Un'elegante vetrina nella casa londinese di Edmund de Waal contiene 264 sculture giapponesi di avorio, o legno, non più grandi di una scatola di fiammiferi, raffiguranti divinità, personaggi di ogni tipo, animali, piante. La vetrina è aperta, e i piccoli figli di de Waal possono estrarre i netsuke così si chiamano i minuscoli oggetti - e giocarci. Come facevano, ha scoperto l'autore, i piccoli figli di Viktor e Emmy von Ephrussi, suoi bisnonni, nel boudoir della madre, in un fastoso palazzo viennese della Ringstrasse, un secolo fa. Prima che Hitler entrasse in trionfo a Vienna e avessero inizio le persecuzioni e i saccheggi nelle case degli ebrei. Ebrei di Odessa erano appunto gli Ephrussi, commercianti di cereali e poi banchieri ricchi e famosi quanto i Rothschild, con ville e palazzi sparsi in tutta Europa. Quello di Vienna, dove i netsuke arrivano nel 1899 da Parigi - dono di nozze ai cugini di Charles Ephrussi, famoso collezionista, mecenate, storico dell'arte, amico di Renoir, Degas, Proust - conteneva tante e tali opere d'arte che i minuscoli oggetti sfuggirono all'attenzione dei razziatori nazisti. Affascinato dall'eleganza, dalla precisione, dalle straordinarie qualità tattili delle sculture, l'autore decide di ricostruire la storia dei loro passaggi da una città all'altra, da un palazzo all'altro, da una mano all'altra. Ricostruisce così anche la storia romanzesca della sua famiglia.
L'anima ama gli spazi. Non sappiamo che cosa sia questa entità o se esista davvero, nonostante l'enorme messe di dottrine e credenze al riguardo. Constatiamo però che da sempre scrittori/filosofi, teologi e artisti la rappresentano attraverso immagini spaziali. È la più evidente e feconda delle contraddizioni che incontriamo riflettendo sull'anima: ciò che l'etimologia vorrebbe soffio vitale, iridescenza, pura energia dinamica, si affaccia alla nostra fantasia nelle forme statiche dello spazio. L'inadeguatezza umana rilevata da Leopardi - a parlarne in termini solo spirituali ha alimentato per secoli i simboli e le metafore che Lionello Sozzi censisce in un amplissimo e illuminante regesto. Sotto la sua guida, ci aggiriamo in una foresta di ambivalenze, dove interno ed esterno, superficie e profondità, chiusura e apertura, angustia e infinitezza si scambiano spesso significati e tipologie. I luoghi dell'interiorità hanno la consistenza della pietra o là scivolosità del baratro, sono avvolti dalle tenebre o rifulgono di luce divina, imprigionano la mente o schiudono interi orizzonti. Il senso univoco dell'acropoli inespugnabile cara alla tradizione stoica, o del castello intimo di Teresa d'Avila si incrina modernamente e sopravvive in Flaubert solo spartendo la sua regalità con l'immagine prosaica a cui ricorse già Montaigne per alludere alla zona franca che ciascuno preserva in sé.
Da alcuni anni le scienze sociali hanno un nuovo oggetto di studio, un tipo di beni che non sono né cose materiali, né idee, né prestazioni, ma consistono di relazioni sociali, e per tale ragione vengono chiamati "beni relazionali". Nel primo lavoro sistematico ad essi dedicato, Pierpaolo Donati e Riccardo Solci ne chiariscono ogni aspetto: che cosa sono? dove si trovano? come possiamo misurarli? qual è il loro valore pratico? Attraverso l'approccio sociologico relazionale si mostra come questi beni intangibili costituiscano una realtà sempre più rilevante nelle società modernizzate. Si identificano con le relazioni sociali che emergono da soggetti riflessivamente orientati a produrre e fruire assieme di un bene che non potrebbero ottenere altrimenti. Una definizione che - secondo la ricerca empirica qui presentata - vale non solo in riferimento al mondo del non profit (gruppi di auto-mutuo aiuto), ma anche per le imprese economiche che stanno sul mercato.
Fin dalle prime settimane di vita ogni bambino mostra una sua impronta particolare. I bambini non nascono uguali e non reagiscono allo stesso modo al mondo che li circonda: c'è quello che si agita al primo rumore, quello che piange inconsolabile e quello che reagisce con flemma anche di fronte a situazioni impreviste. Questione di temperamento, si dice. Ma come saranno da grandi questi bambini? Partendo da questa domanda, Jerome Kagan ha organizzato il più grande esperimento di psicologia al mondo, seguendo passo passo centinaia di persone per oltre vent'anni, dalla culla all'età adulta. Il libro è il risultato di questa straordinaria ricerca. Per decenni le differenze di temperamento sono state attribuite a fattori esclusivamente ambientali. Quando le teorie di Freud imperavano, le differenze nella risposta emotiva e comportamentale delle persone venivano tutte legate a esperienze vissute, alla condizione familiare, a traumi subiti nella prima infanzia. Kagan rovescia qui la prospettiva e mette in risalto la base biologica del temperamento, mostrando come una parte importante del carattere sia invece direttamente influenzata dalla struttura genetica. Ma se è vero che c'è una base ereditaria è anche vero che le esperienze sono in grado di modellare una buona parte del nostro carattere. Il temperamento è come un blocco di pietra nello studio di uno scultore: le caratteristiche della pietra restringono la gamma di forme che lo scultore può ricavare, ma lasciano ampio margine alla creatività.
Attraverso il confronto con le scimmie antropomorfe, comparando fossili e utensili, studiando le sorprendenti espressioni artistiche e le sepolture dei Cro-Magnon e dei Neandertal, Tattersall ripercorre l'albero evolutivo della specie umana nel tentativo di spiegare l'assoluta unicità dell'intelligenza e della società umane. Oltre a liberare il campo da certe interpretazioni ideologiche che mirano a sostenere la supremazia dell'uomo sugli altri esseri viventi, il saggio di Tattersall contribuisce a mettere in discussione il gradualismo della teoria classica di Darwin avvalorando l'ipotesi che l'evoluzione proceda tramite discontinuità e con veri e propri salti tra una specie e l'altra.
Gli scritti religiosi di Newton sono databili tra il 1660 e il 1680. Tenuti nascosti per secoli, ora tornano finalmente alla luce. Considerati come opera senile, se non minore, il reale motivo di tale colpevole dimenticanza è certamente il fatto "sconcertante" che Newton assegnasse alle Scritture un valore conoscitivo non dissimile da quello scientifico e che applicasse in questa lettura dell'Apocalisse e dei libri profetici lo stesso metodo deduttivo che ha trionfato nella sua opera fondamentale, i Principia Mathematica. Le Scritture diventano così strumento di dimostrazione e di conoscenza razionale delle verità ultime. Trascritta direttamente dai manoscritti originali, corredata da un'ampia introduzione e dal testo inglese a fronte, quest'opera si propone come un importante contributo alla conoscenza del grande Newton.
Badate, non è un'autobiografia, avverte Marc Augé in apertura del libro. Almeno non nel senso tradizionale. In effetti, queste pagine gremite di immagini che riaffiorano, di incontri decisivi, di paesaggi perduti, di eventi della Grande Storia spesso colti di scorcio, affidano il loro ritmo sottotraccia a una incalzante variazione sull'idea di luogo. Quello dell'etnologo Augé, innanzi tutto, che si identifica con lo sradicamento, col non essere mai al proprio posto. La sua itineranza si consuma perlopiù in Africa, nella regione lagunare della Costa d'Avorio e nel Togo del Sud, e in America Latina, là dove i luoghi forniscono la materia prima allo studio sul terreno. "Luoghi" significano relazioni sociali, forme simboliche di un'esistenza condotta sotto gli occhi altrui, persistere del legame tra vivi e morti. Solo dopo aver decifrato per decenni il senso dei luoghi, Augé ha potuto, con uguale penetrazione, interpretare come "nonluoghi" gli spazi collettivi a bassa intensità che caratterizzano il nostro presente globalizzato. Ancora un esercizio di migrazione, il suo, dall'etnologia a un'antropologia che allarga lo sguardo al mondo e non smette di interrogarsi anche sulle parole con cui raccontare ciò che vede. Così il viaggiatore dei luoghi e dei nonluoghi è anche colui che attraversa, in compagnia dei suoi doppi, il territorio della narrazione, verificando quanto memoria, scrittura e viaggio siano indissociabili.
Oggi, più che del declino dei valori, forse occorrerebbe parlare della pericolosa incertezza in cui versano i discorsi. Il dibattito pubblico deraglia anche per la profonda confusione che riguarda certe parole-cardine della vita associata, come appunto "verità". La filosofia contemporanea ha riflettuto a lungo sulla nozione di verità, ma se poco o nulla è trapelato nella sfera pubblica, la mancata comunicazione va imputata ai filosofi stessi, troppo chiusi in ambiti di ricerca non dialoganti, innanzitutto, tra loro. Finalmente una delle filosofe italiane più lette crea il ponte di cui c'era bisogno, trattando la verità come un concetto "speciale", ossia fondamentale e trasversale, che va chiarito preliminarmente per non incorrere in abusi e fraintendimenti. Franca D'Agostini ci spiega in che cosa consiste la straordinarietà di questa parola, ne precisa significato e uso e ne discute la legittimità. A scettici e nichilisti raccomanda: rendete duttile la vostra logica, e non avrete più molte ragioni di scetticismo riguardo alla verità. Se infatti scienza, cultura, politica, religione si avvalessero di logiche più duttili e metafisiche più permissive, è probabile che molte difficoltà a discriminare il vero dal falso verrebbero meno.
Con inesorabile precisione e passione di verità, Améry registrò in questa sua vertiginosa discesa nell'abisso concentrazionario le disfatte dello spirito, a cominciare dalla peculiare inferiorità nella quale venne a trovarsi nel Lager. L'inadeguatezza alla dimensione meramente fisica cui a Auschwitz era ridotta la vita lo rese paria tra i paria. Era un intellettuale, un uomo infinitamente più indifeso rispetto a chi, come i credenti di qualsiasi fede o i militanti di ogni ideologia, possiede certezze assolute e spiegazioni inoppugnabili per tutto, stampelle che aiutano a sopportare umiliazioni, privazioni, torture e morte. In questo senso la sua riflessione si rivela di un'ancor più insidiosa , fragilità, impedendogli di illudersi e costringendolo a scrutare sino in fondo l'annientamento della morale. Proprio attraverso la disillusa assolutezza con cui seppe misurare le nostre implacabili "perdite di terreno", Jean Améry si rivela alla fine un maestro di dignità e di libertà. Pubblicato quasi in sordina nel 1966 e diventato nel volgere di qualche anno un classico imprescindibile della letteratura concentrazionaria, "Intellettuale a Auschwitz" è un lucidissimo regesto sul tema del Male in una delle sue più abiette manifestazioni. La sua precisione evocativa penetra nelle fibre della mente lasciando segni indelebili nelle coscienza di ognuno. Presentazione di Claudio Magris.
La notte di san Valentino del 1982, una "tempesta perfetta" provoca l'affondamento di una piattaforma petrolifera al largo di Terranova. A bordo ci sono 84 membri dell'equipaggio, reclutati nelle cittadine della costa, giovani, poveri e inconsapevoli o incuranti del rischio. La storia narrata da Lisa Moore è quella di chi rimane. Helen O'Mara è una delle vedove, ha tre figli piccolissimi e ne aspetta un quarto. Helen è costretta a continuare a vivere, per essere insieme madre e padre, ma una parte di lei, quella innamorata di Cal, il marito morto, resterà congelata nella lunga notte d'inverno che ha cambiato la sua vita. Il lutto assume via via le forme del dolore, della ribellione, del rimpianto, del ricordo, del sogno, ma sembra non finire mai. Ogni pausa dall'impegno di cura, ogni sguardo che Helen alza verso la finestra dal lavoro di cucito che ha scelto per tirare avanti, le riporta alla mente un episodio della vita con Cal; ogni notte è affollata di sogni che si confondono con gli ingannevoli richiami del dormiveglia. Solo più di vent'anni dopo, quando John, l'unico figlio maschio, che non a caso ha scelto di lavorare come esperto di sistemi di sicurezza per le piattaforme petrolifere, telefona per annunciarle che diventerà padre, Helen si sveglia dal lungo, ostinato, torpore del desiderio. Il disgelo assumerà la forma concreta di Barry, un attraente quanto riservato artigiano che la saggia e attenta sorella Louise le ha mandato per sistemare la casa.
Chi è l'uomo studiato dal cognitivismo? Da diversi anni, sia in psicologia sia nelle neuroscienze, stiamo assistendo allo sforzo di indagare l'uomo come "persona", cogliendone gli specifici modi di essere che non sono riducibili a nessuna categorizzazione formale. È l'uomo incarnato e situato, quello cui deve mirare una matura scienza del soggetto. La psicoterapia cognitiva neuropsicologica, nel fare propria questa visione dell'essere umano come persona e non come "macchina/processo", utilizza la neuropsicologia per attuare una coerente traduzione tra i diversi linguaggi specialistici di area biologica e psicofenomenologica. Si tratta di una prospettiva che realizza il dialogo tra discipline specialistiche che cercano di dire, ognuna nel suo linguaggio, "quasi" la stessa cosa, ossia un fenomeno che in natura è uno: i modi di essere della persona che agisce e patisce.
L'evoluzione della vita sulla Terra è ormai un fatto accertato: l'imponente documentazione di cui disponiamo ha permesso di ricostruire un albero genealogico che, a partire dagli organismi esistenti, scende verso le lontane radici dell'"ultimo progenitore universale comune". L'origine stessa della vita, invece, resta uno dei maggiori misteri della natura, ancora indagato da scienziati e filosofi, per il quale sembra non essere giunta una parola definitiva e rivelatrice. Christian de Duve ha dedicato gli ultimi decenni a studiare questo mistero, concentrandosi su ciò che accomuna tutti gli esseri viventi della Terra, a partire dal codice genetico condiviso e dalla medesima chimica di base. Lo studio di questi meccanismi ha dischiuso nuovi orizzonti sulla natura della vita, la sua origine e la sua evoluzione.