Questo volume è la rinnovata edizione di un testo che si svolge in tre momenti: il primo dedicato alla croce, il secondo alla memoria, il terzo alla carità. Invita a ricondurre l'eucarestia alla Croce e la Croce all'Amore, che vi si è rivelato, per arrivare alle origini. Di conseguenza è un invito a ricondurre l'eucarestia alla Chiesa e la Chiesa alla carità, ritrovata nel Corpo dato e nel Sangue sparso, perché avvenga l'epifania dell'amore impossibile, reso possibile da colui che è venuto "non per essere servito, ma per servire e dare la propria vita per la moltitudine".
Alessandro Rivali, poco più che trentenne, è già un poeta inconfondibile, importante. Intatta da ogni cedimento minimalista, o sentimentale, coraggiosa e imprudente, la sua poesia visionaria e sontuosa si staglia con la forza divampante del fuoco eracliteo: le sue visioni di Bisanzio, delle civiltà che sorgono e vengono mutate dal tempo in polvere, la ruota del destino contro cui stoicamente l’uomo combatte propongono una poesia epica, bronzea, dai bagliori poundiani, che pare attingere a certe grandi (e poco o nulla seguite) esperienze poetiche del Novecento, come quella dell’americano Hart Crane (inizio secolo) e del serbo Ivan Lalic (seconda metà del secolo). La poesia nel nodo agonico, amletico tra essere e non essere, lampeggiante di visioni e oscurata da presagi. Originario e presente il conflitto tra luce e buio, tra divenire e sospensione del tempo, appare in turbinose scene di lotta dell’uomo tra destino e divenire, travolto da un’energia spirituale spesso inafferrabile, o non percepita, o fraintesa, come un fuoco fuggente. Attingendo alle fonti della tradizione occidentale Rivali riscopre la storia (Historia), genere letterario e filosofico inventato in Occidente, come pelle, immagine del mito, come la stoffa di cui il mito è tessuto e da cui è tramato per assumere forma visibile. Ispirato dai tragici greci e dal cinema di Kurosawa, antico nella posizione morale ma mai anacronistico, il suo libro riporta nella poesia lirica il brivido dell’avventura e la tormentosa domanda sul destino del mondo, in una perenne ricerca di una luce ulteriore presente ma spesso, nel tempo terreno, inattingibile o offuscata dal turbine degli eventi.
(Roberto Mussapi)
Collezionista d’arte contemporanea sin dalla fine degli anni Quaranta, Giuseppe Panza ha giocato un ruolo fondamentale nella cultura artistica del suo tempo, introducendo in Europa, fra i primi, fenomeni come la Pop Art, il Minimalismo, l’arte ambientale e l’arte concettuale.
La sua attività collezionistica è poi proseguita, con raro rigore, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, ma è stata anche affiancata da una costante ricerca dei contesti più appropriati in cui esibire le opere d’arte: parti coerenti della sua collezione sono così state esposte ed acquisite nelle raccolte di grandi musei d’arte contemporanea, come il MOCA di Los Angeles e il Guggenheim di Bilbao, ma hanno anche trovato collocazione in architetture storiche, come palazzi barocchi e dimore settecentesche, creando un felice ed innovativo dialogo fra contesto ambientale ed opera d’arte.
L’autobiografia attraversa decenni densi di avvenimenti storici e profonde trasformazioni nella cultura artistica su entrambe le sponde dell’oceano. Dagli anni della formazione umana ed intellettuale prima della seconda guerra mondiale ai primi incontri con la cultura americana e con i nuovi protagonisti dell’Action Painting e della Pop Art, dal coinvolgimento con i movimenti d’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta alle più recenti frequentazioni di nuovi protagonisti della scena contemporanea, il racconto di Giuseppe Panza svela, lungo la vita della sua collezione e degli incontri che l’hanno animata, un percorso di appassionata ricerca e insieme di lucida analisi e scelte decise attraverso gli snodi fondamentali dell’arte contemporanea.
L'architettura, l'uomo, l'ambiente: sfide per il XXI secolo
L’architettura si trova oggi a un bivio. Essa può scegliere da un lato di essere strumento - sia esso colto e raffinato oppure brutale e invasivo, ma pur sempre strumento - delle logiche oggi imperanti di consumo del territorio; dall’altro di farsi carico delle sfide aperte per la cura di un pianeta ferito. Solo da poco tempo, infatti, si è affermata una condivisa consapevolezza che non bastano l’estetica, la qualità tecnologica, la razionalità programmatica, di architettura e urbanistica, per salvaguardare l’habitat umano sul pianeta e custodire la vita degli uomini. Conseguente è il diffondersi dell’urgente necessità di comprendere modi e caratteristiche della sostenibilità dei nuovi progetti di architettura e urbanistica. Sostenibilità è oggi parola magica, di cui però risulta ancora troppo fragile il profilo di una efficace, immediata pratica, che esige l’assunzione di un habitus culturale e operativo condiviso. Paolo Soleri è stato ed è tuttora pioniere della sostenibilità. Le sue anticipazioni, di una visione ecosistemica degli insediamenti umani e delle città possibili, costituiscono fervido terreno di incontro e di dialogo di molte discipline. E proprio da un confronto ispirato dal magistero di Soleri nasce questo libro, che chiama studiosi di varia estrazione ma anche architetti di rilievo internazionale, come Renzo Piano e Tadao Ando, a dare la loro voce su questi temi così centrali per il futuro del genere umano più ancora della pratica architettonica.
La rivista che ha forgiato l'idea dell'architettura moderna in Italia: il lavoro delle idee viene qui colto e raccontato nel concreto del laboratorio editoriale di casabella
Negli anni Trenta del Novecento la rivista «Casabella» interpreta, in un difficile contesto storico-politico, la voce della cultura architettonica italiana più attenta alle novità del panorama internazionale contemporaneo e più sensibile al rinnovamento dell’architettura in Italia. A ottanta anni dalla sua fondazione, Rossano Astarita riparte da via Beatrice d’Este 7, sede storica della rivista, per ricostruire di quegli anni tormentati, così fertili e ricchi, non tanto una storia ufficiale, ma una lettura "trasversale" basata sulle testimonianze dirette e indirette di architetti, pittori, critici e letterati che contribuirono da un lato all’affermazione di «Casabella», dall’altro al formarsi di una nuova coscienza architettonica italiana. Ruolo centrale in questo studio è affidato ad Anna Maria Mazzucchelli, segretaria di redazione e redattrice capo della rivista dal 1934 al 1939, figura di riferimento per scambi di lettere e opinioni, richieste di articoli, recensioni, annunci di mostre. Il materiale dell’archivio Mazzucchelli costituisce infatti la struttura portante di questa "microstoria" di «Casabella» e dei suoi artefici, dei quali fa cogliere gli stati d’animo più intimi, quindi più autentici, e posizioni critiche a volte inedite. Il testo, in linea con una metodologia di ricerca che intende la documentazione originale già una scelta storico-critica, consente dunque una nuova lettura di autori e avvenimenti. La stessa ricostruzione del "dietro le quinte" del lavoro redazionale sulla base di appunti autografi e fotografie ritoccate porta a individuare e comprendere il processo di selezione e di fortuna critica di alcune architetture piuttosto che di altre, all’interno di correnti di gusto ben delineate, in modo del tutto analogo a ciò che accade ancora oggi. Il quadro che emerge, lontano dall’offrire una visione unitaria di un percorso che unitario non fu, è quindi il risultato articolato e complesso di punti di vista diversi e intrecciati, e, proprio per questo, coerente con gli umori del tempo e della cultura che racconta.
Lo sradicamento della miseria passa per la riscoperta…della povertà
Perché pubblicare in «Biblioteca Permanente» un dialogo? Perché quando il dialogo fa emergere il sapere e l’esperienza di anni può diventare quel contributo maturo che oggi, causa i panni sempre più stretti e rigidi delle discipline, non si ravvisa in opere dedicate a un singolo campo del sapere. L’ambito di questa conversazione che pesca nella storia del pensiero e nei contributi di varie figure contemporanee riguarda il recupero della povertà come via per sradicare la miseria. Jean Robert è cresciuto alla scuola di Ivan Illich, il suo impegno intellettuale è legato a pratiche sociali. Majid Rahnema è una grande figura ponte tra saggezza persiana e sapere europeo. Il suo pensiero condensa una lunga esperienza del bacino mediterraneo e si compara con le società tradizionali del pianeta. C’è una saggezza e una prassi di vita millenaria che Rahnema condensa come «povertà conviviale». Questa povertà, ma dovremmo dire «la povertà», che è l’opposto della miseria, è il luogo, l’episteme di qualsiasi cultura e civiltà. In un periodo come il nostro, devastato dalla edificazione dei non-luoghi, la potenza dei poveri ravvisa la povertà come brodo di cultura di una vita fatta di legami significativi e di costruzioni accoglienti. Siamo di fronte a una visione antropologica che spazia tra più discipline, mettendole in crisi, in primo luogo quella che si definisce come economia. L’ampio arco storico trattato dal volume, vera storia della povertà e della sua potenza, giunge a figure del presente. La «potenza» della povertà mostra la sua concreta potenzialità in atto nella condizione attuale del pianeta.
La dimensione del sacro nell'orizzonte contemporaneo
«Usciamo da un periodo - quello che i sociologi chiamano della ‘secolarizzazione’ - in cui la religione non era certo morta, però si nascondeva dietro sostituti mutuati dal mondo profano; il culto delle stelle dello spettacolo prende il posto del culto dei santi, le nuove mitologie dei mass media si sostituiscono a quelle delle Chiese antiche (Karl Marx ne aveva già preso coscienza, benché al suo tempo esistesse soltanto il mondo dei giornali); oppure si dissimulava dietro la valorizzazione dell’eroe sacrilego (Prometeo, Icaro, Axion e, con la psicanalisi, Edipo), ma, naturalmente, non c’è sacrilegio senza postulare al contempo un sacro contro cui si lotta. Oggi tuttavia tutti questi surrogati di religione elaborati dalla società dei consumi o dalla psicoterapia analgesica fanno l’oggetto di una contestazione crescente. Allora permettetemi di vedere in queste esperienze di sacro selvaggio, anche se ancora maldestre, la volontà di riprendere il gesto di Mosè quando colpiva con la sua verga - anche se in essa gli psicanalisti vogliono vedere soltanto una verga fallica - il suolo arido per farvi scaturire l’acqua che fa rifiorire i deserti».
Studioso di fama mondiale e prestigioso pensatore, Pierre Teilhard de Chardin si sottrae agli isolamenti disciplinari, come alle correnti che variano a seconda della moda e della pubblicità. Incompreso o assimilato, egli emerge come una figura eccezionale della filosofia e della teologia del XX secolo. Teilhard de Chardin è certamente uno dei grandi pionieri del rinnovamento religioso che segna il nostro tempo e senza dubbio uno dei teologi più importanti per la nuova evangelizzazione. Fondata su una conoscenza esaustiva dei testi di padre Teilhard e della sua vasta corrispondenza, quest’opera mette in luce, con precisione e chiarezza, quello che l’autore considera come la via privilegiata del suo cammino intellettuale e spirituale: la ricerca di Dio. Perseguita appassionatamente per tutta la vita, essa costituisce un’esperienza di prim’ordine. Grazie alla profondità della sua analisi e alla ricchezza della sua sintesi, essa arriva a toccare l’universale. Il suo percorso rimane dunque esemplare per l’uomo della modernità. La sua analisi del fenomeno religioso, considerato come parte integrante del fenomeno umano, ha condotto padre Teilhard a prevedere non solamente il ritorno del religioso, ma soprattutto il ritorno di Dio nella coscienza degli uomini del XXI secolo. Dio non è morto. Egli è ritornato.
Un'opera fortemente innovativa che intreccia storia dell'arte, politica e religione
Nel mondo bizantino la Vergine Maria incarnava il potere piuttosto che la tenerezza materna. Conosciuta come la Madre di Dio, divenne garante della vittoria militare e quindi dell’autorità imperiale. In questo libro pionieristico, Bissera V. Pentcheva collega la fusione di culto mariano e ordinamento imperiale con i poteri attribuiti alle immagini di questa donna Tutta Santa. Attingendo a una gamma di fonti e immagini, da monete e sigilli a mosaici monumentali, Pentcheva dimostra che uno slittamento fondamentale dalle reliquie alle icone nel culto bizantino avvenne verso la fine del X secolo. Inoltre, l’autrice mostra come le processioni attraverso la città di Costantinopoli fornissero il contesto nel quale le icone mariane si presentavano quali colonne portanti delle richieste imperiali di protezione divina. Pentcheva apre nuove strade sostenendo che la devozione alle icone mariane dovrebbe essere considerata uno sviluppo posteriore a quanto generalmente si presume. Questa nuova prospettiva ha importanti implicazioni non solo per la storia del rituale imperiale, ma anche per la comprensione della creazione di una nuova iconografia mariana nel corso del XII e XIII secolo. Centrato su questioni fondamentali di arte, religione e politica, Icone e potere fornisce un contributo significativo all’intero campo degli studi medievali. L’opera sarà anche di grande interesse per tutti coloro che si occupano del culto di Maria nelle tradizioni cristiane in Oriente e in Occidente.
Dall'intreccio di ospitalità e interrogazione filosofica, nasce una "filosofia quotidiana" rivolta al presente
L’opera di Jean Soldini delinea una metafisica alimentata da un’estetica dell’ospitalità come "filosofia quotidiana", resistenza all’arroganza mai debellata nei confronti dell’esistente concreto e meticcio. C’è il lavorìo speculativo e il continuo rilancio proprio dell’attività teoretica, nonché il controllo sui confini entro cui essa si muove, l’allerta sulle condizioni del proprio pensare. C’è ugualmente il proiettarsi con urgenza sulle questioni dell’oggi, aspetto che in quest’ultimo libro appare ancora più marcato. Il registro speculativo e quello attento alla realtà feriale s’intrecciano costantemente: è un calarsi della filosofia nei temi e nelle impellenze del nostro contesto attuale, un piegarsi verso il "basso" della ragione teoretica, una postura intellettuale volutamente spuria nel rigore del suo impianto concettuale. Bisogna lasciarsi guidare, dice Soldini, verso l’ineleganza di una filosofia che, senza nascondersi in modo parassitario dietro qualche grande tema, senza farsi assetata di giudizio, non sfugga al giudizio guardando all’uomo oltraggiato in questo stesso momento nella sua faccia personale e a-personale, all’uomo a cui compete la ricerca di ospitalità indispensabile alla stessa salvaguardia del pianeta, all’uomo la cui dignità è affermata in modo altisonante, ma troppo spesso svuotata di ogni significato preciso. La filosofia comporta il fare concetti e i problemi in relazione ai quali li costruisce hanno a che vedere con la vita concreta di ognuno di noi, con la dimensione "politica" in cui ci muoviamo, con la Storia che è storia del potere e delle sue metamorfosi in cui resistere valorizzando le storie vissute con l’esistente, disponendosi a microerranze "domestiche", a spazi di un reciproco esporsi, deprivatizzando il palcoscenico della propria coscienza e aprendo varchi alla giustizia per l’Altro.
Il messaggio dell'antropologia: l'identità e i suoi confini sono costantemente rimessi in gioco
Comunità, società e cultura sono figure chiave che, nella compenetrazione reciproca, portano alla definizione dell’identità. Attraverso l’analisi di tre casi, la tribù dei Baruya (Papua Nuova Guinea), la popolazione dell’isola di Tikopia e la nascita dell’Arabia Saudita, l’autore risponde alle domande riguardanti le modalità di insorgenza nella storia di una società e i rapporti sociali che definiscono e trasformano quel Tutto di cui gli esseri umani sono naturalmente parte. In primo luogo, Godelier osserva che né i legami di parentela, né i modi di produzione hanno un ruolo fondamentale nella nascita di una società o Tsimia, come direbbero i Baruya, la cui fondazione è invece sempre legata a rapporti politico-religiosi. Non bastano dunque una comunanza di cultura e memoria (etnia, lignaggio) a costituire una Tsimia, la quale è intrinsecamente legata al territorio – o Stato – che le assicuri l’esercizio della propria sovranità, senza un’ingerenza esterna. L’avvicendarsi di descrizioni e immagini della storia dei popoli diventano mezzo e luogo per conclusioni teoriche: l’identità, definita come il cristallizzarsi all’interno di un individuo di rapporti sociali e culturali accettati o rifiutati, emerge come costantemente «in conflitto », poiché sempre vincolata a eventi esterni che obbligano a rimettere in gioco se stessi e il proprio rapporto con gli altri. Nelle pagine conclusive del libro, Godelier espone un’apologia dell’antropologia, considerata come una disciplina indispensabile per la comprensione della realtà globale che ci circonda, poiché la vita degli individui, insegna l’autore, si mescola a quella delle loro società.
Uno tra i massimi studiosi del medioriente ribalta stereotipi e luoghi comuni su Islam, fondamentalismo e politica
Che cos’è il «Medio Oriente»? Come possiamo descrivere e capire la sua gente, la sua politica e le sue società? È intrinsecamente differente dall’«Occidente»? Considerato che l’intera regione si trova sull’orlo di un conflitto settario, tali temi richiedono oggi più attenzione che mai. In questa nuova edizione aggiornata di un’opera che è diventata un testo chiave per chiunque voglia comprendere la regione, Sami Zubaida sbroglia alcuni degli elementi che definiscono il Medio Oriente nell’immaginario popolare: i movimenti religiosi radicali quali i Fratelli Musulmani, le dinastie autoritarie come i Sa‘ud, i demagoghi antioccidentali come l’iraniano Mahmud Ahmadinejad. In questo lavoro innovativo l’autore mostra come, lontani dall’essere le espressioni di un carattere «imprescindibile» di una certa regione «islamica», elementi simili siano invece il prodotto di una serie di processi storici, culturali ed economici. Sottolinea le diversità culturali, storiche e religiose della regione, e critica in maniera convincente l’utilizzo del prisma dell’Islam per osservare questi fenomeni. Sostiene che movimenti come Hezbollah e Hamas non siano un rifiuto della modernità, quanto piuttosto una parte di essa. Infine, in un nuovo capitolo, esamina a fondo l’«islamizzazione» della regione che si sostiene essere avvenuta negli ultimi anni, argomentando che un aumento superficiale dei simboli religiosi nella vita pubblica mascheri un processo di secolarizzazione assai più sostanziale e irreversibile.