Gli Scritti sulla grazia, mai pubblicati mentre Pascal era in vita, furono composti probabilmente tra il 1655 e il 1656. Sia che l'occasione fosse dovuta alla richiesta di spiegazioni e consigli di un amico, sia che si trattasse di organizzare il materiale teologico per l'imminente scontro con i gesuiti, essi rimangono uno dei testi esemplari di quella vocazione, al tempo stesso didattica e speculativa, che ne fa un modello di limpidezza e profondità. La grazia, intesa in senso strettamente agostiniano, diventa in queste pagine il cuore di una battaglia che, sulla soglia della modernità, ha come posta il senso stesso del messaggio cristiano.
Come vivere nella città degli uomini sapendo che la vera casa è altrove, nei cieli? Che rapporto intrattenere con il mondo: fuggirlo o contribuire alla sua trasformazione? A tali interrogativi si trovarono a rispondere i membri delle prime comunità cristiane, "convertiti" chiamati a prendere le distanze dal passato e dai suoi costumi, definendo così i tratti di una nuova società, 'altra' rispetto a quella dei pagani e dei giudei, eppure profondamente intrecciata alla cultura urbana che era stata terreno fertile per la diffusione del cristianesimo nel mondo greco-romano. Questo non facile compito sta alle origini della nascita di una specifica morale, in cui l'osservanza dei precetti biblici e neotestamentari si fa codice per l'intera comunità, straniera nel mondo ma saldamente unita a Cristo e, mediante Lui, a Dio. È precisamente nella vita concreta delle prime comunità che Meeks rintraccia gli aspetti più significativi della morale cristiana nel periodo decisivo della sua formazione, dalla morte di Gesù al secondo secolo dopo Cristo. Con un approccio attento a porre in relazione la dimensione teologica e il costume, l'esegesi testuale e l'indagine sociologica, Meeks illumina una realtà complessa, fatta di credenze, sensibilità, percezioni, pratiche. Ne descrive il linguaggio, i valori, i fattori di aggregazione, i concetti portanti - la carità, il celibato, le relazioni tra i due sessi, la concezione dell'autorità, il senso delle cose ultime...
Il papa Giovanni Paolo II nell'enciclica Ut unum sint ha posto a tema della riflessione ecumenica la questione del ministero papale nella Chiesa. Si tratta, scrive il papa, di "curare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio d'amore riconosciuto dagli uni e dagli altri" (Ut unum sint, n. 95). Per questo il papa propone che si indaghi circa "una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova" (ibi). Il papa invita, cioè, a progettare un'immagine storica del primato, che consenta la formazione di un consenso universale. Per le chiese che accettano l'invito, significa entrare in una fase di ripensamento della propria tradizione teologico-canonica, in vista di un cambiamento della propria prassi, che sia rispettoso delle loro convinzioni di fede, ma tenda anche ad annullare o, perlomeno, a diminuire la distanza che oggi le separa. È un impegno che naturalmente vale per tutti i cristiani, ma forse spetta in primo luogo ai cattolici. Questo libro intende, perciò, offrire un contributo di risposta alla domanda: quali sono, nell'ambito della tradizione cattolica e in dialogo con le altre tradizioni cristiane, gli sviluppi auspicabili nella forma di esercizio del primato, perché esso possa meglio corrispondere alla sua funzione in seno ad una cristianità che tende all'unità?
Da tempo la società civile si sta interrogando sulla questione criminale, su quale sia la risposta "giusta" alla violazione delle leggi penali compiuta dai suoi membri. Ciò ha innescato un'ampia riflessione riguardo alla riforma del modello basato sulla "sanzione penale" e alla necessità di nuove strategie razionali e rispettose della persona umana. Questo non può lasciare indifferente la cultura teologica, dal momento che nel corso della storia si sono determinati complessi rapporti tra asserzioni teologiche e giustificazione delle modalità punitive statuali, specie con riferimento all'idea della pena come "retribuzione" della colpa. L'intento di questo libro è verificare quale sia l'apporto della teologia alla soluzione di tale problema. Esso non si propone di ricercare la migliore giustificazione teorica della pena, così come questa si è tradizionalmente configurata, né di fondare una teoria cristiana della pena, ma di chiarire quali esigenze il messaggio cristiano ponga in evidenza per la progettazione di un intervento giuridico-sociale che sia eticamente valido e socialmente efficace.
Questo volume si propone di presentare la figura del Nazianzeno «vista dall’interno»: le situazioni e gli eventi attraverso ai quali egli passò sono inquadrati nella storia documentaria, ma sono anche esaminati con particolare attenzione, come furono da lui percepiti: la biografia è ricca solo quando è radicata nell’autobiografia. Le confidenze di Gregorio vengono pertanto approfondite nelle loro radici e le sfumature vagliate quali testimonianze della sua arte ed umanità. È questo il messaggio che costituisce il suo valore ed il suo significato di «classico»: illuminò con felice penetrazione i suoi drammi personali, ritrasse i suoi smarrimenti ed i suoi aneliti, osservò gli uomini che lo circondavano: tutto colse con l’acutezza che solo la superiorità dell’ingegno e l’eccellenza dell’arte forniscono. La sua attualità è così diventata anche la nostra, in nome della perennità della natura umana, e la sua esperienza si riflette a chiarificazione di chi viene in contatto con lui.
Francesco Trisoglio, già titolare della cattedra di Storia Bizantina e di quella di Storia della civiltà e della tradizione classica presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, ha pubblicato, in Italia ed all’estero, un centinaio di saggi e volumi sui classici greci (i tragici) e latini (Cicerone epistolografo, Virgilio, Orazio, Ovidio, Plinio il Giovane), su Filone d’Alessandria, sui Padri della Chiesa greci (Melitone di Sardi, Eusebio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo, Palladio di Elenopoli) e latini (Cipriano, Ambrogio, Gaudenzio da Brescia, Girolamo) e sugli scrittori bizantini (gli storici e Procopio di Cesarea), soffermandosi particolarmente su Plinio, Gregorio, Procopio e sul Christus Patiens. Il suo interesse precipuo verte sull’arte, sulla personalità e sul messaggio che i singoli scrittori hanno trasmesso.
I Tre dialoghi e il racconto dell'Anticristo sono l'opera 'ultima' di Solov'ëv, l'apice e forse la ritrattazione di tutta la sua precedente riflessione. In queste pagine, scritte poco prima della morte, la fiducia nella storia viene sostituita da una più drammatica interpretazione del divenire terreno. Se nei Tre dialoghi il bersaglio polemico di Solov'ëv è costituito soprattutto dal cristianesimo mutilo di Tolstoj, il Racconto dell'Anticristo è un testo che continua a inquietare per la chiaroveggenza con cui ci rivela il volto - o, meglio, uno dei volti - dell'Anticristo nell'epoca moderna. Il suo Anticristo irrompe in una storia umana desacralizzata, svuotata di orizzonti trascendenti, agendo nel vuoto, in una frammentazione orizzontale di religioni, culture, popoli, accogliendo ogni aspetto del reale ma spogliandolo al tempo stesso del suo significato essenziale. In questo senso l'Anticristo di Solov'ëv, portatore di un'ideologia conciliatrice, 'inclusiva', capace di una quasi infinita capacità di allontanamento dalla Verità, appare particolarmente attuale e minaccioso oggi, nell'odierno deserto del senso e dei valori.
La definizione del genere letterario agiografico ha sempre costituito un problema storiograficamente controverso, in ragione del carattere peculiare di queste fonti - che un'autorevole tradizione pone alla stessa altezza della proclamazione della Parola - e della complessità della loro redazione, che trasforma un accadimento storico - la sequenza del martirio - in un evento teologico - la perfetta imitazione di Cristo condotta sino a una piena comunione con Lui -, evento che trova quale luogo di celebrazione la liturgia. Il Martyrium Polycarpi può ben essere assunto quale archetipo di questa funzione ecclesiale: nel documento princeps dell'agiografia cristiana, I'eredità della riflessione tardogiudaica sulla morte violenta del giusto che nell'apocalittica trova la sua più alta espressione - viene elaborata in un contesto squisitamente cristologico, attraverso un processo in cui la figura del martire si dissolve nel simbolo della croce. La stessa 'coordinata agiografica' del testo, che situa la morte del vescovo smirneo in un giorno di 'grande sabato', deve allora essere letta non già come una mera indicazione cronologica, ma piuttosto come una cifra ermeneutica che perfeziona il rapporto di partecipazione tanto del martire a Cristo quanto del martirio alla Pasqua. La pregnanza del sabato nella Bibbia, non meno che nell'elaborazione teologica, paleocristiana, comporta un arricchimento di questa dinamica: nella direzione di un'escatologia che individua nello stesso 'giorno del Signore'...
Rahner afferma che il discorso metafisico di Tommaso d'Aquino riguarda anche la capacità conoscitiva dell'uomo, e perciò deve comprendere la conoscenza della natura dell'uomo, della sua anima, della sua facoltà intellettiva, ossia l'antropologia e la psicologia aristotelica. Il carattere trascendentale riconosciuto in questo discorso non vuole indicare in alcun modo un limite kantiano, ma solo sottolineare che la considerazione del pensato richiede la considerazione del pensante. La legge dell'essere è infatti la stessa legge del logos e del logos l'uomo può avere un'esperienza originale e per ciò fondante: nei modi della coscienza si possono in definitiva riconoscere le condizioni per l'apparire dell'essere. D'altra parte la reciprocità di essere e logos implica anche che l'essere sia logicamente anteriore alla conoscenza, non come conseguenza, ma come principio del conoscere. In altri termini si può anche dire che la conoscenza è originariamente riconoscenza.