Il volume raccoglie gli interventi di Giovanni Colombo al Vaticano II e tutta una serie di suoi discorsi e conferenze nel postconcilio. Vi appaiono anzitutto le Lettere, che dal 1963 al 1965 l'arcivescovo, presente al Concilio, inviò agli Ambrosiani per illustrarne e commentarne i lavori, i dibattiti e i documenti. La chiarezza della rievocazione e la finezza dei giudizi, non discompagnata da una contenuta emozione, fanno di questo epistolario una delle più vive e mature testimonianze di quell'evento, e tuttora una guida sicura per comprenderlo. Gli altri scritti editi nel volume, e scelti tra quelli più significativi, attestano l'intenso impegno di Colombo sia a spiegare il senso esatto dei testi del Concilio e a rilevarne con puntuali precisazioni i non rari e diffusi fraintendimenti, sia a orientarne e a determinarne la giusta e illuminata applicazione. In questa linea egli tratta di vari temi - come la Chiesa, la liturgia, la teologia, il laicato, la cultura, l'arte, il lavoro, la pastorale -, richiamando la lettera e lo spirito del Concilio alle varie categorie di persone, dai medici agli operatori economici, dagli artisti ai religiosi. L'arcivescovo di Milano sa comporre un coraggioso e prudente rinnovamento e una ferma fedeltà alla tradizione: mentre non si lascia confondere o incantare da avventurose e deleterie novità, non rimane tuttavia ancorato in forme antiche felicemente superate dal Vaticano II.
In incalzanti capitoli, che spaziano dagli anni Venti e Trenta fino agli anni Ottanta e Novanta, si delineano le vicissitudini di una terra di frontiera, ai confini di Afghanistan e Cina, nella difficile e fragile convivenza dei vari popoli pur sotto la "normalizzazione sovietica" e nella guerra civile che dopo il crollo dell'URSS ha dal 1992 e per cinque anni contrapposto, in Tagikistan, nomenklatura comunista e forze nazionaldemocratiche e islamiche, per poi diventare una cruenta guerra di etnie e clan. Tale guerra ha devastato l'intero Paese e inferto innumerevoli lutti alla popolazione, costringendo in particolare molti russi assimilati, arrivati tre o quattro generazioni prima al seguito dell'Armata Rossa conquistatrice, a un esodo biblico verso la Russia: una patria tutta da ritrovare, che non conoscevano e non li accettava. Churramabad-Dusanbe, capitale reale e mitica, è l'emblema di una vita possibile sognata, serena e felice o piuttosto della crudeltà scatenata e dell'angoscia senza scampo? Attraverso vicende di grande sapienza narrativa, ne percorriamo le vie saccheggiate e insanguinate, insieme a tanti personaggi russi e tagiki, di nulla colpevoli se non di voler esistere e amare e nostalgici, sempre, degli impervi sentieri della fratellanza umana, con lo sguardo volto alle vette e alle nevi eterne delle montagne, cercando sollievo all'esasperazione di una vita sopraffatta da ingiustizie e prevaricazioni vecchie e nuove.
La città è uno dei modi, il modo urbano, che l'uomo ha, e ha avuto, di appropriarsi e profittare ai propri fini insediativi dell'uso del suolo. Ve ne sono stati, e tuttora ve ne sono, altri. Ma, a sua volta, il termine "città" ha significati differenti a seconda delle civiltà e della fase storica cui ci si riferisce. Qui si fa riferimento alla "città occidentale", e al suo divenire nel tempo nelle molte e pur differenti aree geostoriche nelle quali essa è apparsa e si è imposta. Intendendosi per "occidente" non certo il limitato ambito geografico e nemmeno i contesti sociologici suggeriti da quel termine; dando invece a quel concetto un significato assai più ampio e, per certi versi, convenzionale e simbolico. E cioè la sedimentazione del divenire di fasi ed esperienze di quell'omogeneo e omologato sistema, fatto di forme insediative, di pensiero, di forme culturali e artistiche, di stili di vita, cui oggi alludiamo quando parliamo di "occidente". In questo volume l'argomento viene tratteggiato a partire dal modo con il quale il concetto "città" compare nei testi biblici e nelle leggende mesopotamiche, e dalle forme in cui esso si è poi storicamente materializzato e sviluppato sino alla fine (1492 d.C.) di quella fase che per convenzione storiografica viene indicata come Medioevo. Con due ulteriori specificazioni. La prima è quella che attiene alla partizione dell'impero romano nelle due sue rispettive parti di oriente e di occidente.
L'intreccio di voci qui adunate intorno all'idea di un cantiere dello sperimentalismo i cui contorni appaiono in continua ridefinizione trova in Juan Rodolfo Wilcock, Giorgio Manganelli e Giuliano Gramigna la misura di una visione sagace e spiazzante dell'arte e dei suoi processi. Ciascuno di loro organizza le proprie risorse tecniche in sintonia con i codici del rinnovamento riconducibili al fronte sperimentale e ai suoi maestri (da Joyce a Gombrowicz, da Beckett a Borges). Le poetiche della menzogna, della deformazione e del grottesco sono messe al servizio di una poderosa operazione di smantellamento dell'edificio letterario consegnatoci da una tradizione compromessa con vecchi schemi di rappresentazione e di elaborazione estetica. La destrutturazione dei generi e delle forme (caso esemplare la ripresa destabilizzante del giallo da parte di Malerba) investe con la sua libertà epistemologica gli assetti dell'ordinamento culturale novecentesco. Si è ritenuto quindi di affiancare alla prospettiva ravvicinata degli autori esaminati nella prima parte una trattazione di natura tematica: la deriva apocalittica imboccata dall'umanità negli anni Sessanta e Settanta offre infatti il risvolto sociologico delle pulsioni distruttive dei fautori del rinnovamento. Oltre la diroccata "barriera del naturalismo", prose disseminate e romanzi "disastrati" si configurano in moduli di marca sperimentale e metaromanzesca dispiegando la propria energia entro un sistema testuale...
L'immagine della teologia nel medioevo è ricca e variegata. Lo mostrano ampiamente e con analitica documentazione le ricerche di Jean Leclercq - lo specialista di Bernardo di Clairvaux, l'"inventore della teologia monastica" -, che qui pubblichiamo col titolo "Il pensiero che contempla". Senza dubbio in questi lunghi secoli medievali, sotto l'influsso dell'idea aristotelica di sapere, la teologia viene ideata, elaborata e insegnata come "scienza"; è però viva la persuasione che non si tratta di una scienza come le altre. "Essa è una 'scienza divina', una 'dottrina di pietà', una 'sapienza', e insegnarla è un'opera che la Chiesa esercita per la salvezza degli uomini, mediante certi suoi ministri: i dottori", dediti, con tutto l'impegno della loro vita, a "mettere al servizio della Chiesa tutte le acquisizioni dello sforzo intellettuale del loro tempo". Il teologo è chiamato doctor Ecclesiae ed è destinato a ricevere nell'eternità, come ricompensa del suo studio e del suo insegnamento, appunto l'"aureola di dottore". Ma, se il medioevo risalta e si distingue per la concezione scientifica o speculativa della teologia, non meno prosegue in esso la tradizione patristica e monastica, e Jean Leclercq lo prova delineando con acuta e brillante interpretazione la dottrina di Tommaso d'Aquino - lo "speculativo" per eccellenza - relativa alla vita contemplativa nella sua "Summa Theologiae". La sostanza e la linfa della dottrina dell'Angelico provengono largamente da Gregorio Magno.
"I pilastri cui si riferiscono questi testi non sono elementi architettonici concreti, come succede spesso nelle religioni popolari in Europa o con lo stupa nel Buddhismo. Il termine "pilastro" ricorre in altri contesti nel Giudaismo, come il "pilastro della preghiera". Nell'ambito delle nostre discussioni, comunque, il pilastro è interpretato in due modi. Esso viene proiettato nei reami trascendenti, come il paradiso, e percepito in certe forme di esperienza omiletica immaginaria, oppure viene identificato con il giusto, con il corpo della persona che esegue i riti o le tecniche che la trasformano in una figura pontificale. Immaginari o concreti che fossero, questi pilastri hanno ispirato le vite, i sogni e le aspirazioni di molti Ebrei, e un senso di trascendenza personale, di toccare mondi più alti, ha dato forma alle loro esperienze e al loro adempimento di atti religiosi." (Dalle "Osservazioni finali")
Vi è oggi una via della medicina cinese che va ritrovando nel mondo l'antica sacralità che le è propria. Il medico, l'agopuntore, ritrova così il coincidere delle funzioni di scienziato e di filosofo, di persona pia, e attraverso il compendio cinese si scopre riunito secondo le proprie regionalità alle radici culturali da cui proviene, finalmente se stesso. La vera medicina cinese è nuova antica via, calata nell'odierna realtà culturale e sociale, plasmata nell'ideazione e nell'elaborazione sviluppate secondo i modi e i modelli tradizionali, forgiata nella concretezza, nella correttezza, dalla fiducia e dalla certezza, radicata nel fertile terreno culturale cinese, sua verde odierna globalizzata fronda, fiore, bocciolo. Scienza di connotazione a un tempo logica e sovralogica, esperienziale nella pratica, correlata filosoficamente alla teoria generale dei sistemi, in deferente ascolto dell'armoniosa voce dei maestri, è solidamente ancorata alla mistica occidentale oltre che orientale. La rivisitazione degli antichi e dei recenti percorsi della medicina cinese sviluppata da Moiraghi nei volumi che ha dedicato alla vera medicina cinese, e specie in questo in cui il naturale raffronto considera l'odierna rigida scena cinese e il grave scenario planetario che ne viene, può anche aiutare a pervenire alla risoluzione del problema sull'agire medico, che in tutti i tempi deve basarsi tanto sulla conoscenza scientifica quanto sull'ethos umanitario.
Contributi di: Armogathe, Bruguès, Cazzago, Coutagne, Crippa, Dalmasso, Lafforgue, Marion, Petrosino.
Il 16 ottobre 2010 a Buenos Aires, nella XIII Giornata di Pastorale Sociale, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, futuro papa Francesco, ha tenuto il discorso da cui è nato il libro "Noi come cittadini noi come popolo". Si tratta di un discorso diretto a tutti, ma Bergoglio si rivolge esplicitamente ai governanti. L'Argentina è un grande Paese che in quell'occasione iniziava a festeggiare i 200 anni della sua indipendenza. L'Argentina veniva dalla catastrofe della dittatura e dalla crisi economica dell'inizio del XX secolo. Questo testo, rivolto anzitutto al suo Paese e ai suoi governanti, è premonitore della responsabilità che papa Francesco ha assunto di fronte a tutto il mondo. Non c'è piena cittadinanza senza giustizia e ricerca del bene comune, non c'è giustizia se non c'è cosciente solidarietà col popolo, non c'è un popolo se un Paese non riscatta i poveri: "Non possiamo ammettere che si consolidi una società duale". Presentazione di Mario Toso.
Il volume racconta il confronto tra la politica costantiniana, la tradizione imperiale romana e le grandi tradizioni religiose mediterranee. Nel tessuto della città antica a lungo le appartenenze religiose si erano sovrapposte e intrecciate, con scambi fecondi e convergenze inattese. Vi prendevano parte piena anche i fedeli cristiani, sempre più numerosi. Quando sancì la pace religiosa, Costantino scelse il Dio cristiano come protettore dell'impero e garante della coesione sociale. Non volle sottomettergli a forza gli altri culti e fedi poiché pensava che nella concordia e nel tempo tutti si sarebbero convinti della sua verità. Governò i culti tramite la legge e cercò netti confini nella dottrina e nella pratica tra le diverse comunità religiose. Il suo progetto fu in parte assecondato e in parte contrastato da cristiani, pagani ed ebrei. Del precario equilibrio di antico e di nuovo realizzato in quei decenni restano testimonianze evidenti nelle immagini auliche e di uso comune negli interventi urbanistici e architettonici dell'imperatore a Roma, Costantinopoli e Gerusalemme. Il mondo costantiniano durò poche generazioni. L'esigenza delle autorità cristiane di definire in modo certo l'appartenenza dei fedeli, la loro volontà di affermare la propria libertà dal rapporto imperiale e la mancanza di imperatori della levatura politica e culturale di Costantino, in grado di governare la complessità religiosa, ne causarono la fine.
Un progetto di umanesimo moderno è effettivamente esistito nel secondo dopoguerra, oppure l'attribuzione della qualificazione di umanistica all'architettura moderna di quel periodo è in realtà propria della storiografia più recente, a noi contemporanea? Il quesito, sotteso a questo studio, consente di costruire percorsi che si svolgono fra scritti sull'architettura di circa due decenni, quando lo sguardo critico verso il passato si focalizza soprattutto sul Quattrocento e sulla sua capacità di rifondazione culturale della società attraverso le arti. Senza cadere nella riproposizione formale e anacronistica di modelli del passato, gli architetti confermano, in questa stagione, la loro opzione per la modernità nella tensione a valori fondanti di una filosofia umanistica. I principi di un nuovo umanesimo trovano allora possibilità di esprimersi in una progettualità che riesce a evidenziare il primato del metodo, il proprio ruolo didattico e le ragioni culturali e sociali dell'architettura europea.