Più che un'idea o un postulato, la libertà viene considerata, in questo saggio di Zygmunt Bauman, nella sua forma di relazione sociale. Come sostiene il sociologo polacco, la tendenza della società moderna è quella di individualizzare i suoi membri in attori che agiscano spinti da motivazioni personali e che si ritengano responsabili delle proprie azioni: di conseguenza la sociologia deve saper vedere, nella libertà della natura umana, un assunto più che un oggetto di ricerca. Partendo da questa tendenza, Bauman sostiene che nella società attuale il progresso ha aumentato le potenzialità di scelta dell'uomo, ma lo ha ingabbiato in una concezione individualista dell'esistenza umana, rendendolo prigioniero del consumismo. Che cos'è dunque la libertà e cosa significa essere liberi?
In questa sua ultima opera, lo studioso Zygmunt Bauman, che ha spiegato la postmodernità attraverso l'illuminante immagine di una «società liquida», affronta per la prima volta - in uno scambio con il giovane scrittore Thomas Leoncini - il mondo delle generazioni nate dopo i primi anni '80, quelle che a una società liquida appartengono da nativi. E, come sempre, Bauman coglie la realtà nella sua dimensione più vera e profonda, analizzandone i fenomeni considerati più effimeri. La trasformazione del corpo, i tatuaggi, la chirurgia estetica, gli hipsters, le dinamiche dell'aggressività (e in particolare il bullismo), il web, le trasformazioni sessuali e amorose. L'ultima lezione di un'icona della cultura, capace di parlare a tutti con un linguaggio comprensibile e mai riduttivo.
Quando il dolore morale perde la salutare funzione di avvertimento, di allarme e di spinta ad aiutare il nostro simile, inizia il tempo della cecità morale. La cultura consumistica trasforma qualsiasi negozio o agenzia di servizi in una farmacia dove rifornirsi di tranquillanti e analgesici per attenuare o placare dolori che in questo caso non sono fisici ma morali. Man mano che la negligenza morale si estende e si intensifica, aumenta a dismisura la domanda di antidolorifici e il ricorso a tranquillanti morali diventa assuefazione. Il risultato è che l'insensibilità morale artificialmente indotta tende a diventare compulsiva, una sorta di 'seconda natura'. Il dolore morale viene soffocato prima che diventi davvero fastidioso e preoccupante, e la trama dei legami umani, intessuta di morale, si fa sempre più fragile e delicata, fino a lacerarsi. I cittadini vengono addestrati a cercare sui mercati, nel consumo, la salvezza dai propri guai, la soluzione ai propri problemi, e la politica si trova (anzi è pungolata, spinta, in ultima analisi costretta) a interpellare i propri governati come consumatori anziché come cittadini, facendo del consumo l'adempimento di un primario dovere civico.
Di fronte alle forze incontrollate dei mercati globali, dobbiamo rivendicare la sovranità nazionale perduta o investire sull’Europa come spazio di convivenza e solidarietà? In questo brevissimo saggio, Zygmunt Bauman espone le ragioni storiche, sociali e politiche per le quali l’Europa, se vuole salvaguardare la sua cultura e la sua centralità nel mondo globalizzato, non può lasciarsi tentare dai richiami di xenofobia, sovranismo e nazionalismo identitario.
Oggi che l'avversione per l'insicurezza si va sempre più concentrando su una categoria selezionata di estranei (quella dell'immigrato, del nomade, del senza fissa dimora, delle persone di etnia diversa) nella speranza, priva di fondamento, che il loro allontanamento risolva i problemi della contingenza e instauri l'ideale di regolarità a lungo sognato, le parole di questo testo suonano più che mai attuali. Bauman ci invita a riflettere sullo scarto che costituisce gli altri come estranei. Nel comportamento degli estranei c'è sempre un elemento di sorpresa e di imprevedibilità. Questo scarto è un territorio fortemente ambivalente: al contempo luogo di pericolo e di libertà, di attrazione e repulsione che si sorreggono e si nutrono a vicenda, si coniugano nel bene e nel male.
Zygmunt Bauman
Di nuovo soli. Un’etica in cerca di certezze
Pensare eticamente, dotarsi di una morale condivisa e condivisibile, è ancora possibile? Con il crollo delle vecchie ideologie e con la conseguente perdita di valori e certezze, su cosa si può fondare, oggi, un’etica? In questo breve e appassionante saggio il celebre filosofo polacco offre la sua convincente risposta. Da una parte dimostra quanto sia ormai vano il tentativo di rivitalizzare le vecchie basi dell’etica – famiglia, comunità, tradizione – e quanto inattuabile quello di esacerbare le antinomie tra un’etica prettamente politica e una economica, tra una morale collettiva e una individuale. Dall’altra, azzarda una soluzione. Viviamo in tempi incerti e mutevoli, caratterizzati da una sorta di privatizzazione globale che spinge a coltivare i propri ristretti interessi nel disinteresse di quelli comuni. Per affrontarli, è necessario riscoprire le connessioni profonde tra gli interessi della comunità e quella dei singoli individui, tra la prosperità delle istituzioni che si occupano del bene comune e quella di milioni di esseri umani sempre più soli e spaesati.
Zygmunt Bauman
(Poznan, 1925 – Leeds, 2017)
Filosofo e sociologo polacco di origini ebraiche, si è formato all’Università di Varsavia e alla London School of Economics. Nel 1968 ha perso la cattedra a Varsavia a causa della ripresa dell’antisemitismo e dei conflitti interni che allora infiammavano la Polonia. Rifugiatosi dapprima in Israele, ha in seguito insegnato Sociologia all’Università di Leeds in Gran Bretagna a partire dal 1971, dove è rimasto sino alla morte (9 gennaio 2017). Si è guadagnato una fama internazionale grazie alle ricerche sui rapporti fra modernità e totalitarismo. Castelvecchi ha pubblicato Scrivere il futuro (2016), Meglio essere felici e La libertà (2017), Le nuove povertà, Gli si diceva… Varsavia 1968, Socialismo. Utopia attiva, La vita in frammenti e Città di paure, città di speranze (2018).
Nelle città moderne - sempre più centro di contaminazione tra razze e culture - si decideranno le sorti dell'umanità: è qui che il bisogno di sicurezza si confronta con le limitazioni della libertà, è qui che la mixofilia lotta contro la mixofobia, il terrore con le speranze, la paura dell'altro con l'accettazione e la comprensione. Trasformare la convivenza tra culture diverse da minaccia in risorsa, suggerisce Bauman, è compito della politica, delle istituzioni, di chi pianifica le città e di chi le costruisce. Ma, soprattutto, è compito di chi le abita.
Non esistono guadagni senza perdite, e il sogno di una felicità per il guadagno, depurata del dispiacere per la perdita, è altrettanto vano della proverbiale speranza di un pranzo gratis. I guadagni e le perdite connessi a ognuno dei vari sistemi di convivenza umana vanno accuratamente conteggiati, per tentare di pareggiarli il più felicemente possibile. Ma non è mai esistito, e mai esisterà, un bilancio dove ci sia la voce dell''avere', ma non quella del 'dare'. La gioia della vita civile si ottiene solo insieme alla sofferenza, la soddisfazione va sottobraccio al disagio e l'obbedienza alla ribellione. La civiltà, quest'ordine artificiale imposto sul disordine naturale dell'umanità, è un baratto, un compromesso sempre rimesso in questione e volta a volta rinegoziato. "Il disagio della postmodernità" è uno dei libri fondamentali di Bauman. Una lettura imprescindibile per chiunque voglia capire il suo tempo in tutte le sue implicazioni e le sue contraddizioni.
La vita postmoderna è, dal punto di vista morale, una vita in frammenti, governata da una profonda ambivalenza etica difficile da tollerare. Una forte crisi d’identità affligge l’Occidente contemporaneo, che brancola nel buio rispetto alle più urgenti questioni etiche. Oggi le persone credono ben poco nella possibilità di fondare una morale che possa funzionare da stella polare nell’orientamento delle nostre vite. Come riattivare, dunque, la responsabilità individuale in un mondo che ha perduto ogni riferimento? Per rispondere a questa domanda Bauman si rivolge alla filosofia di Emmanuel Lévinas, che ha messo al centro del proprio pensiero un’urgenza etica infinita destinata ad essere oggi di grandissima attualità. L’essere-per-l’Altro, il faccia a faccia con il volto dell’Altro, che assume varie forme (l’indigente, lo straniero, il migrante), sono concetti oggi più che mai necessari per offrire alla cultura occidentale nuovi strumenti per rispondere alla sofferenza umana, alla fragilità e alla vulnerabilità del nostro tempo.
Marzo 1968: in appena tre settimane si svolge l'intera parabola delle agitazioni studentesche nella Polonia comunista. Varsavia, Cracovia, Gda?sk, ?ód? e Wroc?aw: tutte le Università del paese sono in fermento. È un'intera generazione a risvegliarsi, quella dei primi allievi del socialismo polacco, ormai definitivamente disillusa davanti allo scarto fra la propaganda del regime e una realtà sempre più lontana dagli ideali fondanti del Socialismo. In un saggio di incredibile lucidità e spessore critico, il sociologo polacco Zygmunt Bauman descrive la crescente delusione degli studenti, le loro aspettative, le speranze di salvare il Socialismo e la Polonia. Bauman riflette anche sugli elementi che accomunano i moti polacchi a quelli occidentali: la propensione globale degli studenti alla rivolta come forma di opposizione violenta alle pressioni esercitate dal mondo professionale.
Noi siamo un solo pianeta, una sola umanità. Quali che siano gli ostacoli, e quale che sia la loro apparente enormità, la conoscenza reciproca e la fusione di orizzonti rimangono lavia maestra per arrivare alla convivenza pacifica e vantaggiosa per tutti, collaborativa e solidale. Non ci sono alternative praticabili. La ‘crisi migratoria’ ci rivela l’attuale stato del mondo, il destino che abbiamo in comune. Abbiamo eletto gli stranieri a causa di tutti i nostri mali. In realtà il nostro senso crescente di precarietà e paura dipende dalla incapacità di governare l’enorme forza dei processi di globalizzazione.
Hace tiempo que perdimos la fe en la idea de que las personas podríamos alcanzar la felicidad humana en un estado futuro ideal, un estado que Tomás Moro, cinco siglos atrás, vinculó a un topos, un lugar fijo, un Estado soberano regido por un gobernante sabio y benévolo. Pero, aunque hayamos perdido la fe en las utopías de todo signo, lo que no ha muerto es la aspiración humana que hizo que esa imagen resultara tan cautivadora. De hecho, está resurgiendo de nuevo como una imagen centrada, no en el futuro, sino en el pasado: no en un futuro por crear, sino en un pasado abandonado y redivivo que podríamos llamar retrotopía.
Fiel al espíritu utópico, la retrotopía es el anhelo de rectificación de los defectos de la actual situación humana, aunque, en este caso, resucitando los malogrados y olvidados potenciales del pasado. Son los aspectos imaginados de ese pasado "reales o presuntos" los que sirven hoy de principales puntos de referencia a la hora de trazar la ruta hacia un mundo mejor.