I contributi più significativi della tradizione ebraica su Gesù nel periodo medievale si trovano soprattutto nella letteratura polemica ebraica anticristiana. La sua figura viene essenzialmente delineata attraverso le riflessioni su due questioni chiave: il suo rapporto con la legge mosaica e la sua divinità. Nel volume, le immagini di Gesù che si possono rintracciare in questa produzione letteraria emergono da passi selezionati di sette testi riprodotti in ebraico con relativa traduzione italiana, che coprono diverse aree geografiche e attraversano un arco cronologico che va dal XII al XIV secolo. Gli autori della letteratura polemica ebraica anticristiana, pur focalizzandosi innanzitutto sull'aspetto polemico e apologetico, si sono inevitabilmente confrontati con tematiche di natura storica. Il loro interesse per la figura di Gesù si inserisce spesso in un contesto più ampio di difesa del giudaismo dagli attacchi conversionistici. Tuttavia, è innegabile che alcune delle questioni da loro sollevate coincidano talvolta con quelle ancora dibattute dagli storici contemporanei riguardo alla figura storica di Gesù.
Quale fu il rapporto di Gesù con il Battista? Il movimento di Gesù era una filiazione di quello di Giovanni o un'iniziativa autonoma? Gesù fu semplicemente un discepolo del Battista oppure seppe interpretare richieste ed esigenze che andavano oltre la rinascita dall'acqua del Giordano? Nel libro si sostiene che i due leader siano tra quegli innovatori che compaiono in brevi periodi creativi di accelerazione storica. Essi rispondevano alla crisi endemica dovuta all'occupazione romana che da circa ottant'anni aveva privato gli ebrei di un proprio regno. Letti in prospettiva antropologica e sociale, i vangeli ci restituiscono la visione che il Battista e Gesù avevano della crisi della società del tempo, segnata da fragilità, bisogni insoddisfatti, ingiustizia, indebitamento cronico. Inoltre, pur influenzato dal Battista, Gesù aveva prospettive differenti. Strinse rapporti con gli strati poveri dei villaggi. Sognava un futuro libero da malattia e indigenza. Ricorrendo ai grandi miti del giudizio universale e del regno di Dio, il Battista e Gesù entusiasmarono le folle, provocarono la reazione del potere politico che li mise a morte. Continuarono però a incidere in modo innovativo sulla vita reale della gente di allora e delle epoche successive.
Dal X all'VIII secolo prima dell'era cristiana due regni ebraici sono vissuti fianco a fianco: Israele a nord e Giuda a sud. Scritti a Gerusalemme, capitale di Giuda, a partire dal VII secolo, i testi biblici presentano il Regno del Nord come empio, e come maledetti i suoi re. Biblisti e storici hanno largamente seguito questa ricostruzione, sapendo che Israele era stata un'entità politica ed economica ben più importante e potente rispetto al piccolo regno di Giuda, ma senza mai tentare di scriverne le vicende. Proseguendo il percorso intrapreso in altre sue opere Finkelstein accetta la sfida e presenta una storia di questo regno dimenticato. Il volume, che nasce da un ciclo di conferenze tenute al Collège de France, ha ottenuto il premio Delalande-Guérineau.
Il volume si concentra sugli scritti “apocalittici” prodotti tra giudaismo del secondo Tempio e protocristianesimo. L’intenzione è quella di valorizzare l’elemento “visionario” che accomuna questi scritti al più ampio filone dei resoconti visionari diffusi nelle culture del Mediterraneo antico, mostrando soprattutto le relazioni tra esperienze religiose e processi di “messa per iscritto” che hanno favorito la trasmissione di questi testi in reti di comunicazione sulla lunga durata.
Il volume tratta di una figura tra le più importanti del mondo ebraico italiano ed europeo, Tranquillo Vita Corcos, rabbino e medico attivo a Roma tra fine Seicento e primi decenni del Settecento. Stranamente trascurato dalla storiografia sull’ebraismo, Corcos si muoveva abilmente tra le relazioni intrecciate con membri illustri della politica e della cultura romana e italiana – papi compresi –, e quelle con le comunità ebraiche europee, che si rivolgevano a lui come a una indiscutibile autorità. Il personaggio, la vita e le opere di Corcos rinviano a una serie di tematiche storiografiche che illumina il contesto storico-culturale, non solo ebraico, dell’Italia e dell’Europa tra XVII e XVIII secolo e chiarisce quale fu la natura, essenzialmente negoziale, dei rapporti tra ebrei e cristiani ma anche la loro trasformazione nel tempo. Quella esercitata indefessamente da Corcos, politico avveduto, intellettuale complesso, attratto dalla Kabbalah e dal sabbatianesimo, fu davvero un’“arte della mediazione” pur all’interno di una strenua difesa dell’identità ebraica. Siamo di fronte a un personaggio razionale e aperto e a uno sforzo di dialogo e di conciliazione che non impediva però il ricorso a più dure proteste e denunce rivolte agli stessi pontefici per difendere gli ebrei da preconcetti e accuse, come quella, temibilissima, di omicidio rituale.
Pioniere degli studi sul misticismo medievale e sul messianismo ebraico, Gershom Scholem (1897-1982) nacque a Berlino da ebrei assimilati. Dopo aver aderito giovanissimo al sionismo, da lui inteso come strumento di rinnovamento dell'ebraismo, nel 1923 emigrò in Palestina, dove fu trai fondatori dell'Università di Gerusalemme. Attraverso un approfondito studio di diari, lettere e altri scritti, David Biale traccia il percorso intellettuale e umano di Scholem tra attivismo politico e ricerca storica, e descrive i suoi rapporti di amicizia (ma anche gli scontri) con personaggi di spicco come Martin Buber, Franz Rosenzweig, Walter Benjamin e Hannah Arendt. Da questa biografia emerge la figura di un uomo appassionato del suo tempo, in un periodo caratterizzato da due guerre mondiali, il nazismo, l'Olocausto e la fondazione dello Stato di Israele.
Gli ebrei sono presenti sui territori italiani da tempi remoti. Cittadini dell’impero romano, sono stati riconosciuti come tali durante le prime fasi della cristianizzazione. Nel periodo dal IV all’XI secolo, nonostante le polemiche conversionistiche, gli ebrei sono stati uno dei molti gruppi che componevano la complessa e multicentrica realtà italiana. Dal XII secolo alla fine del Medioevo questa relativa normalità divenne gradualmente una condizione minoritaria. Benché la storiografia abbia abitualmente rappresentato gli ebrei italiani soprattutto come specialisti del prestito a interesse e usurai pubblici, la loro presenza, precedente alla cristianizzazione stessa della penisola, fu in realtà caratterizzata da numerose attività professionali e da un’intensa produzione culturale, letteraria e giuridica. La componente ebraica della società italiana ha dunque attraversato i dieci secoli del Medioevo interagendo in diversi modi con la maggioranza cristiana. La storia della mutevole relazione del mondo ebraico italiano con la popolazione cristiana e con le élite che la governavano consente di rileggere la storia d’Italia alla luce della varietà etnica e culturale che le è propria sin da tempi antichissimi.
Fare la storia degli ebrei presenti nell’Italia del Medioevo significa scrivere un pezzo di storia italiana. D’altra parte, proprio perché la storia medievale dei territori che formavano la penisola italica è il punto di partenza della futura complessità italiana, parlare degli ebrei in Italia come di una componente strutturale della storia italiana significa mettere in discussione l’idea molto diffusa dell’omogeneità culturale e religiosa di questa storia, rimettere in gioco, dunque, l’immagine di un’Italia come realtà compattamente latina e cristiana da sempre. La rappresentazione postrisorgimentale, ma specialmente caratteristica della revisione storiografica fascista, dell’Italia come soggetto storico naturalmente e tradizionalmente unitario, storicamente unificato dalla religione cristiana, ha influenzato in modi diversi, talvolta anche contraddittori, la ricostruzione della presenza degli ebrei in Italia. Da un lato gli ebrei e le loro comunità sono stati descritti come una sorta di complemento della nazione italiana, un’aggiunta più o meno ben tollerata, dall’altro come una presenza diffusa localmente e comprensibile solo alla luce di vicende strettamente regionali o cittadine. In entrambi i casi, si è presupposto che la storia nazionale avesse una sua compattezza politica o almeno religiosa, e che l’esserci degli ebrei ricavasse il proprio significato unicamente dal rapporto con questo soggetto collettivo cristiano o con le sue configurazioni locali. Ebrei come rappresentanti di un ebraismo visto come appendice italiana di un cristianesimo dominante, oppure ebrei come presenze significative all’interno di contesti estremamente specifici, a loro volta da intendersi come tasselli del grande mosaico nazionale cristiano. In questo quadro, l’epoca medievale, in tutta la sua estensione e la sua complessità, ha giocato un ruolo importante anche se abbastanza equivoco. Si è infatti dovuto constatare che i modi dell’esistenza ebraica in Italia sono stati molto diversi, in primo luogo dal Sud al Nord, e poi che questa differenziazione è stata ulteriormente accentuata dal carattere tutto speciale e dall’intensità della presenza ebraica in alcune città o regioni: a Roma, in Puglia, in Campania, in Calabria, in Sicilia, e anche, dal Duecento, nell’entroterra veneto e in Friuli, Toscana e Umbria, ma non in Piemonte, Liguria, Abruzzo e Molise. Nonostante questo panorama molto variegato e discontinuo, si è venuta tuttavia tendenzialmente descrivendo una convivenza ebraico-cristiana che, seppure segmentata dalla differente conformazione politica del Sud e del Centro-Nord (Regno di Napoli e di Sicilia, e repubbliche, comuni e signorie centrosettentrionali) e poi spezzata dall’espulsione alla fine del Quattrocento degli ebrei dai territori italiani posseduti dalla Corona spagnola, avrebbe avuto una sua continuità tutto sommato pacificamente omogenea, caratterizzata dalla funzionalità delle presenze ebraiche all’organismo nazionale cristiano. In altre parole, la rappresentazione piuttosto artificiosa di un’Italia armoniosamente cristiana dal IV al XV secolo ha prodotto di conseguenza una complementare raffigurazione degli ebrei analogamente caratterizzata dall’univocità del senso di questa presenza.
Un senso che rimanderebbe, secondo questo schema semplificato, alla tolleranza o all’intolleranza religiosa cristiana, oppure ai bisogni e ai problemi economici e politici della società dei cristiani.
A 120 anni dal Primo congresso sionista, che segnò la nascita del sionismo politico di Theodor Herzl; a 100 anni dalla Dichiarazione Balfour, che vide il sostegno strategico di Londra; a 70 anni dalla Risoluzione delle Nazioni Unite n. 181, che stabilì la creazione di uno Stato ebraico in Palestina; a 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni, che segnò l'inizio dell'occupazione dei Territori palestinesi dando al sionismo religioso una torsione messianica e determinandone la traiettoria politica dei decenni successivi; a 40 anni dalla vittoria elettorale del sionismo revisionista e dalla sconfitta del sionismo socialista, che aveva dominato la politica israeliana fino ad allora, è possibile fare un bilancio di che cosa sia stato il sionismo o, per meglio dire, i sionismi. Molteplici sono state, infatti, sin dagli inizi le anime di questo movimento, spesso in forte dissenso l'una con l'altra. Il volume delinea una storia dei sionismi, presentandone l'evoluzione dalle origini ad oggi, ricostruendo la genesi e lo sviluppo di ciascuno di essi e mettendo in luce quello che. di volta involta, è diventato dominante e ha dunque potuto mettere in pratica la propria visione.
Il libro affronta il tema del viaggio a Gerusalemme nella cultura letteraria italiana del Novecento. Nel periodo preso in esame (dal tramonto della dominazione ottomana al 1967), Gerusalemme è di gran lunga la città più temuta e perciò la meno raccontata dagli scrittori-viaggiatori. Il volume indaga le ragioni per cui la paura ha indotto molti a disputare su Gerusalemme senza esserci mai andati. La tragedia del Medio Oriente viene quindi affrontata inseguendo le forme, i modi e i tempi attraverso cui alcuni protagonisti della letteratura italiana - tra questi Ungaretti. Buzzati, Montale, Flaiano, Silone, Moravia, Meneghello - hanno saputo vincere la paura e si sono messi in movimento, con il piroscafo e con la penna. Matilde Serao, Angelo De Gubernatis, Orio Vergani erano stati i loro illustri precursori. La ricerca nasce dalla convinzione che la letteratura sappia sempre offrire un'angolatura alternativa alla storia e, quindi, proporre una scansione degli eventi diversa da quella della politica internazionale.
Se consideriamo la storia della filosofia del Novecento ci accorgiamo che i maggiori pensatori sono per lo più di origine ebraica. In molti casi, anche in conseguenza delle persecuzioni e della Shoah, questa radice ha inciso fortemente sul loro modo di fare filosofia. Questo libro prende in esame gli autori in cui un tale intreccio di filosofia ed ebraismo si sviluppa nella maniera più evidente e approfondisce alcuni nodi teorici che il pensiero ebraico ha affrontato nel Novecento.
Un volume introduttivo a Filone di Alessandria, un ebreo vissuto in Egitto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., grande esegeta della Bibbia, letta alla luce di categorie filosofiche greche. Il suo lavoro di interpretazione può essere visto accanto a quello di autori medio-platonici che, in periodo coevo o di poco successivo, rielaborano il pensiero filosofico del IV secolo e utilizzano il commento testuale come strumento di indagine e di lettura della realtà.
A partire dal secolo XIII si moltiplicano in tutta Europa narrazioni che accusano gli ebrei dei crimini più efferati contro la cristianità: crocifissioni di innocenti, assassini, cannibalismo rituale. Fra queste chimere, e in concomitanza con la crescente importanza attribuita al sacramento eucaristico culminante con l'istituzione della festività del Corpus Domini, compare e si diffonde rapidamente quella di furto e sacrilegio ai danni dell'ostia consacrata. Un evento miracoloso fa sì che, scoperti, i colpevoli siano puniti con la tortura e il rogo. Di tale fantasia persecutoria compaiono più tardi alcune trasposizioni sceniche: nell'Inghilterra centro-orientale della seconda metà del secolo XV, l'anonimo "miracle play" in volgare medioinglese "La conversione di Ser Jonathas Giudeo" - noto anche come "The Play of the Sacrament" - si distingue dalle analoghe rappresentazioni teatrali francese e italiana, oltre che per la presenza di un intermezzo farsesco, per un tono meno marcatamente virulento nei confronti degli ebrei e perché restituisce alla vicenda, in luogo della conclusione sanguinaria, quella edificante della conversione che caratterizzava le più antiche cronache e narrazioni.