Il nazismo ha costituito una terribile sfida per la Chiesa cattolica, che, in un certo senso, continua fino a oggi: molti giudizi sul cattolicesimo contemporaneo ruotano ancora intorno al rapporto di Pio XI e di Pio XII con Hitler. Innanzitutto, il nazismo ha disorientato la Chiesa tedesca, stretta tra minacce gravissime e crimini che non tolleravano il silenzio. Alessandro Bellino ricostruisce l'accidentato percorso di questa Chiesa, ripercorrendo un vasto dibattito storiografico e mettendo a fuoco vicende poco conosciute, come i processi per scandali finanziari e sessuali del clero, che il regime usò come pesanti mezzi di pressione. Ciò che accadeva in Germania coinvolse subito anche la Santa Sede. Dai documenti vaticani, qui ampiamente esplorati, emerge una gestione quotidiana della sfida nazista, che non seguì inizialmente un disegno chiaro e organico, ma che poi acquistò un orientamento sempre più severo. Lungo questa strada, la condanna della Mit Brennender Sorge non è stata un punto d'arrivo definitivo, ma la base di una sistematica strategia diplomatica finalizzata a contrastare l'influenza nazista nel mondo. La Santa Sede agì come un collettivo al cui interno non c'era spazio per contrapposizioni radicali, tuttavia dai documenti emergono differenze di giudizio, di atteggiamento, di azione. Il Segretario di Stato Eugenio Pacelli appare pienamente coinvolto nel progressivo indurimento della linea vaticana e il pontificato di Pio XI si chiuse con una ferma presa di posizione, proposta dal Segretario di Stato a sostegno del card. Mundelein, contro l'«imbianchino austriaco e per giunta inetto». Prefazione di Agostino Giovagnoli.
Perché raccontare le storie dei giusti ottomani? L'azione di chi non ha partecipato, di chi ha detto no, di chi ha agito secondo coscienza vincendo l'indifferenza e la paura, oltre a costituire la denuncia del crimine che il governo turco ancora oggi nega, rende visibile la distinzione tra popolo e governo impedendo di riferirsi a un generico "popolo nemico" che si è macchiato del crimine di genocidio. Mostra che il fronte dei carnefici, nel male estremo, non è mai compatto e serve ai sopravvissuti armeni, ai loro figli e nipoti, per non diventare schiavi del risentimento, per non sentirsi i soli disperati portatori di una storia negata. Forse per perdonare senza dimenticare. Prefazione di Marcello Flores.
Della tragedia che ha decimato gli armeni nell'Impero Ottomano durante la Grande Guerra molto è stato scritto; ma diversi aspetti restano ancora in ombra, come il ruolo svolto dalla Santa Sede. Le carte dell'Archivio Segreto Vaticano e di quello storico della Segreteria di Stato, qui selezionate, non offrono solo l'ennesima testimonianza della strage, ma rivelano, con i tre appelli di Benedetto XV al Sultano, le lettere del Segretario di Stato Gasparri, i rapporti del delegato apostolico a Costantinopoli Dolci e quelli inviati dai Nunzi, tra cui Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, l'incessante opera della Chiesa a favore degli armeni e dei cristiani, presi allora nel vortice di una tremenda persecuzione a cui il mondo dapprima ha voltato le spalle, per poi dimenticarla per lungo tempo. Prefazione di Antonia Arslan
Il Binario 21 della Stazione Centrale di Milano è testimonianza diretta della deportazione e della Shoah. Da qui partirono i convogli dei deportati verso Auschwitz. Dal 1997, la Comunità di Sant'Egidio, insieme alla Comunità Ebraica di Milano, ogni anno fa memoria del tragico evento, con le parole dei sopravvissuti e di altri testimoni dei genocidi del XX secolo. Questo libro raccoglie i loro racconti, primo fra tutti quello di Liliana Segre, ebrea milanese, partita il 30 gennaio 1944 per Auschwitz e fra i pochi sopravvissuti. Infine, le parole dei profughi, approdati a Milano nel 2015 e ospitati presso il Memoriale della Shoah, testimoniano come possa essere interrotta, anche oggi, la catena dell'indifferenza.
Arminio Wachsberger venne arrestato dai nazisti a Roma il 16 ottobre 1943 e deportato ad Auschwitz perché ebreo. Dei 1.024 rastrellati quel giorno, ne tornarono solo 16: Arminio è uno di questi. Da subito, appena dopo la fine della guerra, il protagonista di questa storia ha voluto testimoniare sulle travagliate vicende della sua vita, con la parola e con la scrittura. La sua intraprendenza e la conoscenza delle lingue gli hanno permesso di guardare e raccontare gli eventi da un punto di vista privilegiato: quello dell'interprete tra i deportati e le autorità naziste. Dopo la guerra il suo ruolo di interprete non è venuto meno, e non solo nei tribunali: i suoi racconti hanno tradotto in un linguaggio comprensibile una realtà ai confini dell'immaginabile: la tragica esperienza dei lager nazisti. L'appassionata dedizione di Arminio Wachsberger al suo compito di testimone ha fatto emergere nuovamente diverse domande cruciali (su cui altri autori, fra cui Primo Levi, si erano interrogati con sofferta lucidità): che cosa si ricorda? che rapporto esiste tra testimonianza e verità? perché tra storici e testimoni è sorta una reciproca diffidenza? che rapporto esiste tra storia e memoria? quale ruolo svolgono la scrittura e la letteratura nella trasmissione della memoria?
"Si può aver paura della storia? Noi in Turchia ne abbiamo paura, ed è una paura molto profonda... Forse per questo solo il nostro inno nazionale turco inizia con la parola 'paura'". Nipote di Cemal Pasa, che fu fra gli esecutori materiali del genocidio, l'autore racconta il proprio percorso di formazione dal negazionismo iniziale al rifiuto della "leggenda nera" sugli armeni. E conclude: "Un domani verrà fuori qualcuno che riporterà in un libro i dolori della sua nonna turca, un altro quelli della sua nonna curda. Lo faccia. Di cosa dovremmo avere paura? Chiunque ha dei legittimi dolori". "È stato un percorso, il suo, difficile e impervio. Ha dovuto affrontare, prima di tutto, la sua stessa pesante eredità famigliare! Ma questo libro è unico per la freschezza inaspettata e persuasiva con cui Hasan Cemal allinea un'antologia impressionante: documenti su documenti, testimonianze, articoli, informazioni di prima mano su ciò che veramente accade oggi in Turchia" (dalla Prefazione di Antonia Arslan).
"Il non aver riconosciuto la propria colpa porta il popolo dei carnefici non pentiti a continuare a odiare i discendenti delle vittime, a cercare di cancellarli ancora, perché la loro memoria è ciò che determina il disturbo profondo della sua identità, ne sporca la storia e la memoria", (dalla Presentazione di Ugo Volli) Dopo il genocidio, quindi, il negazionismo: ancora oggi prosegue la volontà di annientare il popolo armeno, la sua storia, la sua cultura, perfino i suoi monumenti e le sue ultime tracce. Ma se alle vittime è negato dalle autorità turche anche solo il riconoscimento della sofferenza patita, spetta a chi non ha subito quello spaventoso crimine, a una parte terza, fare un atto di memoria e ricordare a tutta l'umanità l'urlo senza fine che arriva dal Metz Yeghérn, il Grande Male. Questo libro è un momento di tale testimonianza, presentato da un gruppo di intellettuali, che vogliono ricordare cosa accadde agli armeni e perché, negando così ai carnefici la vittoria del silenzio.
Il 16 ottobre 1978 fu eletto Giovanni Paolo II. Per la prima volta dopo 455 anni, a guidare la Chiesa cattolica non era un italiano. Rilevante per la storia del cristianesimo, il fatto assumeva valenze geopolitiche per l'origine del nuovo papa: Karol Wojtyla veniva infatti dalla Polonia, fulcro dell'impero sovietico in Europa orientale. In un contesto internazionale caratterizzato dal riacutizzarsi della guerra fredda, l'elezione del papa polacco impresse una svolta decisiva ai rapporti tra i blocchi e il suo paese divenne il crocevia di uno dei cambiamenti più vasti e radicali della storia del Novecento: la fine del comunismo. Dall'elezione di Giovanni Paolo II alla nascita di Solidarnosc, fino alla Tavola rotonda e alle elezioni del 1989, il cui risultato sorprendente diede vita al primo governo non comunista in Europa dell'Est, l'autore ricostruisce i passaggi decisivi di un decennio di storia grazie a una documentazione largamente inedita, frutto di ricerche negli archivi polacchi e di numerose interviste ai protagonisti di quegli anni. "Una rivoluzione senza sangue rappresenta davvero una conclusione positiva per un Novecento tanto insanguinato dalle sue guerre e rivoluzioni. [...] La storia è piena di sorprese - osservava papa Wojtyla. Tra queste non va dimenticata la 'capitolazione docile' dell'URSS all'evoluzione polacca, impensabile fino a poco prima..." (Dalla prefazione di Andrea Riccardi)
"Davanti a tutto quel sangue versato, davanti a quegli orrori, davanti a quella ferocia, davanti a quella violazione della parola data da parte della Francia e dei diritti umani, neppure un grido è uscito dalle vostre bocche, neppure una parola è uscita dalle vostre coscienze, e voi avete assistito, muti e quindi complici, al completo sterminio": con questo atto d'accusa il deputato socialista Jaurès si rivolge al parlamento francese nel 1897. È il suo terzo intervento in difesa degli armeni perseguitati dall'impero ottomano e abbandonati dalle grandi potenze. Egli, come sottolinea Fontana nella sua introduzione, "con la solennità del suo discorso e con la volontà di spezzare le complicità francesi, dimostra che la politica non ha frontiere e che la morale democratica impone la lotta contro la tirannide ovunque essa sia".
Settant'anni orsono, la mattina del 19 maggio 1944, veniva rinvenuto nella casermetta di via Frutaz, ad Aosta, il corpo senza vita del notaio Émile Chanoux, impiccato alle sbarre della finestra della cella dove era stato rinchiuso la sera precedente dai suoi aguzzini. In quel momento Chanoux, leader del movimento resistenziale valdostano, diventava l'eroe delle non mai sopite istanze di autonomia politica e amministrativa della Valle d'Aosta. In realtà, dietro l'eroe si nascondeva uno scrittore politico di assoluto rilievo nel paesaggio del federalismo del Novecento, che individuava nella vocazione all'autonomia e all'autogoverno propria delle comunità territoriali dell'arco alpino l'elemento essenziale per guardare con fiducia all'Europa dei popoli e non degli Stati. Ripubblicare oggi il suo testo "Federalismo e autonomie" rappresenta il modo migliore per rendere omaggio alla sua figura.
Pagliacci e forcaioli, innovatori che non innovano nulla, élite senza patriottismo, un popolo senza speranza, vecchie cariatidi in pista da decine di anni e nuove speranze con poca cultura, tecnici stimati solo all'estero, medicine inutili somministrate agli italiani solo per rabbonire l'Europa... Sono alcuni dei temi trattati da Lodovico Festa e Giulio Sapelli in questo dialogo paradossale, ma niente affatto gratuito, il cui filo conduttore è quanto l'Italia di ieri, quella dei Medici e dei papi rinascimentali, assomigli a quella di oggi, da Tangentopoli a Renzi. Sicuramente è una forzatura estrema comparare il Moro a Cuccia, Giulio II a Napolitano o Carlo V alla Merkel, ma lo è un po' meno commentare i continui sacchi di Roma e l'accettazione passiva del dominio straniero. Per gli autori, la realtà attuale è così disgregata che il paradosso diventa strumento per guardare più a fondo la situazione italiana: a quanto da lontano vengano questioni e tendenze essenziali per la nostra società, e quanto siano ancora valide le riflessioni (contrapposte) di grandi intellettuali come Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini. L'interrogativo finale riguarda tutti: oggi, in Italia, si può sperare in un nuovo Principe (cioè un Nuovo Stato) o si deve, invece, accettare l'opinione antica quanto corrente del: "Franza o Spagna purché se magna"?