglio e ne suscitava la vanità. Contestatrice del padre e del suo ipocrita mondo di valori, non si accorse in tempo del baratro in cui sprofondava, giorno dopo giorno, spostandosi da posizioni di fronda a quelle di aperta congiura. Molla ne fu sempre il suo spirito provocatorio e l'impulso al ruolo di prima donna": dal primo accordo di matrimonio stipulato dal padre quando la bimba aveva due anni alla morte, forse casualmente, anche del padre nello stesso anno, il volume ricostruisce l'affascinante vita di una donna discussa e criticata dai suoi contemporanei e forse musa ispiratrice di poeti e bizzarre situazioni dentro la sua corte. È lei Corinna, la donna cantata da Ovidio negli "Amores"? Perché era così affascinata dall'Egitto? Gusto dell'esotico o fatale attrazione verso forme ellenistiche di potere e dispotismo? Quale la natura del rapporto antagonistico tra lei e Livia, la terza moglie di Augusto?
La natura umana non è sempre grave e maestosa; ha i suoi alti e bassi. Da questo assunto muove Frederick Rolfe, alias Baron Corvo, per comporre un'erudita e curiosissima apologia di una delle più controverse dinastie dell'Europa cristiana, i Borgia. Nessuna tardiva riabilitazione, però; perché secondo l'autore gli uomini sono per natura vili al di là di quel che le parole riescono a esprimere. Lo scopo di Baron Corvo è, piuttosto, mostrare i Borgia quali in realtà furono, come campioni, cioè, di splendore e decadenza in un'epoca passionale di vizio e virtù estreme. Alessandro VI, Lucrezia, il duca Cesare, appaiono così vivi, suggestivi e lontani da eroici quanto ipocriti cliché celebrativi. Eccentrico e magniloquente, "Cronache di Casa Borgia" ricostruisce la genealogia della famiglia, dalla metà del XV alla fine del XIX secolo, intrecciandola con molte altre storie: la guarigione del Grande Scisma, la Rinascita delle lettere e delle arti, l'invenzione della stampa, l'invasione musulmana dell'Europa, la storia della scoperta dell'Uomo. Prefazione di Mario Praz.
Nell'agosto 1914, allo scoppio delle ostilità, molti si erano arruolati entusiasti, immaginando di prender parte a una gloriosa avventura, convinti che il sacrificio del sangue avrebbe dato vita a un mondo e un uomo rinnovati. Dopo pochi mesi, l'entusiasmo era scomparso. Ci si rese conto che la guerra era completamente diversa da quelle fino ad allora combattute: per l'enormità delle masse mobilitate, per la potenza bellica e industriale impiegata, per l'esasperazione parossistica dell'odio ideologico, per l'ingente numero di soldati sacrificati inutilmente. La Grande Guerra rappresentava il naufragio della civiltà moderna. I combattimenti cessarono alle ore 11 dell'11 novembre 1918. E già all'orizzonte nuove tragedie si profilavano, poiché il trattato di Versailles ridisegnava l'intera geografia europea secondo la volontà dei vincitori, con conseguenze gravi e di lunga durata a livello politico e ideologico: le rivendicazioni territoriali, la corsa al riarmo e la militarizzazione di massa della società saranno alcuni dei principi cardine sui quali regimi totalitari come il fascismo e il nazismo baseranno il proprio consenso. Gentile ricostruisce il contesto sociale, culturale e antropologico entro il quale maturò quella che è ritenuta una delle più tragiche esperienze del Novecento, soffermandosi in particolare sugli artisti e gli intellettuali che, se all'inizio avevano invocato la guerra come una catarsi, si fecero poi interpreti dell'angoscia profonda da essa scatenata.
Firenze potrebbe sembrare l'ultima città ad aver bisogno di una presentazione, data la sua fama leggendaria: patria natale del Rinascimento e culla della moderna civiltà occidentale. Questo libro offre tuttavia un'interpretazione di circa quattro secoli di storia fiorentina da una prospettiva diversa da quella della leggenda che presenta Firenze come un miracolo inspiegabile, sostanzialmente senza storia e contesto. Da tempo gli storici dell'arte e della letteratura hanno inquadrato le opere della Firenze rinascimentale nel loro contesto storico. Ma altrettanto va fatto per sradicare l'idealizzazione dei detentori della ricchezza e del potere nella Firenze di quei secoli. La sua storia fu piena di conflitti, sia all'interno dell'élite sia fra questa e le altre classi sociali. La sua storia e cultura si svilupparono attraverso controversie e antagonismi di classe. Durante il XIII secolo nelle città italiane il "popolo" organizzato nelle arti di mestiere e nelle compagnie militari di quartiere, imbevuto dei concetti di cittadinanza e di bene comune assorbiti dalla Roma antica, lanciò la prima sfida politicamente efficace e ideologicamente fondata a una élite di detentori del potere; una sfida, nel caso di Firenze, che riuscì, non a rimpiazzare l'élite, ma a trasformarla.
Quando, nel 1943, le armate di Hitler occuparono l'Italia, misero le mani sui più importanti tesori artistici dell'umanità. Come avevano già fatto in tutta Europa, si dedicarono al saccheggio sistematico delle bellezze del nostro Paese: capolavori del Rinascimento, tesori vaticani, preziosi manufatti antichi. Alla vigilia dell'invasione alleata, il generale Dwight Eisenhower incaricò della protezione di questo immenso patrimonio una nuova tipologia di soldato. Erano nati i Monuments Men. Nel maggio del 1944 due improbabili eroi statunitensi, l'artista Deane Keller e lo storico dell'arte Fred Hartt, partirono da Napoli per la più grande caccia al tesoro della storia. Le truppe tedesche in ritirata verso Nord, agli ordini del generale Karl Wolff, avevano infatti l'ordine di trasportare quante più possibili opere d'arte entro i confini del Reich. Giocando contro il tempo e i rischi che minacciavano i capolavori e la loro stessa vita, Keller e Hartt guidarono la loro piccola task force sulle tracce del bottino di guerra dei nazisti: reperti di età romana, tele, capolavori di Michelangelo, Donatello, Tiziano, Caravaggio e Botticelli. Un patrimonio inestimabile che strapparono al nemico con diplomazia, intelligenza e determinazione. Ricostruito con minuziose ricerche, "Monuments Men: missione Italia" conduce il lettore in un viaggio emozionante lungo lo Stivale, da Milano, dove il Cenacolo vinciano si salvò per miracolo dai bombardamenti, al cuore del Vaticano.
L'Opera nazionale dopolavoro fu istituita dal regime fascista nel 1925 con lo scopo di promuovere e organizzare dall'alto il tempo libero dei lavoratori. Collocata nei gangli dell'amministrazione ordinaria (la vigilanza dell'ente fu assegnata inizialmente al ministero per l'Economia nazionale), subì tuttavia l'influenza e l'attenzione crescente del PNF, che tentò di farne una sua organizzazione collaterale. Pur essendo questo uno dei motivi per cui venne considerata dalla storiografia l'ente del consenso per antonomasia e uno degli strumenti più tipici del progetto totalitario di conquista delle masse, l'OND mantenne, sino alla fine del ventennio, una sua identità istituzionale ambigua, in parte "burocratico-ministeriale", in parte "politico-militante". Come emerge dalla ricerca, inoltre, la sua presa sulla realtà del lavoro fu discontinua e non sempre uniforme, concentrandosi per lo più sulle "aree forti" del paese e tra determinate categorie di lavoratori.
Tra il 1979 e il 1994 Norberto Bobbio interviene più volte sulla strage di Piazza della Loggia con conferenze a Brescia, lettere e articoli. Per la prima volta qui raccolti, in occasione del quarantennale della strage, questi scritti, partendo dalla mancata acquisizione di una verità giuridica, vertono sugli arcana imperii, sul potere invisibile: un rischio involutivo insito nella democrazia, quando il potere si sottrae al controllo pubblico e l'opacità dei suoi comportamenti mina la coesione del contratto sociale. Come se la vita della democrazia, per la tensione tra potere e libertà, corresse il rischio ciclico di uno scivolamento nell'opposto: l'autocrazia, con il suo intreccio di "potere invisibile e violenza". Scritti che sono insieme, nel loro malinconico disincanto, una sorta di testamento civile e una sintesi della lezione di Bobbio sui fondamenti della democrazia, e sulle sue promesse non mantenute.
Trincee, fango, filo spinato, corpi di giovani soldati martoriati da mitragliatrici, baionetta e gas tossici: così ci raffiguriamo oggi la Prima guerra mondiale. Ma "che cosa è successo davvero, in Europa, nel 1914?" Possibile che tra i ventotto paesi coinvolti la Germania sia stata l'unica colpevole? Per rispondere a queste domande, e chiarire le cause di un conflitto che, agli occhi degli storici, appaiono più intricate di quelle della Seconda guerra mondiale, Max Hastings corregge le inesattezze perpetuate durante quest'ultimo secolo e fornisce al lettore una nuova, suggestiva chiave interpretativa. Sapevate, ad esempio, che quasi tutte le nazioni, per scagionarsi, distrussero la documentazione che riguardava il proprio ruolo nella guerra o ne crearono una fittizia? Se pressoché tutti gli studi sulla Grande Guerra si sono limitati a descrivere "il convulso scenario politico e diplomatico o a fare una cronaca degli eventi militari", "Catastrofe" fa entrambe le cose. Da un lato, ricostruisce le cause che dalla "sensazione che stia per succedere qualcosa", portarono all'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando e, dall'altro, servendosi di una quantità sterminata di testimonianze e resoconti, descrive la sontuosa marcia dell'esercito francese accompagnato da musicisti e sbandieratori attraverso le campagne assolate; e, ancora, ci parla delle poco indagate campagne in Serbia, degli inverni nella Russia dell'Est, e delle rischiose spedizioni sulle coste della Galizia.
Come frequentare la cultura dei greci e dei romani, in un'epoca di polverizzate nozioni e di frantumate informazioni? Eva Cantarella, che ha intrapreso da una decina d'anni un'opera di appassionata e intelligente divulgazione, sembra rispondere che la frantumazione non lavora necessariamente contro la conoscenza. E dunque abilmente seziona, isola in microracconti un mondo altrimenti confinato nei testi accademici: attinge al materiale immenso dei suoi studi e delle sue predilezioni per consegnarci il mosaico della vita degli antichi, con l'intento dichiarato di farceli sentire "nostri contemporanei". Come vivevano, greci e romani, i sentimenti dentro e fuori la famiglia? Com'era organizzato l'istituto famigliare? A quali immagini affidavano la loro identità? La cucina andava di moda a Roma come da noi? Procedendo per segmenti, per narrazioni, aneddoti, considerazioni morali e politiche, Eva Cantarella ci svela i più diversi aspetti della vita pubblica e privata nell'antichità classica: cibo e banchetti, bellezza e cura del corpo, giochi e sport, superstizione e magia, politica e diritto, nascita e morte. Questi frammenti di vita vissuta offrono il ritratto vivo e palpitante di uomini e donne a noi vertiginosamente vicini, i cui sogni, paure, speranze, aspettative, desideri sono spesso gli stessi che attraversano la mente e il cuore di noi che li guardiamo da una distanza di quasi duemila anni.
Il 21 agosto 201 3 un attacco chimico alla periferia di Damasco ricorda al mondo l'esistenza della guerra in Siria, già in corso da due anni. L'intervento occidentale sembra imminente, decine di giornalisti accorrono alla frontiera per poi sparire delusi quando Obama decide di non bombardare. Lasciano dietro di sé 1 26.000 vittime accertate, 200.000 stimate, e oltre metà della popolazione sfollata o rifugiata nei paesi vicini: secondo le Nazioni Unite, la peggiore crisi umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Francesca Borri copre per mesi la battaglia di Aleppo da reporter freelance e capisce presto di trovarsi su un duplice fronte: quello di una guerra senza regole, dove non esiste alcuna distinzione tra civili e combattenti, ma anche il fronte quotidiano dei rapporti con i caporedattori e gli altri giornalisti, in cui dominano cinismo, competizione, superficialità. Un viaggio nella guerra, ma anche nei meccanismi a noi nascosti con cui viene costruito, e spesso distorto, il suo racconto. Un viaggio che investe come un colpo di mortaio tutto quello in cui crediamo, il lavoro, l'amicizia, le ambizioni, e ci costringe a non sprecare più niente della bellezza della vita.
Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divide in due la storia del XX secolo: l’at­tentato in cui fu ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando. Prima di quel giorno, esisteva un mondo che presto sem­brò remoto. Dopo quel giorno, è già il nostro presente. Se le guardiamo da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine appaiono gremite, come tutte le altre, di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri fortuiti. Gilberto Forti ha avvicinato ad esse la lente della poe­sia e ne ha estratto undici «storie in versi» che si presentano con quella felice sobrietà narrativa di cui l’autore aveva già dato prova nel Piccolo almanacco di Radetzky. A parlare sono, ogni volta, personaggi immaginari che raccontano la real­tà. E subito ci vengono incontro voci e figure, dal­l’Im­pe­ratore Francesco Giuseppe, che «si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse», all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte all’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono tutti intorno a un centro: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi possiamo vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Im­ponente è la catena dei casi, delle inconsce volontà, dei consapevoli disegni che portarono a quei colpi di pistola, come se gli eventi fossero calamitati. E quasi come se la vittima li avesse cercati. Francesco Ferdinando qui non parla, ma altri parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Forti è riuscito a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia: sterminatore di animali (più di trecentomila furono da lui uccisi cacciando), appassionato di fio­ri (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico, finirà dissanguato sotto i colpi di Gavrilo Princip anche perché nessuno saprà aprirgli subito l’uni­forme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’in­ci­piente obesità.
La svolta di Salerno, la questione di Trieste, la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, l'attentato del 14 luglio 1948, il caso Vittorini, la rivolta di Budapest. Sono solo alcuni degli argomenti affrontati da Palmiro Togliatti nelle sue lettere, di cui questo volume - un'assoluta novità raccoglie un'ampia selezione, dal suo rientro in Italia alla morte. Grazie al profilo e ai ruoli d'eccezione dei suoi corrispondenti (da Pietro Badoglio a Benedetto Croce, da Alcide De Gasperi a Romano Bilenchi, da Pietro Nenni a Vittorio Valletta, da Stalin a Giuseppe Dossetti) e alle caratteristiche delle lettere prescelte, l'Epistolario costituisce una lettura piacevole e vivace. Ogni lettera, corredata da un apparato di note brevi ed essenziali, è accompagnata da un'introduzione che la inquadra storicamente. Nella loro sequenza, le lettere e le introduzioni dei curatori compongono il racconto straordinario di un ventennio di vita italiana, fra cronaca e storia, vent'anni di lotta per l'egemonia nell'Italia della guerra fredda. Prefazione di Giuseppe Vacca.