Ecco la prima opera di Jacques Derrida. Scritta nel 1953-54, quando era studente di Filosofia all'École Normale Supérieure di Parigi, propone una lettura dell'opera di Husserl che assume come filo conduttore il tema della genesi. Si trattava allora di analizzare le difficoltà e i rimaneggiamenti provocati nel pensiero del fondatore della fenomenologia dalla presa in considerazione del tempo, del divenire e della storia, tanto nella costituzione del soggetto trascendentale quanto nella produzione intenzionale del senso dei suoi oggetti, e in particolare degli oggetti scientifici. Oltre a permetterci di ricostruire aspetti filosofici e persino filosofico-politici della Francia del tempo, quest'opera annuncia anche la problematica e lo stile delle questioni "decostruttrici" che Derrida svilupperà nelle sue numerose opere tra il 1962 e il 1990.
Delle arti - di ciò si tratta in questo libro. Delle arti, appunto, al plurale. O anche della problematicità di un singolare - l'"arte" -, che si rifrange ogni volta in una molteplicità lontanissima dall'essere omogenea. Jacques Derrida non si è mai sottratto alla sottile quanto inevitabile ingiunzione che le "arti del visibile", ossia il disegno, la pittura e la fotografia, ma anche il cinema, la videoarte e il teatro, suscitano per il solo fatto di esistere. Ed è vero - come il lettore potrà constatare - che la decostruzione trova nelle arti un'occasione assai feconda di esplicitare, mettere alla prova e sperimentare la portata dei suoi concetti. Per quanto concerne il visibile, infatti, si tratta sempre, anche se in modalità differenti nelle arti e rispetto alla scrittura, della traccia, del tratto, di spettri, e dunque di un "vedere senza vedere niente". Derrida non avrà pensato che a questo non vedere, come rivelano i testi qui raccolti (saggi, interventi, conferenze, interviste, scritti per cataloghi d'arte), apparsi lungo l'arco di venticinque anni di attività e pratica di scrittura, successivi alla pubblicazione di "La vérité en peinture" (1978) fino al 2004.
"A me sembra che vi siano almeno tre ragioni per ritornare ancora su queste pagine, per leggere o rileggere ancora questo saggio scritto quaranta anni fa e che può ormai essere considerato un classico della filosofia contemporanea. Innanzitutto esso è senza alcun dubbio un esempio magistrale di lettura e interrogazione di un testo filosofico; anche se al termine della lettura si arrivasse a non condividere alcuna delle tesi interpretative proposte dal filosofo francese, non si può non riconoscere il rigore, l'acribia e la fecondità di questo modo di leggere, sollecitare la riflessione altrui e praticare la filosofia che non cade mai nell'ingenua sterilità, di intendere il pensiero e l'atto stesso del pensare come un campo di battaglia sul quale confliggono tesi opposte. In secondo luogo il saggio di Derrida è un'analisi serrata di un punto centrale del pensiero platonico che tuttavia alcuni hanno finito per ridurre alla semplice contrapposizione tra oralità e scrittura. La posta in gioco nella riflessione che Platone articola a proposito del mito del dio Theut e dell'invenzione della scrittura va ben al di là della difesa di un particolare mezzo espressivo, l'oralità, coinvolgendo invece la natura del pensiero e l'atto stesso di pensare. In terzo luogo questo saggio del '68 resta centrale anche all'interno dell'amplissima produzione derridiana di cui l'insistenza sul concetto di indecidibilità è senza alcun dubbio uno dei tratti costanti e costitutivi". (Dall'Introduzione di Silvano Petrosino)
La storia del pensiero occidentale è percorsa da una domanda potente e spesso censurata: è possibile stabilire un confine fra uomo e animale? L'uomo, definito di volta in volta "animale dotato di parola" o "animale razionale", è attraversato da questa domanda e scopre nell'animale un'alterità non rappresentabile e indicibile che chiede di essere interrogata e conosciuta. Dal 1997, Derrida inizia una riflessione sull'animale che nemmeno la morte arresta nella sua radicale novità. Aristotele, Descartes, Heidegger, Lévinas, Lacan, ma anche il racconto biblico della creazione e la voce della poesia: il filosofo algerino insegue e stana aporie e irriducibilità, esautoranti opposizioni e tranquillizzanti "biologismi". Una riflessione filosofica che voglia davvero fare i conti con l'alterità non può che collocarsi sulla frontiera fra sguardo animale e umano: "l'animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio qui". Edizione stabilita da Marie-Louise Mallet. Edizione italiana a cura di Gianfranco Dalmasso.
Nel decennale della morte di Derrida, Jaca Book prosegue la pubblicazione dei seminari, dopo i due volumi de "La bestia e il sovrano". In questo primo volume dedicato alla pena di morte sono messi in gioco, nell'imminenza di una sanzione irreversibile, i concetti problematici di sovranità, eccezione e crudeltà. Il libro percorre quattro figure paradigmatiche (Gesù, Socrate, Hallâj, Giovanna d'Arco) e testi canonici: la Bibbia, Camus, Beccaria, Locke, Kant, Hugo, e anche testi giuridici successivi alla seconda guerra mondiale. Cuore pulsante del seminario è riconoscere che le tesi filosofiche e giuridiche a favore o contro la pena di morte si sono appellate agli stessi principi: "non è sufficiente decostruire la morte stessa". Si fa strada l'ipotesi che proprio la pena di morte obblighi a rimettere in discussione gli umanesimi filosofici, politici, teologici, economici che sostengono la nostra epoca.
Nel 2001-2002, Derrida proseguiva le sue ricerche intorno alla sovranità dello Stato-nazione e del suo fondamento onto-teologico-politico. Un’ampia riflessione -testimoniata nel primo volume de La bestia e il sovrano- che da questo momento si sarebbe rivolta verso le grandi questioni della vita animale: quella dell’uomo «animale politico », diceva Aristotele, e quella delle «bestie» - e del trattamento, dell’assoggettamento della «bestia» da parte dell’«uomo». In questo secondo volume tale lavoro giunge alle sue estreme conclusioni modulandosi in una paziente lettura di due testi qualificati come «più eterogenei possibili»: da una parte Robinson Crusoe, l’opera di finzione di Daniel Defoe, e, dall’altra, il seminario tenuto da Martin Heidegger nel 1929- 1930 "Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine".
L'opera che ha inaugurato la decostruzione. Un classico della filosofia contemporanea
«Durante gli anni che seguirono, circa dal 1963 al 1968, cercai di dare forma - in particolare nei tre lavori pubblicati nel 1967 - a ciò che non doveva in alcun modo essere un sistema, ma una specie di dispositivo strategico aperto sul suo proprio abisso, un insieme non chiuso, non chiudibile e non totalmente formalizzabile di regole di lettura, d’interpretazione, di scrittura...». Così confessa Derrida; gli anni a cui egli si riferisce sono quelli dominati dallo strutturalismo e dalle indagini sulla natura del segno, sullo statuto del testo, sul rapporto tra linguaggio e potere. Con i tre volumi ricordati La voce e il fenomeno, Della grammatologia (trad. it. Jaca Book, 1968 e 1969) e La scrittura e la differenza (trad. it. Einaudi, 1971), il filosofo intervenne in questo dibattito cercando di individuare, all’interno di un sistema che finisce sempre per concepirsi come chiuso e autosufficiente, le tracce di quelle contaminazioni che, più che distruggerlo, lo decostruiscono e così facendo anche lo aprono e lo sollecitano verso una scena - in verità la stessa all’interno della quale ogni esperienza umana fin da principio drammaticamente si muove - che non è mai stata e mai potrà essere concepita come una mera struttura. In queste pagine, attraverso un confronto serrato con la fenomenologia di Husserl, le ragioni di una simile sollecitazione sono individuate con un’originalità e un rigore tali da rendere La voce e il fenomeno un classico della filosofia contemporanea.
Il termine "decostruzione", solitamente associato all'opera di Jacques Derrida, è forse uno dei più equivocati della filosofia del Novecento, e sembra ancora lontano il tempo in cui si giungerà a una piena comprensione di quanto abbia prodotto e produca ben al di là delle semplificanti formule a cui lo si è spesso ridotto. In questo secondo volume di "Psyché. Invenzioni dell'altro" è possibile verificare in che senso la decostruzione non è né un'analisi né una critica tecnicamente intese come scomposizioni padroneggiabili, ma un esercizio del pensiero che si produce come lettura esigente e rigorosa, capace di svelare le domande e le genealogie insospettate o nascoste che hanno strutturato e legittimato la tradizione filosofica occidentale. I saggi qui radunati - inaugurati dall'ormai famosa (ma non per questo conosciuta) "Lettera a un amico giapponese" - interrogano Heidegger, Kant, Michel de Certeau e attraversano campi del sapere quali l'architettura, la storia, la teologia, il diritto e la politica, imponendo a ciascuno la radicale presa in carico dei non sempre dichiarati o consapevoli moventi epistemologici, politici, culturali che innervano i loro gesti e le loro procedure.
Come noto, Jacques Derrida dedicò gran parte della propria vita all’insegnamento: prima alla Sorbona, poi, per una ventina d’anni, presso l’École normale supérieure di rue d’Ulm e infine, dal 1984 alla morte, presso l’École des hautes études en sciences sociales, oltre che in molte università nel mondo (regolarmente negli Stati Uniti). Presto aperto al pubblico, il suo seminario richiamò un uditorio vasto e plurinazionale. Nonostante molti dei suoi libri prendano spunto dal lavoro che conduceva, questo rimane una parte originale e inedita della sua opera. Con il presente volume inauguriamo quindi una vasta impresa: la pubblicazione di questi seminari. A partire dal 1991, presso l’EHESS, con il titolo generale di Questions de responsabilité, affrontò le questioni del segreto, della testimonianza, dell’ostilità e dell’ospitalità, dello spergiuro e del perdono, della pena di morte. Infine, dal 2001 al 2003, tenne quella che doveva essere non la conclusione, ma l’ultima tappa di questo seminario, che prese il titolo di La bête et le souverain. Ne pubblichiamo qui la prima parte: l’anno 2001-2002. In questo seminario Jacques Derrida affronta, per dirla con parole sue, una ricerca sulla «sovranità», «la storia politica e onto-teologica del suo concetto e delle sue figure», ricerca presente da molto tempo in molti dei suoi libri, in particolare in Spectres de Marx (1993), Politiques de l’amitié (1994) e Voyous (2003). Questa ricerca sulla sovranità incrocia un altro grande motivo della sua riflessione: il trattamento, sia teorico che pratico, dell’animale, di ciò che, in nome di un «proprio dell’uomo» sempre più problematico, viene chiamato abusivamente, al singolare generale, «animale», sin dall’alba della filosofia e ancora ai giorni nostri. Partendo dalla celebre favola di La Fontaine, Il lupo e l’agnello, nella quale confluisce una lunga tradizione di pensiero sui rapporti tra forza e diritto, tra forza e giustizia, a monte e a valle, in una minuziosa analisi dei testi di Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Schmitt, Lacan, Deleuze, Valéry o Celan, Derida tenta «una sorta di tassonomia delle figure animali del politico» e della sovranità, esplorando così le logiche che ora determinano la sottomissione della bestia (e del vivente) alla sovranità politica, ora svelano una sconcertante analogia tra la bestia e il sovrano, così come tra il sovrano e Dio, che condividono una posizione in qualche modo esterna rispetto alla "legge" e al "diritto".
Uno tra i principali filosofi contemporanei si cimenta con il testo biblico del sacrificio di Isacco e affronta il tema della responsabilità della persona, del suo fondamento esistenziale, in rapporto con saperi e etiche costituiti.
Recitano i dizionari che la parola occasione porta dentro di sé un rimando al caso, all'accidente, a ciò che è fortuito, ma simile connotazione, spesso giudicata negativamente, mette in ombra quanto si lega costitutivamente all'occasione: l'incontro. I saggi raccolti nel primo volume di "Psyché. Invenzioni dell'altro", sono stati raccolti e ordinati da Jacques Derrida proprio intorno all'idea che l'altro, in qualunque modo lo si incontri, è sempre occasione di un incontro in cui percorsi e pensieri, domande e sollecitazioni si raccolgono nell'unità di un'esigenza insieme fondante e ambigua: giocare fino in fondo e senza protezioni la questione della verità.
Nel presente saggio l'autore sonda le fondamenta della costruzione kantiana della "Critica del giudizio" scritta per gettare un ponte sull'abisso che separa natura e libertà. La produttività libera e spontanea dell'artista, eguale a quella di Dio, in tanto eleva l'uomo, in quanto appunto sacrifica la natura, la condizione irriducibile della sua finitezza.