Quella che stiamo vivendo non è solo una rivoluzione tecnologica fatta di nuovi oggetti, ma il risultato di un'insurrezione mentale. Chi l'ha innescata - dai pionieri di Internet all'inventore dell'iPhone - non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e selvaggio: rendere impossibile la ripetizione di una tragedia come quella del Novecento. Niente più confini, niente più élite, niente più caste sacerdotali, politiche, intellettuali. Uno dei concetti più cari all'uomo analogico, la verità, diventa improvvisamente sfocato, mobile, instabile. I problemi sono tradotti in partite da vincere in un gioco per adulti-bambini. Perché questo è The Game.
Oggi in Italia tutti hanno una ricetta in tasca per avvicinare gli italiani all'arte. Si tratta spesso di ricette a base di usurate pratiche di marketing, che dovrebbero far digerire Botticelli, come uno zuccherino aiuta a buttar giù la medicina amara, a cittadini considerati soltanto orde di consumatori inconsapevoli e irredimibili. Il risultato è desolante: ammesso (e per nulla concesso) che questa spintissima mercificazione serva a vendere qualche biglietto in più, è certo che non alimenta in alcun modo il nostro dialogo con l'arte. E se invece la ricetta fosse molto più semplice e rispettosa dell'intelligenza di ognuno di noi? Montanari traccia in queste pagine agili e appassionanti una possibile via per un'educazione artistica che sia anche educazione sentimentale e civica. E ci accompagna tra le strade del bello, dove alto e basso si mescolano, dove contemporaneo e classico sono parte di un unico grande discorso, che parte dalle mani impresse sulla roccia in una caverna e arriva a Banksy, passando per Raffaello, Monet, Pellizza da Volpedo e Rothko. «I monumenti ci parlano. In ogni modo provano ad attirare la nostra attenzione, implorano uno sguardo, una nostra sosta. Lo fanno perché, pur eterni o quasi, non vivono se non attraverso la vita dei vivi. Se accettiamo di far loro un po' di spazio nella mente e nel cuore, in cambio essi rendono più intensa, più profumata, più profonda la nostra vita. Temo che nessun produttore o responsabile di rete lo accetterebbe, ma il programma televisivo che davvero vorrei realizzare consisterebbe in una lentissima camminata in una qualunque chiesa storica del nostro Paese: e invece di fermarmi a far due chiacchiere con i passanti e i conoscenti, mi fermerei a leggere ogni lapide. Ognuno di quei brevi testi ha il potere di convocare davanti ai nostri occhi uomini e donne, eventi e pensieri, storie e vite di dieci secoli, e oltre. Dalla più sperduta chiesa si stende una rete di storie che avvolge l'Europa o il mondo interi, capace di farci sprofondare nei recessi intimi della nostra comune umanità».
Da sempre le grandi civiltà preclassiche dell'Oriente mediterraneo, dall'Egitto alla Mesopotamia, dall'Anatolia alla Siria all'Iran, sono state fonte d'ammirazione per l'imponenza colossale di celebri opere architettoniche, dalle Piramidi di Giza alla Torre templare di Babilonia al centro cerimoniale di Persepoli. Questa dimensione monumentale ha contribuito da sola a definire agli occhi dell'Occidente l'elemento distintivo e il limite fatale di tutta l'arte orientale antica, cioè la sua immutabilità e ripetitività ossessiva e straniante. Risalente a una sorta di età preistorica, l'espressione artistica di quelle civiltà, così dedita al meraviglioso, sarebbe stata del tutto estranea al rapporto con la Storia, che con le sue costanti trasformazioni sarebbe divenuta prerogativa fondamentale ed eccellenza dell'arte greca, romana e tardoantica. In realtà, nella prospettiva di Paolo Matthiae, proprio il ritratto, forma espressiva realistica e quindi storica tra tutte, costituì fin dagli inizi del III millennio a.C. una dimensione specifica di tutte le culture artistiche dell'Oriente antico. «Il ritratto è usualmente considerato un genere che, fin dalla civiltà etrusca, ha percorso tutta la storia dell'espressione artistica del mondo occidentale e che non ha conosciuto che rarissimi, inconsistenti e accidentali precedenti nel mondo orientale antico d'Egitto e d'Asia. Questo giudizio è non soltanto inaccettabilmente sommario, ma soprattutto non è per nulla corrispondente alla realtà, in quanto forme di rappresentazione che, pur molto approssimativamente, possono definirsi di ritratto, concepite e realizzate in relazione a definite visioni della natura - umana, divina o divinizzata - dei detentori del potere come maschere create in un complesso processo di comunicazione visiva di eccezionale rilievo per le società di quasi tutte le realtà statuali storiche - urbane, territoriali, nazionali, imperiali - dell'Oriente antico, sono ben documentate, con infinite varietà, lungo tre millenni di storia. Nelle pagine che seguono, per l'attenzione prestata alla restituzione dei collegamenti tra le opere artistiche e le concezioni dei ruoli istituzionali dei personaggi raffigurati, il tema del "ritratto" è trattato nella prospettiva di una sempre più avanzata storicizzazione dell'arte dell'Oriente antico».
Michel Pastoureau ripercorre la storia sociale e artistica degli stemmi medievali, ne presenta le principali regole e mostra come l'immagine araldica non sia affatto come le altre, soffermandosi sul significato di figure e colori. Un'opportunità per correggere una serie di equivoci e sottolineare l'influenza che i blasoni hanno esercitato nelle diverse epoche: la maggior parte delle bandiere, dei loghi aziendali, delle insegne militari, degli emblemi sportivi e persino dei cartelli stradali è infatti erede contemporanea dello stemma medievale. Il libro è illustrato da oltre 130 capolavori araldici, scelti tra arazzi, sculture, dipinti e smalti, per catturare la portata estetica di un'arte spesso sconosciuta.
Nonostante le perdite, la quantità di materiali censibili sotto il cartellino Dante per immagini è sterminata: una ricchissima produzione d'opere d'arte che dai margini dei libri si estende alle pareti di chiese e di edifici pubblici e a dipinti e disegni sui supporti più diversi, o si fa plastica realtà in bassorilievi e sculture a tutto tondo. A dar vita a questa straordinaria produzione hanno collaborato artisti anonimi e nomi fra i più illustri della storia dell'arte occidentale: i vari "Maestri" che fra Tre e Quattrocento con i loro minii fecero «ridere le carte» del «poema sacro», e poi Botticelli, Signorelli, Michelangelo, Zuccari, Reynolds, Füssli, Delacroix, Ingres, Rodin, Doré, Dalí, Rauschenberg, Guttuso, fino ai contemporanei Mattotti, Ferrari e Paladino. Per ognuno di essi «il Dante» è stato una sorta di pietra di paragone su cui misurarsi o al servizio del quale piegare competenze e sensibilità personali. «Le opere di Delacroix e di Scheffer, due veri e propri capolavori del primo Ottocento francese, esemplificano perfettamente il modo in cui queste generazioni di artisti figurativi "guardano" alla Commedia e al suo autore: dopo essere stato travestito da poeta neoplatonico nell'èra di Landino e di Botticelli, l'Alighieri diventa ora "le poéte romantique par excellence". In effetti gli artisti che tra fine Settecento e primo Ottocento sono tornati a leggere il poema e a darne traduzione visiva hanno appuntato prevalentemente l'attenzione sulle grandi personalità e sulle sventurate eroine, facendone veri e propri simboli visivi capaci di vivere di vita propria e di rappresentare, estratte definitivamente dal libro, passioni e tensioni eterne. E anche gli artisti che hanno ripreso a tradurre in immagini l'intera esperienza oltremondana del pellegrino Dante, o singoli episodi di quella storia, hanno focalizzato l'attenzione sulle reazioni emotive di lui e dei suoi interlocutori piuttosto che sulla valenza educativa o morale di quell'esperienza o sul peculiare statuto del poema sacro. La prima compiuta, splendida testimonianza di questo nuovo modo di guardare alla Commedia è affidata a un quadro realizzato tra il 1770 e il 1773 da sir Joshua Reynolds, uno dei piú grandi artisti inglesi - "Il conte Ugolino e i suoi figli nella Torre della Fame" -, che segna, dopo il silenzio del XVII secolo, il risveglio dell'interesse degli artisti, e non solo il loro, per l'opera di Dante, inaugurando una nuova èra, profondamente segnata dalla sua presenza nell'immaginario collettivo, oltre che nella produzione artistica e letteraria».
Si potrebbe dire di Medea ciò che dice Omero della nave Argo su cui essa ha viaggiato: è stata «raccontata da tutti». Tutti però l'hanno raccontata in modo differente. Nessuna delle più di quattrocento riletture letterarie, operistiche, cinematografiche, pittoriche ne ha restituito l'immagine completa e definitiva. Il suo nome è associato per sempre a un gesto inconcepibile - il figlicidio - ma Medea non ha una sola dimensione: è umana, ma è depositaria di saperi e poteri che trascendono quelli umani; è una donna, ma è più virile di tanti uomini; è passionale, ma non perde mai la sua lucidità; è una barbara, ma tiene testa a quanti passano per civilizzati, è portatrice di una cultura arcaica ma è emancipata più di qualunque donna greca, è una carnefice ma anche una vittima. Il suo segno è l'ambiguità. Medea incarna il diverso; compendia tutto ciò che è sospetto, inquietante, repulsivo, inaccettabile, e proprio per questo ci interpella sulla nostra capacità di includere nel nostro quotidiano ciò che non ci appare immediatamente omologabile. È una profuga che viene respinta da una nazione dopo l'altra e che uccide i figli forse anche volendo scongiurare loro una vita di vagabondaggio e di umiliazioni. Il destino di quest'antica migrante tocca nell'Europa di oggi dei nervi scoperti. Quando rivendica i suoi diritti di donna e di madre o quello di rimanere fedele alla sua cultura d'origine proviamo simpatia per lei; ma quando si spoglia della sua umanità per consegnarsi a un'alterità assoluta e insondabile non siamo più disposti a immedesimarci in lei. Trasferire, in tutto o in parte, sulle spalle degli 'altri' - ossia le nostre -le colpe di Medea equivale ad ammettere che Medea non è poi cosi 'altra'. Serve a esorcizzare il pensiero disturbante che Medea è, o potrebbe essere, una parte oscura di noi stessi. Del resto, le cronache di tutti i giorni ci dicono che le madri assassine non esistono solo nel mito, ma sono attorno a noi.
Molte sono le opere di Rembrandt con oggetti tratti dalla Bibbia ebraica e numerosi sono i suoi ritratti di notabili ebrei. Ma quali furono i concreti legami tra Rembrandt e la comunità ebraica? Steven Nadler documenta i rapporti quotidiani, non sempre facili, tra il pittore e i suoi vicini di casa a Vlooienburg, nel cuore del mondo ebraico di Amsterdam. E ben presto, partendo dal lavoro del grande artista, il rinomato studioso di Spinoza estende il campo d'indagine, per descrivere alcune pagine centrali della vita dei sefarditi e degli ashkenaziti all'indomani del loro insediamento presso lo Zuiderzee: l'assimilazione da parte di una società cosmopolita di queste comunità di migranti, oggetto di interesse intellettuale e sospetto, curiosità e pregiudizio, e talvolta ammirazione. L'attento esame di dipinti, incisioni e di segni sfocia nell'analisi della vita culturale e sociale del Secolo d'oro olandese, e approfondisce le fondamentali questioni di carattere spirituale, teologico e politico dell'epoca. Un viaggio lungo i canali e sotto i cieli annuvolati dell'affollata Amsterdam, tra personalità fuori del comune, accese discussioni e splendidi capolavori artistici.
Gian Lorenzo Bernini non ha un posto nella genealogia dell'arte moderna: quella che parte dalla rivoluzione di Caravaggio, e attraverso Velázquez, Goya e Manet, conduce agli Impressionisti, e dunque alle avanguardie. L'artista più potente, ricco e realizzato dell'Italia secentesca, "il dittatore artistico di Roma", è sempre stato considerato troppo organico alla propaganda dei papi e dei gesuiti per poter aver parte in questa storia di libertà. Basandosi su oltre vent'anni di ricerca, e ribaltando la lettura corrente di opere, fonti e documenti, questo libro dimostra il contrario: a modo suo, Bernini ha seguito Caravaggio sulla via del conflitto, arrivando a sacrificare una parte del proprio successo pur di difendere la sovranità sulla propria arte. Ed è anche grazie a questa tensione che le opere di Gian Lorenzo ci appaiono ancora così terribilmente vive. Bernini seppe uscire dalle regole, pagandone tutte le conseguenze e facendo leva sul giudizio di un'embrionale opinione pubblica europea per affrancarsi dall'arbitrio dei principi. Le sue mani e la sua testa divennero l'unica misura che accettava, e il suo atelier fu insieme luogo della creazione e teatro della libertà. Ma come dimostrare questa tesi? Nelle sue biografie "ufficiali" affiorano cospicue smagliature, fra loro coerenti, che questo libro individua e allarga, una per una. Costruendo così per le opere di Bernini una nuova chiave di lettura.
Dietro all'enigmatico titolo di questo libro si celano otto storie affascinanti, otto viaggi intorno al mondo intrapresi a partire da sette quadri (cinque di Vermeer, uno di Hendrik van der Burch e uno di Leonaert Bramer) e da un piatto di ceramica del Museo di Delft. A un primo sguardo, queste opere d'arte raffigurano soltanto intimità domestiche, in realtà possono raccontare anche gli avventurosi viaggi che misero in contatto l'Olanda del secolo d'oro con le terre d'Oltremare, mostrandoci l'entità degli scambi culturali e commerciali tra Oriente e Occidente, che segnano l'inizio della nostra epoca globale. Timothy Brook ci invita a leggere in modo diverso le opere di Vermeer, non come farebbe uno studioso d'arte, attento all'uso della luce e dei colori, bensì come uno storico che attira la nostra attenzione su un dettaglio, un oggetto, una figura per poi allargare lo sguardo sul vasto e mutevole mondo del XVII secolo. Cosi, la ciotola con della frutta rovesciata su un tappeto turco che vediamo in "Donna che legge una lettera" ci trasporta verso le rotte commerciali dell'ambita porcellana bianca e blu cinese; mentre il sontuoso cappello del galante "Ufficiale e ragazza che ride" ci conduce in Canada, dove gli esploratori europei ottenevano dai nativi americani pelli di castoro in cambio di armi. Quelle pelli finanziarono i viaggi dei marinai che cercavano nuove rotte per la Cina.
In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato, quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, o quando perdono la memoria di sé. Venezia può morire se perde la memoria, se non sapremo intenderne lo spirito e ricostruirne il destino. Fragile, antica, unica per il suo rapporto con l'ambiente, Venezia si svuota di abitanti, e intanto è bersaglio di innumerevoli progetti, che per "salvarla dall'isolamento" ne uccidono la diversità e la appiattiscono sulla monocultura di una "modernità" standardizzata, riducendola a merce, a una funzione turistico-alberghiera. Il caso di Venezia, emblematico, permette a Salvatore Settis un ragionamento universale: dall'Aquila a Chongqing - città della Cina che è passata dai 600.000 abitanti del 1930 ai 32 milioni di oggi - mutamenti frenetici imposti da ragioni produttive e di mercato violano il contesto naturale e lo spazio sociale, mortificano il diritto alla città e la democrazia.
L'autoritratto è il genere artistico che meglio di altri contraddistingue la nostra epoca; ma gli artisti moderni sono ben lontani dall'averne esaurito forza e potenzialità. Questo libro offre un'ampia panoramica storico-culturale dell'autoritratto a partire dall'antico mito di Narciso e dai cosiddetti "autoritratti di Cristo" fino al proliferare di autoritratti di artisti contemporanei. In questo racconto James Hall dimostra come l'atto di ritrarsi faccia parte di una tradizione lunga secoli, e molti sono gli aspetti che l'autore prende in considerazione: l'importanza dell'"ossessione per gli specchi" in epoca medievale; il diffondersi del genere durante il Rinascimento; l'intensità degli autoritratti-confessione di Tiziano e Michelangelo; gli autoritratti comico-caricaturali e quelli "inventati" o immaginari; la mistica dello studio d'artista da Vermeer a Velàzquez; il ruolo svolto dalla biografia e dalla geografia nei ritratti seriali di Courbet e van Gogh; la tematica sessuale e la figura del genio nelle opere di Munch, Bonnard e Modersohn-Becker; le identità multiple di artisti quali Ensor e Cahun; fino a toccare gli ultimi sviluppi del genere nell'era della globalizzazione. Lungo tutto il libro, Hall non smette mai di interrogarsi sui motivi che inducono gli artisti alla pratica dell'autoritratto, e trova risposte scavando nel loro mondo e nella loro mentalità.
Ci sono occasioni in cui non serve essere un addetto ai lavori per comprendere a fondo un'opera d'arte. Specie se quello a cui si mira non è tanto l'analisi di una tecnica o l'esegesi di un significato, quanto piuttosto la ricostruzione di una grammatica del pensiero. Di Jonathan Littell conoscevamo finora il registro narrativo (il monumentale "Le Benevole"), saggistico ("Il secco e l'umido") e quello del reportage, giocato anch'esso sul filo della narrazione in continuo dialogo però con una realtà spesso atroce e complessa (i taccuini ceceni e siriani). "Trittico" ci propone un nuovo volto dello scrittore, che non contraddice i precedenti ma anzi li integra grazie a un serrato confronto, emozionale e stilistico, con le immagini. E non con immagini qualsiasi, ma con quelle della pittura di Francis Bacon, un artista che ha affrontato, con una tecnica inconfondibile e unica, molti dei fantasmi della modernità, dall'angoscia all'incomunicabilità, e soprattutto il grande tema del corpo. Bacon è anzitutto un pittore di figure deformate che sono in realtà specchio dei fantasmi interiori. Armato di un amore intenso per la sua opera, di un'intelligenza acuta e supportato da uno studio approfondito, Littell articola la riflessione sulla vita e sulle opere di Bacon attraverso tre diversi punti di vista, regalandoci così il suo personalissimo "Trittico".