Metafisica: ecco la parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Hegel). Un fuggire che, a furia di decostruzioni, oltrepassamenti, dichiarazioni di morte o di inesorabile, fatale compimento nelle forme della razionalità scientifica, ha finito col diventare una sorta di habitus del pensiero contemporaneo. E tuttavia, ripercorrendo contropelo le filosofie classiche e i grandi sistemi del razionalismo moderno, così come le più ardite e recenti teorie della scienza, è possibile riscoprire ciò che di quel termine rimane inaudito: la tessitura che collega l'essente in quanto osservabile e determinabile allo s-fondo della sua provenienza e del suo imprevedibile avvenire; la relazione tra la theoría della cosa sotto l'aspetto della sua caducità, nell'ordine di Chronos, e quella che cerca di esprimerla nella sua relazione al Tutto e in tale relazione giunge a considerarla res divina. Nessun 'al di là', nessuna Hinterwelt, o mondo 'dietro' tà physiká, dietro il manifestarsi di Physis. Questo mondo, e il soggetto che intende conoscerlo conoscendo sé stesso, il cui essere-possibile non si arrende al Muro dell'Impossibile, esigono di essere interrogati anche secondo una tale prospettiva. Metafisica concreta, dunque, come Florenskij, scienziato, filosofo e teologo, voleva intitolare l'opera che avrebbe dovuto concludere la sua ricerca. Filosofia e scienza possono in essa ritrovarsi ed esprimere insieme, in forme distinte e inseparabili, l'integrità e inesauribilità della vita dell'essente.
Alla propria «autobiografia mentale» Croce ha dedicato, oltre al Contributo alla critica di me stesso, numerosi luoghi delle sue opere, della corrispondenza e, soprattutto, del diario che per oltre quarant'anni ha tenuto nell'austero intento di «invigilare» sé stesso. Ritagliando da queste fonti i passi più rivelatori, con una finezza pari alla sua competenza, Giuseppe Galasso ha costruito un'antologia capace di farci vivere dall'interno l'ininterrotto dialogo che Croce ha intrattenuto con sé stesso e di svelarci così le ragioni profonde di un'attività tanto prodigiosa. Un'attività che nasce da un'intima tendenza per la letteratura e per la storia e che, dopo avergli consentito di superare gli anni dolorosi e cupi successivi alla scomparsa dei genitori e della sorella nel terremoto del 1883, varca i confini dell'erudizione per poi aprirsi alla vita politica e sociale. Anche di questo ruolo centrale sulla scena pubblica cogliamo qui i risvolti più personali e segreti: dall'«amaro compiacimento» che gli deriva nel 1925 - dopo il rifiuto di sostituire Gentile come ministro dell'Istruzione - dal «sentirsi libero tra schiavi», al senso di liberazione «da un male che gravava sul centro dell'anima» suscitato dall'arresto di Mussolini, sino all'emblematica confessione del 1951: «La morte ... non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare». Prefazione di Piero Craveri.
Tenuto nel 1932 e dedicato all'interpretazione di Anassimandro e Parmenide - insieme a Eraclito i «pensatori iniziali» della filosofia occidentale -, questo corso universitario rappresenta una vera e propria cesura nel percorso di Heidegger dopo Essere e tempo, e si inserisce nella celebre «svolta» inaugurata dal saggio del 1930 sull'Essenza della verità. Compito della filosofia è ormai per Heidegger, impegnato nella ricerca di tale essenza, quello di rievocare la forza delle parole più elementari del pensiero delle origini - phy?sis, alétheia, noûs, lógos - mediante una comprensione prefilosofica, cioè preplatonica e prearistotelica, del fenomeno della verità. Si tratta cioè di compiere quel passo indietro che permette di ripensare in modo ancora più iniziale l'inizio del pensiero occidentale, prima della soglia che dà accesso alla storia della metafisica: non già per operare una ricostruzione filologica e storiografica, ma nella prospettiva che tale «inizio più iniziale» possa essere «ripetuto» e, soprattutto, trasformato in un nuovo inizio, promosso da un'umanità futura in modo ancora più originario. Sicché, conclude Heidegger, «l'inizio non sta più dietro di noi, alle nostre spalle, bensì sta davanti a noi in quanto compito essenziale della nostra più propria essenza».
Quando, dopo la morte di Cioran, furono ritrovati i trentaquattro taccuini che per quindici anni aveva riempito con le annotazioni più disparate, si rimase sbalorditi di fronte a quell'imponente giacimento, raccolto poi in un libro, Quaderni, che leggiamo oggi come uno dei vertici della sua opera. A quel libro possiamo ora affiancare - e sarà come integrare in un mosaico numerose tessere mancanti - questa raccolta di frammenti rinvenuti nella Bibliothèque Doucet di Parigi. Risalgono alla metà degli anni Quaranta, e sono le ultime pagine che Cioran scrisse in romeno, quando già da sette anni si trovava a «muffire gloriosamente nel Quartiere Latino». E anche qui, tra schegge sulfuree, sentenze fulminanti, spietate dissezioni del proprio intimo, ci aggireremo nelle stanze più segrete di un pensiero in perpetua ebollizione - capace come sempre di trafiggere, con un colpo secco e preciso, tutto ciò che lo circonda: «L'imbecille basa la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, la finestra sul Nulla».
«Nessun pensatore dell'Ottocento ha avuto un'influenza così diretta, meditata e profonda sull'umanità quanto quella esercitata da Karl Marx ». L'incipit di questo libro ha la cadenza perentoria del dato acquisito, eppure registra un paradosso: Marx non possedeva né «le qualità che fanno un grande capo» (come Herzen), né la «meravigliosa eloquenza » di Bakunin, né un qualsivoglia tratto che suscitasse l'«intensa, quasi religiosa venerazione dei discepoli» (come Kossuth o Mazzini). Muovendo da questo enigma, Berlin ripercorre magistralmente gli eventi "esterni" della biografia di Marx e gli aspetti salienti della sua formazione intellettuale (la mediazione tra l'empirismo scientifico dei francesi e lo storicismo metafisico dei tedeschi; il peso decisivo della «critica della religione»; la passione divorante per la letteratura). E ci fa via via scoprire come Marx, «pensatore dogmatico e pedante», interessato più alle teorie che agli uomini, sia tuttavia riuscito a cogliere lucidamente gli effetti dell'economia e dell'ideologia sulla società, inquadrandoli in una serie di prognosi di impressionante esattezza, a partire da quella sull'influenza decisiva dei mutamenti tecnologici e del capitale finanziario. Quello di Berlin è dunque un Marx opportunamente depurato da ogni presunta ortodossia - aderente al suo celebre autoritratto: «Solo una cosa posso dire, e cioè che non sono, in nessun modo, marxista!».
"Nessuno può pensare un pensiero per me, così come nessuno all'infuori di me può mettermi il cappello sulla testa". "Niente è così difficile come non ingannare sé stessi". "Ho detto una volta e forse con ragione: la civiltà passata diventerà un mucchio di rovine e alla $ne un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti". Questa raccolta di pensieri e annotazioni di varia natura appartiene al lascito manoscritto di Wittgenstein e rappresenta non già una fase della sua ricerca filosofica, ma una sorta di traversata aforistica di tutta la sua vita (il primo pensiero è del 1914, l'ultimo del 1951, anno della sua morte). Qui Wittgenstein, con maggior evidenza che altrove, parla innanzitutto a sé stesso, interrogandosi su ciò che il suo pensiero spesso presupponeva senza nominarlo: la sua visione della società che lo circondava, della musica, della letteratura, del cristianesimo, dell'ebraismo, della scienza.
Dice Heidegger che ogni vero pensatore pensa un solo pensiero: nel caso di René Girard è quello del «capro espiatorio». In questo saggio egli prende per mano il lettore e, passo per passo, illumina in modo definitivo quel meccanismo della persecuzione e del sacrificio a cui già aveva dedicato La violenza e il sacro. Ed è impossibile sottrarsi alla luce cruda e netta che in queste pagine viene gettata su alcuni temi che per forza ci riguardano tutti. In particolare, colpiranno per la loro radicale novità le interpretazioni di parabole ed episodi dei Vangeli, dove secondo Girard si compie quell'oscillazione decisiva per cui la vittima sacrificale non consente più alla colpa che le viene attribuita, ma diventa l'innocente che come tale si rivendica: così il capro espiatorio si trasforma nell'agnello di Dio.
«Pensiero concretissimo, pensiero che ha illuminato l'essenza del nostro presente più di centurie di economicismo e sociologismo. Che ne ha messo in luce il radicale, compiuto nihilismo, che lo ha affrontato nelle sue origini storiche e metafisiche. Il nihilismo che ci mette costantemente in debito, abitanti una vita che non è nostra, che è destinata a dissolversi come dal nulla è venuta. Il nihilismo che non ci permette neppure di pensare alla Gioia, alla Gloria, all'Eterno. Inattualità poderosa, monumentale della grande opera di questo Maestro. Cosa è possibile comprendere del dramma dell'epoca se non si legge Heidegger contra Severino? Manca il controcanto a tutte le correnti fondamentali della filosofia o post-filosofia del Novecento, se non si comprende Severino... di Verità era affamato Severino. E questa fame ha cercato, disperatamente forse, di comunicarci lungo tutta la sua vita, con le migliaia e migliaia delle sue pagine che vivono e vivranno». (Massimo Cacciari)
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che potremmo tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresentava l'idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione significa liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente, e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l'autentico motore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che nella «promessa di liberazione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito» che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnicoeconomico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarezza di Max Weber - e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.
Durante la stretta collaborazione che condusse alla stesura del Mulino di Amleto, Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend raccontarono in varie conferenze le scoperte sensazionali che andavano via via facendo. Sepolti in sedi editoriali difficilmente accessibili, i testi di alcuni di quegli interventi sono ora qui raccolti, e consentono al lettore di gettare uno sguardo nell’incomparabile fucina di idee da cui uscirà la loro opera capitale: «l’importanza unica» di Sirio – la più luminosa delle stelle fisse, che per più di 3000 anni sembrò non essere affetta dalla Precessione degli Equinozi – nelle antiche civiltà di tutto il mondo, da Babilonia alla Grecia, dal Medio Oriente iranico all’India, dalla Cina alla Polinesia; il «sistema di misure normate» posto a fondamento della cultura superiore arcaica, dove lunghezza, capacità e peso, strettamente collegati, sono derivati dalle uniche misure «assolute» esistenti in natura: lo scorrere del tempo e gli intervalli armonici; infine, il «mutare delle mode in storiografia», a partire dal caso esemplare del soggiorno di Eudosso in Egitto. In un percorso dalle mille ramificazioni, queste pagine ci offrono una porta d’accesso a quel pensiero arcaico in cui il rigore della Scienza, fondato su numerus, pondus et mensura, parlava ancora il linguaggio tecnico quanto immaginifico del Mito – e contribuiscono a farci rivalutare « quei nostri remotissimi antenati che crearono proprio le civiltà superiori».
Nella fotografia riprodotta sulla copertina di questo libro, che ritrae Mircea Eliade e Cioran insieme a Parigi, negli anni Settanta, colpisce il contrasto tra le due fisionomie. Un contrasto che sembra rispecchiare la distanza che umanamente e intellettualmente separava i due grandi romeni: il fecondo e ammirato studioso, in grado di maneggiare con scioltezza le concezioni religiose di tutte le culture; e il sulfureo flâneur del pensiero, l’antiaccademico ancorato a poche e lancinanti ossessioni. Da subito, del resto, non erano mancati gli scontri visto che, all’inizio degli anni Trenta, Eliade aveva attaccato Cioran per via della sua tanatologia, che gli faceva prediligere le tenebre e la negazione alla luce e alla creazione; e Cioran, da parte sua, aveva demolito Eliade in un articolo che sin dal titolo aveva tutto il sapore di una sentenza inappellabile: L’uomo senza destino. Ma, dietro le divergenze, si celava anche un’intesa, una complicità che alimentò una fervida, inossidabile amicizia, come testimonia questo volume in cui sono raccolte le lettere che i due si scrissero nell’arco di un cinquantennio, scambiando riflessioni, pareri letterari, impressioni di viaggio, osservazioni politiche, ricordi. Lettere a volte accese da vampate di humour, non senza contraddizioni e paradossi – ma sempre contrassegnate da quella sincerità che spingeva Cioran a confessare: «Benché io provi per te un’infinita e non smentita simpatia, a volte sento il desiderio di attaccarti, senza argomenti, senza prove e senza idee. Ogniqualvolta ho avuto l’occasione di scrivere qualcosa contro di te, il mio affetto è aumentato ».
Come testimoniano i due studi qui riuniti, per Gior­gio Colli la ricerca filologica sui testi del pensiero greco è fin dall’inizio – in sintonia con la lezione di Nietzsche – inseparabile dalla riflessione teoreti­ca. E centrale, nel suo percorso speculativo, si rive­la subito Empedocle, sul quale Colli si concentra già nella tesi di laurea, e di frequente negli scritti successivi. All’interno di una cornice costituita dal complesso rapporto fra sostanza e divenire, fra uni­tà e molteplicità – nodo metafisico essenziale per comprendere la grecità e il pensiero stesso –, Colli mostra come per Empedocle non vi siano due real­tà, una trascendente rispetto all’altra, ma noume­no e fenomeno avvinti, e come la radice metafisica, l’interiorità di ogni realtà individuale, sia costituita dal suo impulso vitale a congiungersi con il tutto e a ritrovarsi in esso. Empedocle è dunque un misti­co che vive e considera come inseparabili la dimen­sione mortale e quella immortale, aspetti polari di una medesima natura la cui trascendenza è irridu­cibile a una spiegazione razionale.