"Il potere e la parola" raccoglie quindici scritti di George Orwell - di cui cinque inediti in lingua italiana - che ruotano attorno ai temi della propaganda, della censura e dell'uso distorto del linguaggio politico, giornalistico e letterario. Composti prevalentemente tra gli anni Trenta e Quaranta, i saggi presenti in questa antologia sono ancora in grado di illustrare con sconcertante accuratezza, oltre settant'anni più tardi, la nostra stessa attualità: le "narrazioni" che divengono surrogati dei resoconti fattuali, la scomparsa della realtà oggettiva e la sua sostituzione con l'interpretazione di comodo, il potere esercitato dalle notizie false nelle società moderne, i concetti di post-verità e la distorsione del linguaggio stesso ad uso di determinate ideologie. Come sempre la scrittura di Orwell si rivela profetica e acutissima: in Orson Welles e l'invasione da Marte lo scrittore prevede con impressionante chiarezza l'ascesa e le cause di quelle che oggi chiamiamo "fake news"; in La libertà di stampa denuncia i subdoli meccanismi censori generati da una certa intellighenzia, e il tentativo perverso di ergersi a difensori della democrazia ricorrendo a metodi intrinsecamente totalitari; in Svelare il segreto spagnolo scrive di come la propaganda riesca a far "scomparire" i fatti oggettivi a favore di "narrazioni" di parte; in Sotto il naso racconta della tendenza umana ad "aggiustare" la realtà per creare "narrazioni" più consone all'ideologia del momento; in Che cos'è il fascismo? della confusione generata dal linguaggio giornalistico su concetti chiave e fondamentali per il progresso della società democratica. Cinque sono i saggi presenti e mai pubblicati prima in Italia: Che cos'è il fascismo?; Parole nuove; Sotto il naso; Svelare il segreto spagnolo; Libertà del parco. Tutti furono composti in un periodo cruciale per lo scrittore e giornalista, in cui produsse alcune delle sue opere più celebri come 1984 e La fattoria degli animali. Apre il libro un saggio introduttivo di Diana Thermes, docente di storia del pensiero politico europeo presso il Dipartimento di Scienze politiche dell'Università Roma TRE.
«Sembra non reggere quando i legionari gli caricano il legno sulle spalle, vacilla, lascia il cortile del palazzo e barcollante esce sulla strada per compiere il suo ultimo tratto lungo le vie della Città Santa». Secondo un'antica tradizione, dopo l'Ascensione del Signore, sua Madre tornò quotidianamente alle stazioni della Passione rivivendo nel proprio cuore ciò che Cristo patì per noi e l'amore immenso con cui ci amò. Sull'esempio di Maria, si è sviluppata nella Chiesa la devozione della Via Crucis. Da secoli i cristiani ripercorrono nel cuore il Calvario del loro Signore e cercano di stargli vicino. Tuttavia, non possiamo, come la Madonna, attingere alla memoria di un vissuto e facciamo fatica a immaginare concretamente le circostanze della crocifissione, a noi tanto estranea. Le brevi, ma dense e toccanti meditazioni di Georg Gänswein sulle singole stazioni della Passione, seguendo i passi del Vangelo che le illustrano, permettono di superare i limiti di spazio e tempo in forza della nostra fede di incontrare Gesù, il Dio fattosi uomo, morto e risorto per amore. Contemplando la sua Croce ciascuno può imparare a portare la propria.
L’obiettivo di fondo del pensiero di Santayana è d’integrare la bellezza e l’arte, così come ogni altra attività umana, con la vita, restituendo ad esse la forte vitalità da cui sorgono. Secondo quest’approccio vitalistico quindi il problema estetico non è un problema isolato, ma viene colto nella sua relazione essenziale con l’unità vitale dell’universo naturale e con l’unità fondamentale della coscienza umana.
George Santayana – studioso di origine spagnola, nato a Madrid nel 1863, ma formatosi ed operante negli Stati Uniti, per ritornare infine in Europa, e vivere soprattutto a Roma dove morì nel 1952 – è autore di una vastissima produzione in lingua inglese poco conosciuta nel nostro paese. Eppure, accanto a quella di John Dewey, la sua riflessione rappresenta una delle elaborazioni più significative della filosofia americana. E la sua opera fondamentale, Il senso della Bellezza (1896), è divenuto un classico dell’estetica contemporanea. L’obiettivo di fondo del pensiero di Santayana è d’integrare la bellezza e l’arte, così come ogni altra attività umana, con la vita, restituendo ad esse la forte vitalità da cui sorgono. Secondo quest’approccio vitalistico quindi il problema estetico non è un problema isolato, ma viene colto nella sua relazione essenziale con l’unità vitale dell’universo naturale e con l’unità fondamentale della coscienza umana. La concezione estetica di Santayana, proprio in quanto privilegia la centralità della bellezza come esperienza vitale e si volge ad indagare il modo in cui noi la percepiamo ed il significato che ad essa attribuiamo, che cerca nella natura e nell’esperienza, ossia nell’uomo e nell’universo antropologico le fonti, i materiali e le forme della bellezza e dell’arte, per marcare l’accento sulle dimensioni del sentire e dell’agire, costituisce dunque una proposta di grande originalità e in stimolante sintonia con la ricerca odierna. Così Il senso della Bellezza mantiene immutato il fascino di un classico, ed è difficile rimanere insensibili alla singolare lucidità della teoria del bello di Santayana, all’accattivante raffinatezza delle sue argomentazioni. Correda il testo, qui presentato per la prima volta il lingua italiana con la puntuale cura di Giuseppe Patella, un ampio apparato esegetico, critico e bibliografico.
È il 1984 e a Londra, "vasta e rovinosa, una città di un milione di pattumiere", l'ordine è mantenuto da una psicopolizia che interviene alla minima situazione di dissenso e le case sono provviste per legge di televisori-telecamere. Sono strumenti per controllare le vite dei cittadini, e di essi si serve il Partito, sistema di governo al cui vertice si trova Big Brother, misteriosa figura che nessuno ha mai visto di persona, sebbene le sue immagini campeggino su ogni muro per ricordare agli abitanti che sono osservati. In questo scenario si muove Winston Smith, oscuro funzionario di basso livello del Partito, impiegato al Ministero della Verità con il compito di riscrivere la storia per allinearla all'attuale pensiero politico. Ma la sua propensione per una condotta morale e un certo interesse per la verità lo porteranno su una strada che, se scoperta, verrebbe considerata "ribelle". Sono questi gli ingredienti di un capolavoro in cui Orwell mette in guardia il lettore dalle derive e dalle assurdità dei totalitarismi - con il loro disprezzo per la vita umana, l'uso della violenza fine a se stessa, il culto del leader elevato a divinità. Soprattutto, nello stigmatizzare l'ansia collettiva di cancellare i legami con il passato e il processo di impoverimento che svuota il linguaggio di ogni significato, affonda il dito nelle piaghe che affliggono la nostra contemporaneità.
"La fattoria degli animali" (1945) è una favola in cui gli animali soppiantano gli umani espropriando la fattoria in cui lavorano sotto continui maltrattamenti. Dopo aver cacciato gli uomini la gestiscono autonomamente, fino a quando lo spirito rivoluzionario non sarà tradito e verranno a imporsi altre forme di sfruttamento: un'allegoria delle rivoluzioni trasformatesi in autoritarismi, o anche un esempio di letteratura per l'infanzia in cui si legge in controluce la lotta eterna tra giustizia e ingiustizia. "1984" (pubblicato nel 1949) è l'ultima opera di Orwell e il suo classico per eccellenza. Romanzo distopico, vede la storia di una società futuristica e disumanizzata, rigidamente divisa in classi e dominata da un'ideologia perversa che sovverte i valori basilari della civilizzazione, come anche i cardini della comunicazione, primo tra tutti il linguaggio. È, paradossalmente, sia una visione apocalittica dell'evoluzione del socialismo agli occhi di un autore anarchico, sia una feroce critica di tutti i capitalismi, colpevoli di proporre propagandisticamente visioni distorte della realtà. "Senza un soldo a Parigi e a Londra" (1933), l'opera prima di George Orwell, è un prezioso scritto che contamina autobiografia, invenzione e reportage, una perla della letteratura della working-class. Ma il primo, vero romanzo è "Giorni in Birmania" (1934), in cui Orwell demistifica l'imperialismo inglese, denunciandone il razzismo e svelando la falsa coscienza degli europei. "Omaggio alla Catalogna" (1938) è un resoconto personale della Guerra Civile Spagnola, a cui Orwell partecipò; la sua è una testimonianza diretta e al contempo un'opera di grande interesse storico. È anche il racconto di un'utopia, di quel sogno interrotto che condusse l'autore alla stagione delle distopie che lo avrebbe reso immortale.
"1984" (tit. orig. "Nineteen Eighty-Four") è il più celebre romanzo di George Orwell ed è stato scritto nel 1948. Una guerra devastante ha suddiviso il pianeta in tre super-potenze, in lotta fra loro e governate da regimi totalitari: Oceania, Eurasia ed Estasia. È nella prima che Winston vive e lavora da uomo qualunque. Nell'animo, però, sembra l'unico a rifiutare la società voluta dal Partito e la filosofia imposta, che non permette tanto l'amore quanto il libero pensiero. La sua ribellione è interiore, ma col tempo si concretizza in azioni sempre più pericolose. La sua vita viene stravolta quando incontra Julia, una ragazza che solo in apparenza sembra calata nelle logiche del sistema... "1984" è un romanzo di grande importanza e attualità. Ammonisce contro ogni forma di totalitarismo, di falsificazione della realtà e della storia, corrotta dai mezzi d'informazione, e contro l'annullamento dell'identità individuale. Significativa è la traduzione italiana di "Big Brother" (fratello maggiore) che ormai è rimasta nel nostro immaginario come quella di "Grande Fratello".
In "Errata", Steiner traccia la propria autobiografia intellettuale, articolandola per grandi incontri ed episodi significativi. È un percorso ormai raro, se non unico, di studioso che si confronta con i grandi temi del dibattito attuale: il rapporto che intercorre tra cultura e democrazia, gli scopi dell'università e in generale dell'istruzione, la ricerca delle radici del linguaggio e del significato, il senso della dolorosa sopravvivenza degli ebrei, il significato - oggi - di parole come arte, cultura, scienza, ragione, ateismo, religione.
Le più recenti scuole critiche e filosofiche sembrano aver incrinato i rapporti tra le parole e il loro significato: il testo diventa oggetto di infinite possibilità di interpretazione e appropriazione, tutte ugualmente legittime. L'elettronica e la cultura di massa stanno trasformando la produzione, la diffusione e la conservazione dei segni. In questa situazione, come può sopravvivere il libro, che ha plasmato così in profondità la nostra cultura? Quali sono le implicazioni dell'atto della lettura che rischiamo inconsapevolmente di perdere? Partendo da queste domande George Steiner indaga lo statuto del libro ed esplora l'enigma della rivelazione attraverso il linguaggio, che è il fondamento del giudaismo e del suo tragico destino. In questi saggi, scritti dal 1978 a oggi (e qui raccolti con un titolo che ribalta l'ultimo verso del Samson Agonistes di Milton, «Ogni passione spenta»), la riflessione tocca anche Shakespeare e Kafka, la negatività della tragedia assoluta e la peculiarità della cultura americana, la storicità dei sogni e il problema della traduzione e della traducibilità. Steiner si spinge fino a interrogare i lasciti della testualità classica ed ebraica: proprio nell'interazione dei due mondi spirituali di Atene e Gerusalemme si è plasmata l'identità occidentale, forgiando la nostra condizione morale e intellettuale. Le figure di Socrate e Cristo, con le loro analogie e i loro contrasti, gli offrono dunque una preziosa chiave per affrontare problemi che trascendono la letteratura e l'arte, e ci aiutano a identificare le fonti vitali della cultura europea e, all'interno di essa, i semi della sua distruzione.
"Si può essere a casa propria dappertutto. Datemi un tavolo da lavoro, sarà la mia patria." George Steiner, rispondendo alle domande della giornalista Laure Adler, racconta in queste pagine le numerose patrie della sua vita affascinante: quelle reali, con la fuga della famiglia da Parigi e dal fervore nazista che stava esplodendo in Europa, le esperienze giovanili a New York e le cattedre nei più prestigiosi atenei del mondo. E quelle ideali, con l'orgogliosa rivendicazione di appartenere a un popolo - quello ebraico - a cui riconosce il nucleo vitale della sua eccellenza intellettuale senza tuttavia risparmiare critiche alla politica di quel "miracolo necessario" che è lo stato di Israele. Nelle riflessioni preziose di uno dei giganti del nostro tempo, memorie e rimpianti si intrecciano alle idee su cui da sempre si è interrogato: Steiner torna così a esprimere con forza la dedizione avvincente e pericolosa per la letteratura e il libro; continua il confronto con le grandi mitologie del Novecento, confermando il giudizio inflessibile su Freud e la psicoanalisi; e dedica parole di amore puro alla sua passione più grande e profonda, quell'"esperanto delle emozioni che è la musica". Ma la ricerca di senso non può mai considerarsi giunta a destinazione e per questo, invitato a dare una definizione di sé stesso, forse con un pizzico della sua tipica ironia, Steiner può affermare orgoglioso: "Mi piace essere discepolo".