Che cosa ha portato Mario Draghi, l'uomo che aveva sempre rifiutato di diventare un politico, alla guida di un paese sull'orlo di una crisi di nervi? Un complotto dei poteri forti? L'ambizione? Il senso di responsabilità? E qual è il bilancio del suo governo undici mesi dopo? L'idea di Draghi ai vertici dello Stato parte da lontano, dalla cerimonia di commiato dalla presidenza della BCE, il 28 ottobre 2019, che lo ha consacrato leader tra i leader europei alla presenza di Merkel, Macron, Lagarde e Mattarella, il governo dell'Europa. Dopo quella cerimonia Draghi è diventato il convitato di pietra della politica italiana. La sua destinazione "naturale", per qualcuno la sua segreta ambizione, appariva il Quirinale. Sono state la pandemia e la paralisi di un sistema politico "consunto" a dirottarlo in primis su Palazzo Chigi. Undici mesi dopo, il bilancio del governo è positivo ma non privo di preoccupanti incognite. La pandemia è relativamente sotto controllo, ma l'azione riformatrice incontra crescenti resistenze. Il suo decisionismo evoca lo spettro di un semipresidenzialismo di fatto. Draghi come de Gaulle? Agli occhi dell'Europa tuttavia, Draghi è vieppiù l'uomo dal quale non si può prescindere, «the lender of last resort» del capitale istituzionale italiano secondo le banche d'affari. La sua presenza ai vertici dello Stato è un elemento di stabilità e garanzia per l'attuazione del Recovery Plan per il quale Bruxelles ha promesso all'Italia 220 miliardi, oltre metà dei quali a debito. Un suo fallimento equivarrebbe al fallimento di un'Europa che non vuole più essere "matrigna" e ciò lo pone al centro di un complesso big game geopolitico. Nella sua vita l'ex presidente della BCE ha vinto più d'una sfida. In questo libro Marco Cecchini racconta il banchiere centrale fattosi premier, sulla scia di una storia che va dalla formazione al "whatever it takes", e risponde alla domanda: Mario Draghi ce la farà anche questa volta?
Cinquantanni fa moriva Tòtò, il Principe della risata, la risposta italiana a Charlot e Buster Keaton, che ci ha regalato quasi un centinaio di interpretazioni cinematografiche, diretto da registi del calibro di Pasolini e Monicelli, canzoni come la celeberrima "Malafemmena", poesie - ricordiamo 'A livella" - e la messa in scena di decine di rappresentazioni teatrali, dall'avanspettacolo alle grandi riviste. In questo libro, Giancarlo Governi, "totologo" d'eccellenza, partendo dalle vicende personali del giovane Antonio Clemente - dalla nascita, nella sua Napoli, in un contesto di povertà ed emarginazione sociale fino alla faticosa gavetta nei teatri di Roma - ci guida in un viaggio biografico nella vita dell'attore italiano più famoso del mondo, facendoci scoprire che non esiste un solo 'loto. Accanto a una meticolosa disanima della sua opera teatrale e cinematografica, letteraria e cantautoriale, l'autore non trascura l'aspetto più intimo del Principe de Curtis e, attraverso un repertorio unico di testimonianze e ricordi dei familiari e dei grandi artisti con cui Totò ha collaborato, ci racconta le debolezze del grande comico, i suoi fallimenti amorosi, il suo precario stato di salute che alla fine lo costringe a rinunciare al teatro, il suo profondo senso di sconforto di fronte alla critica che lo accusava di mettere in scena sempre le solite "totoate". Questa biografia è un omaggio sentito e puntuale a un artista poliedrico e alla sua complessa personalità, che spiega perché ancora oggi Totò sia amato, "venerato" e costantemente ritrasmesso in televisione. Una bella ricompensa per un artista convinto di non aver fatto abbastanza.
Rousseau, considerato il fondatore della pedagogia moderna e autore di bellissime frasi sui doveri paterni, ebbe cinque figli che destinò tutti, appena nati, all'ospizio dei trovatelli, senza più curarsene; Manzoni, il campione della pietas cristiana, ignorò per anni le accorate richieste della figlia Matilde perché l'andasse a visitare, finché questa non morì di tisi, a 26 anni, senza che il suo desiderio fosse esaudito; il grande Charlie Chaplin, indimenticabile "padre" nel film Il vagabondo, ammise di detestare i bambini, mentre una delle sue figlie ricorda che il tempo massimo che il genitore le dedicò nel corso della vita fu di... 17 minuti. Evidentemente, genio e famiglia non vanno sempre d'accordo. Sembra, anzi, che le vette dell'arte, della scienza, insomma del pensiero, portino inevitabilmente a trascurare i rapporti familiari. Questo libro mette alcuni grandi della storia dell'umanità, lontana e recente, sotto una lente particolare: quella della paternità. Un esame che riserva molte sorprese e ridimensiona alcuni geni, senza nulla togliere alla grandezza della loro mente e delle loro opere, riportandoli a una statura umana, molto umana, fatta di assenze e debolezze.
"A passeggio con John Keats" è l'opera più misteriosa di Julio Cortázar: scritto in solitudine a Buenos Aires all'inizio degli anni Cinquanta e pubblicato volutamente postumo come omaggio a un poeta che, morto giovanissimo, solo postumo ottenne la sua consacrazione, è un libro talmente ricco da sfuggire a ogni catalogazione. È sia un saggio, un acutissimo esercizio di critica letteraria - perché solo un poeta può arrivare al cuore vivo e pulsante della poesia di un altro poeta e scriverne senza ridurlo a nozionismo da accademia -, sia un romanzo, la storia di un personaggio di nome Julio Cortázar che, chiuso nella sua stanza, all'ultimo piano di un palazzo di calle Lavalle, a Buenos Aires, notte dopo notte scrive di Keats, e intanto pensa, divaga, ricorda, compilando a margine del suo libro una sorta di zibaldone. È un'opera-mondo: al centro c'è Keats, la sua vita e la sua poesia, ma ci sono anche Buenos Aires, i profumi e le luci della metropoli argentina e le vastità buie e sterminate della pampa oltre i suoi confini, e i poeti amici di Cortázar, i loro versi e le loro discussioni delle tre di notte, avvolti dal fumo delle sigarette e dall'odore del caffè. C'è l'Italia, ci sono Roma, Siena, Venezia, ma anche Genova e Napoli, perché pochi sono riusciti a catturarne l'essenza - i silenzi delle campagne, perché "tutta l'Italia è silenziosa".
Il 17 febbraio 1600 Giordano Bruno muore sul rogo dell'Inquisizione, a Campo de' Fiori. All'indomani delle guerre di Religione, nel pieno della Controriforma, la Chiesa di Roma non gli perdona la sua insubordinazione. Esiliato, isolato, eterno dissidente, è rimasto imprigionato nei suoi miti troppo a lungo: Bruno ateo, Bruno spia, Bruno moderno, Bruno eretico. Attorno alla figura del Nolano è fiorita una vasta letteratura, che non di rado ha cercato di tirare Bruno da un lato o dall'altro, accentuandone alcuni tratti a discapito di altri. Levergeois abbatte in questo libro i luoghi comuni, tratteggia un Bruno "umanizzato" e lo rende contemporaneo a noi. Passo dopo passo lo seguiamo nella varie tappe della sua movimentata esistenza e del suo irriducibile pensiero. Domenicano, rompe col suo ordine e lascia l'Italia, dando inizio a un lungo peregrinare da esule. A Ginevra si oppone ai calvinisti che lo scomunicano. A Parigi seduce con l'arte della memoria Enrico III e trova protezione. In Inghilterra scandalizza dottori di Oxford e puritani. Una terza scomunica arriva dai luterani tedeschi. Bruno segna una svolta nella storia del pensiero occidentale. Si ispira a san Tommaso, a Cusano e a Ficino a un tempo. Nemico di Aristotele, stabilisce, a partire da Copernico, l'esistenza di un universo infinito, popolato da innumerevoli mondi. Dalla matematica alla magia, passando per la scoperta dell'America, mette in discussione tutto ciò che sembra già acquisito.
Immergersi nella biografia di Raimon Panikkar (1918-2010) è come aprire una finestra su quelle che saranno le vite degli uomini di domani. Nato a Barcellona da madre catalana e padre hindu, Panikkar è stato chimico, filosofo, teologo, numerario dell'Opus Dei, sacerdote cattolico, docente universitario, marito, scrittore, ma anche amico, "maestro", "profeta" e molto altro ancora. Vestito all'europea o in sandali e dhoti, a Bonn, Roma, Varanasi, Santa Barbara o Tavertet, quest'uomo ha penetrato la saggezza di culture e religioni diverse e ha saputo gettare un nuovo sguardo sulla tradizione cristiana e occidentale. La figura di Panikkar appartiene oggi alla leggenda, alimentata in parte da lui stesso, in parte "dilatata, rafforzata e diffusa da tutti quelli che l'hanno conosciuto". Bielawski la riprende con dedizione e rispetto, prova a distillare l'uomo dal "mito" raccontandone la vita e presentando il suo pensiero. In questo viaggio incontriamo teorie ardite, come la visione cosmoteandrica o advaitica, e riflessioni sulla secolarità sacra, sul buddhismo e sulla trinità radicale. Passo dopo passo, il percorso apparentemente erratico del filosofo di Tavertet rivela una profonda coerenza, poiché l'apertura universale, la fiducia cosmica, la passione per Cristo e una coraggiosa ricerca della libertà fanno da filo rosso. Bielawski individua il senso di questo cammino unico e ci guida con trasporto nel "labirinto" Panikkar.
Kapuscinski è stato il più importante reporter del Novecento, esempio di un grande giornalismo improntato a una scelta etica, volto a dare voce a chi non l'ha e a produrre una qualche forma di cambiamento nel mondo. Tenace demolitore di luoghi comuni, con la sua vita il "maestro Kapu" ha testimoniato l'indipendenza del reporter, seguendo per mezzo secolo guerre e conflitti in vari continenti, dalla Polonia comunista all'Africa postcoloniale, dall'Iran di Khomeyni alla Russia sovietica. A rischio della propria vita. Biografia riccamente documentata, "La vera vita di Kapuscinski" ha dato adito a forti polemiche per aver insinuato un pesante dubbio: Kapuscinski è stato un grande reporter o un grande narratore? Ebbe mai la tendenza a esagerare, se non addirittura a inventare i fatti? Ha davvero incontrato di persona Che Guevara o il leader rivoluzionario del Congo Patrice Lumumba? Da questo spunto derivano quesiti di metodo di straordinario interesse: fino a che punto è lecito modificare lo svolgimento dei fatti per scrivere un reportage? Dove finisce il reportage e dove inizia la letteratura? Qual è la relazione tra la realtà e la parola, tra la storia e la letteratura?
È una delle rare figure che hanno saputo cambiare il mondo con la sola forza dello spirito. Ma com'è riuscito, quest'uomo fragile e dalla voce esitante, questo giovane avvocato fallito, a riunire milioni di uomini? Com'è avvenuto che le sue mille sconfitte si siano mutate in trionfo? La vita di questo "santo laico" mostra che per non essere più umiliati bisogna prima smettere di umiliare, cambiare il proprio rapporto con l'altro. E Gandhi lo fece, dando l'esempio piuttosto che lezioni, insegnando il coraggio di cambiare se stessi prima di pretendere di trasformare l'altro. Oggi è quanto mai attuale, perché mai come ora la violenza nel mondo è tanto minacciosa e multiforme. La sua prodigiosa contemporaneità emerge da molti fattori, tra cui l'idea di economia etica, la condanna della violenza, l'appello all'opinione pubblica, il ripudio della nozione di "potere". Furono i voti di sincerità, castità, nonviolenza e povertà a far si che la sua lotta non deragliasse mai? Gandhi scrisse che in lui la fede "divenne una forza vivente". Tutti conoscono la sua storia, ma lui rimane comunque un enigma.
"Mirador" non è una semplice biografia di Irène Némirovsky. È la scrittrice stessa che, attraverso la voce della figlia, Élisabeth Gille, ci racconta in prima persona di sé e della propria vita. E rievoca con accenti intimi e originali la Russia lacerata e suggestiva dell'infanzia e dell'adolescenza. Poi, dopo l'esilio seguito alla Rivoluzione d'Ottobre, sono la Francia e Parigi lo scenario in cui Irene spicca il volo e diventa famosa. Infine la provincia francese è il teatro che vede svolgersi l'ultimo atto della sua esistenza, che è anche l'ultimo atto di una borghesia colta ma incapace di cogliere i segni premonitori della tragedia che si sta abbattendo sull'Europa e che troppo tardi si accorge della furia che travolgerà milioni di persone, come la stessa Irène, deportata nel 1942 ad Auschwitz, dove morì di tifo un mese dopo. "Mirador" è uno sguardo intimo e privilegiato sui suoi legami con il padre e la madre, il marito e le figlie, la fatica della continua fuga fino alla drammatica fine. Numerosi sono i nodi affrontati - la fama e le sue illusioni, il giudaismo e la Shoah -, ma è il tema fondamentale della vita familiare e della maternità a dominare la narrazione. Il rapporto tormentato, seppur breve, tra Elisabeth e la madre Irène è il filo rosso che lega ogni vicenda di questo racconto... Prefazione e intervista di René de Ceccatty.
Dal campo di sterminio di Auschwitz alla presidenza del Parlamento europeo: la vita di una figura femminile forte, di grande spessore, che ha lottato per riemergere dall'incubo e restare fedele a se stessa e ai propri ideali. In questa autobiografia Simone Veil si racconta affrontando i fantasmi del passato, ricostruendo la storia della propria famiglia mutilata dal furore nazista e ripercorrendo poi le tappe di una rinascita, di un percorso affrontato con volontà, coraggio e una dignità che l'ha condotta a giocare un ruolo di primo piano non solo nella vita politica del suo paese, ma anche e soprattutto nella costruzione di quel grande e ambizioso progetto che è l'Europa. In Francia Simone Veil è stata magistrato, poi ministro della Sanità e membro del Consiglio Costituzionale; si è battuta per la dignità dei detenuti nelle carceri e per la liberalizzazione dell'aborto. In qualità di presidente del Parlamento europeo, si è impegnata poi per difendere l'autorità delle nuove istituzioni e ha lavorato costantemente per custodire la memoria della Shoah, perché quanto era accaduto a lei e ad altri milioni di innocenti non accadesse mai più. Dall'elezione di De Gaulle a quella di Sarkozy, dal Maggio del '68 al crollo del Muro di Berlino, dai processi di Norimberga alla creazione dello Stato di Israele, Simone Veil è stata ed è, tuttora, uno dei protagonisti di maggior rilievo della storia europea.