«Io non credo nell'amore, è una malattia che passa com'è venuta ... prendetemi oggi, non contate di avermi domani» scrive Virgina Verasis di Castiglione a uno dei suoi innumerevoli amanti, palesando la sua esigenza più radicata e insopprimibile: non avere padroni. Un'esigenza che emerge prepotentemente dal racconto che della sua vita ci propone l'autrice di Amanti e regine. Tutti noi - grazie agli scritti di testimoni e biografi, a film e sceneggiati televisivi, nonché ai moltissimi ritratti fotografici che in anni recenti sono stati pubblicati ed esposti - crediamo di sapere chi sia stata la contessa di Castiglione: una «seduttrice seriale» di incomparabile bellezza che, dopo aver conquistato (secondo le istruzioni ricevute dal conte di Cavour) Napoleone III e abbagliato la corte del Secondo Impero, si chiuse in una casa senza specchi nascondendo ai propri occhi e a quelli del mondo la sua inarrestabile decadenza. Ma colei che Robert de Montesquiou consacrò per sempre come «la divine comtesse» è stata molto di più, e Benedetta Craveri, la quale ha rintracciato negli archivi italiani e francesi un'ingente mole di lettere totalmente inedite, ce lo fa scoprire lasciando che sia Virginia a parlarci di sé: dei suoi amori, delle sue ambizioni, delle sue paure, delle sue ossessioni. Vengono così alla luce aspetti sorprendenti di una donna che seppe usare il suo fascino, ma anche la sua intelligenza politica, la sua audacia, la sua volontà di dominio, la sua straordinaria abilità di commediante, e anche una buona dose di cinismo, per raggiungere un traguardo all'epoca inimmaginabile: disporre liberamente della propria esistenza. Una ribellione alle regole imposte dalla morale del secolo borghese che, scrive Craveri, "ha mantenuto intatta la sua forza incendiaria e che ancora oggi disturba, sconcerta, scandalizza».
Lungo l'intera storia del pensiero, il legame tra biografia e speculazione filosofica si è spesso rivelato determinante, ma mai come in Giordano Bruno, che guardava alla propria vita come a un dono degli dèi, in vista di un destino eccezionale. Lo testimonia questa documentata biografia, che, scritta dal massimo interprete di Bruno, offre anche la migliore chiave d'accesso al nucleo più profondo della sua esperienza filosofica. Un'esperienza, e una vita, eminentemente rinascimentali, indagate e raccontate con maestria, fino al culmine del celebre processo; e qui, prendendo le distanze dal mito di un Bruno pronto a immolarsi quale martire del libero pensiero, Ciliberto lo mostra impegnato a giocare tutte le proprie carte per salvarsi. Solo dopo ottanta mesi di prigionia e di travaglio interiore, Giordano Bruno sceglierà la morte - e riuscirà nello stesso tempo a capovolgere il rapporto con gli inquisitori, ergendosi a giudice e riducendo la Congregazione al ruolo di imputato davanti al tribunale della verità.
Il 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Svezia comunica a Wislawa Szymborska che le è stato assegnato il premio Nobel. Da quel momento, lei così schiva, è costantemente sollecitata: arrivano lettere, telegrammi, manoscritti, richieste e proposte spesso del tutto incongrue. Il telefono squilla anche di notte. Si impone il supporto di un segretario. Quando Michal Rusinek, neolaureato ventiquattrenne, si presenta in casa sua, la trova sgomenta. «Allora» racconta «chiesi cortesemente un paio di forbici e tagliai il cavo. Il telefono smise di squillare. La Szymborska esclamò: “Geniale!”. E fu così che venni assunto». Le resterà accanto per più di quindici anni. In questo libro – basato su ricordi di prima mano – Rusinek getta un fascio di luce su aspetti della grande poetessa rimasti finora in ombra: le sue a volte stravaganti passioni (per i limerick e per il Kentucky Fried Chicken, per Vermeer e per gli oggetti kitsch, per Woody Allen e per Il Circolo Pickwick – e soprattutto per le sigarette); il suo bisogno di solitudine; il modo in cui nascevano le sue poesie («Sosteneva che l’utensile più importante nella casa di un poeta fosse il cestino della cartastraccia») e quello in cui creava i suoi collage; i suoi (complessi) rapporti con l’altro grande premio Nobel polacco, Czeslaw Milosz; i rituali della scrittura e quelli che precedevano qualunque spostamento. Ma inanella anche decine di aneddoti esilaranti, di battute fulminanti e di osservazioni acuminate, in cui ritroviamo l’esprit settecentesco, la sottile ironia e la capacità di stupirsi di una delle poetesse più fervidamente amate dai lettori di tutto il mondo.
Come sappiamo dalle sue strepitose lettere, nonché dalla leggenda che circonda la sua carriera di attore, Groucho Marx era Groucho in ogni sua manifestazione, e la comicità che irradiava sullo schermo si nutriva delle ricche assurdità della sua vita. Così, un'autobiografia di Groucho non poteva certo somigliare alle tediose elencazioni di travolgenti successi che spesso costituiscono le vite delle star. E alla fine, usciremo da questo libro storditi e felici come dopo aver visto uno dei suoi migliori film.
«Spero di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell'opinione pubblica europea» confida Malaparte all'amico Halévy nel settembre del 1931. Il suo intento era, in realtà, ancora più audace: mostrare Lenin come appare agli occhi dei «Russi intelligenti». O, se vogliamo, analizzare un fenomeno entro la sua stessa logica, come già aveva fatto nell'"Intelligenza di Lenin" per spiegare il bolscevismo. E il nuovo libro, uscito a Parigi nel 1932, avrà l'effetto di una scossa elettrica. Perché in questo romanzo-ritratto Lenin non è affatto il Gengis Khan proletario sbucato dal fondo dell'Asia per conquistare l'Europa, raffigurazione ideale per chi voglia ricacciarlo al di là dei confini dello «spirito borghese»: semmai, un piccolo borghese egli stesso. Di più: freddo e riflessivo, sedentario e burocratico, animato da un'immaginazione meticolosa e da una «crudeltà platonica», ostile a ogni romanticismo terrorista e incapace di agire all'infuori della teoria, a suo agio più nelle discussioni politiche e nelle faide personali che non nel confronto con la realtà, Lenin non è che un europeo medio, un buonuomo violento e timido, un «funzionario puntuale e zelante del disordine», un fanatico e un opportunista, per il quale la rivoluzione è una questione interna di partito, il risultato di ossessivi calcoli. Non a caso quando, giunto al potere, non potrà più attendere gli eventi e osservarli da lontano, e - proprio lui, dotato di un vivo «senso dell'irrealtà» - dovrà fare i conti con la realtà, si risolverà a inventarla, a crearla, imponendola «a se stesso, ai suoi collaboratori, al popolo di Russia, alla rivoluzione proletaria, all'avvenire dell'Europa».
«Come Nietzsche aveva riconosciuto in Wagner il suo unico antagonista esistente e con ciò gli aveva tributato il più grande onore, così Heidegger ha dedicato a Nietzsche il suo scritto più articolato che tratti di un pensatore moderno, anche se in questo caso cronicamente inattuale, dandogli il supremo onore di definirlo “l'ultimo metafisico dell'Occidente”. E come Nietzsche si distacca in tutto dagli oppositori di Wagner, così Heidegger non ha molto a che fare con tutte le generazioni di critici e biasimatori di Nietzsche – è molto di più, è l'unico che risponda a Nietzsche».
Sempre più spesso usiamo con disinvoltura parole e nomi di cui pochissimo sappiamo. Bitcoin, ad esempio. Che cosa sono? Chi è Satoshi Nakamoto, l'individuo - o l'oscura entità collettiva - che li ha inventati? E perché li ha inventati? Che cos'è il dark web, e cosa significa «viverci» dentro? Che cos'ha veramente fatto, Julian Assange? E chi è? Per trovare le prime risposte serviva uno scrittore puro, qualcuno cioè disposto a partire per un viaggio senza mappa, provvisto di un'arma ancora efficace: una qualche confidenza con il romanzesco. Qualcuno come Andrew O'Hagan, insomma. O'Hagan è sceso davvero negli abissi largamente sconosciuti della rete. E al suo ritorno, come un esploratore vittoriano, ha steso tre relazioni estremamente accurate, che anche quando sembrano sul punto di sconfinare nella farsa - come nel caso dell'abortita collaborazione con Assange - sono in realtà altrettanti racconti del terrore. Di cui si ha da subito la sensazione, però, di non potere fare a meno.
Si può scampare alle persecuzioni dei due grandi regimi totalitari del Novecento e poi scrivere un libro di memorie come questo: sobrio, indomito, luminoso. Heda Bloch è fuggita dalla marcia della morte verso Bergen-Belsen, ma Praga la riaccoglie con ostilità: troppo forte, per i suoi amici, è il terrore delle rappresaglie naziste. Dopo la liberazione e la «rinascita comunista», nel 1952 il marito, Rudolf Margolius, alto funzionario governativo - un «mercenario al servizio degli imperialisti» -, verrà condannato all'impiccagione nel clima plumbeo e maligno del processo contro il segretario generale Slànsky. Inizia il periodo del «silenzio attonito, terrorizzato»; solo le seconde nozze con Pavel Kovàly salveranno Heda e il figlio Ivan da una lunga, tragica vita da reietti. E quando sta per giungere il lieto fine, quando dopo la Primavera di Dubcek tutta la popolazione di «una città che non riusciva a dormire per la gioia» si riversa festosa in strada, ecco l'estremo orrore: l'arrivo dei carri armati sovietici.
Apparso a Parigi nel 1935, questo libro è stato tra i primi che abbia detto alcune essenziali verità su Stalin. E le ha dette così presto, e con tale nettezza, che la sua presenza ha accompagnato come un'ombra gli ultimi vent'anni di vita del capo sovietico. Le ha dette, inoltre, per bocca di uno storico che era stato segretario della Terza Internazionale, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese e infine amico e compagno di Simone Weil nelle lotte del sindacalismo rivoluzionario in Francia.
Nel corso del lavoro per la sua monumentale biografia di Kafka, Reiner Stach ha isolato novantanove "reperti" che corrispondono ad altrettanti momenti ed episodi, testimoniati dallo scrittore stesso o da suoi amici e contemporanei. Tale mosaico ci mostra un Kafka poco conosciuto: frequentatore di casinò e bordelli, o di un collezionista di foto osé, o in ufficio in preda al "fou rire" di fronte al sussiegoso superiore, o fra gli appassionati di nuoto e d'aeroplani, o seduto in giostra in mezzo a ragazzine vocianti, ma anche abile falsificatore della firma altrui - si tratti di Thomas Mann o di una sedicenne vagheggiata a Weimar... Fra le sorprese che ci riserva il libro vi è la prima Lettera al padre, rivolta ancora ai "Cari genitori", e la piantina dell'appartamento in cui Gregor Samsa si risveglia trasformato in un insetto. Se esilarante è la pubblica lettura della Colonia penale in una galleria di Monaco, dove gli astanti cadono in deliquio o fuggono, incapaci di reggere quell'"odore di sangue", mentre Kafka prosegue imperterrito, commovente è la storia delle lettere che lo scrittore attribuisce a una bambola persa in un parco di Berlino, per consolare una bambina in lacrime. Lettere perdute per sempre. Conservato è invece l'appello a Kafka di un infelice messo alle strette dalla cugina che non comprende il senso della Metamorfosi.
"Da adolescente" scrive Emmanuel Carrère nel "Regno" "sono stato un lettore appassionato di Dick e, a differenza della maggior parte delle passioni adolescenziali, questa non si è mai affievolita. Ho riletto a intervalli regolari 'Ubik', 'Le tre stimmate di Palmer Eldritch', 'Un oscuro scrutare', 'Noi marziani,' 'La svastica sul sole'. Consideravo e considero tuttora il loro autore una specie di Dostoevskij della nostra epoca". A trentacinque anni, spinto da questa inesausta passione, Carrère decise di raccontare la vita, vissuta e sognata, di Philip K. Dick. Il risultato fu questo libro, in cui, con un'attenzione chirurgica per il dettaglio e una lucidità mai ottenebrata dalla devozione, Carrère ripercorre le tappe di un'esistenza che è stata un'ininterrotta, sfrenata, deragliante indagine sulla realtà, condotta sotto l'influsso di esperienze trascendentali, abuso di farmaci e di droghe, deliri paranoici, ricoveri in ospedali psichiatrici, crisi mistiche e seduzioni compulsive e riversata in un corpus di quarantaquattro romanzi e oltre un centinaio di racconti (che hanno a loro volta ispirato, più o meno direttamente, una quarantina di film). Con la sua scrittura al tempo stesso semplice e ipnotica, Carrère costruisce una biografia intricata e avvincente quanto lo sarà, vent'anni dopo, quella di Eduard Limonov che è insieme un romanzo di avventure e un nitido affresco delle pericolose visioni di cui Dick fu artefice e vittima.
In questo libro, frutto di lunghe conversazioni e di un'appassionata immersione nei ricordi di tutta una vita, il regista Jean Renoir è riuscito a raccontare, con lo stile rapido e ironico e insieme con la delicatezza che saranno poi la cifra del cinema di Truffaut, la storia di suo padre, fissandone per sempre, come solo un grande pittore avrebbe saputo fare, i gesti e i pensieri più quotidiani e segreti. Ma chi era veramente Pierre-Auguste Renoir? Quell'uomo semplice, sbrigativo, che nell'aspetto "aveva qualcosa di un vecchio arabo e molto di un contadino francese", che non poteva fare niente che non gli piacesse, che odiava sopra ogni cosa il progresso e aveva per la donna un culto incondizionato, restava per suo figlio un mistero. Un mistero che queste pagine non cercano di svelare ma solo di commentare: "Potrei scrivere dieci, cento libri sul mistero Renoir e non riuscirei a venirne a capo".