"Consulente per il film "Des hommes et des dieux" di Xavier Beauvois, uscito in Italia con il titolo "Uomini di Dio", Henry Quinson ritorna su quella avventura cinematografica difficilmente classificabile la cui eco ha toccato il mondo intero. Perché questo film sui monaci di Tibhirine uccisi in Algeria nel 1996 ha avuto così tanta risonanza al festival di Cannes 2010 (gran premio della giuria), poi presso un ampio pubblico (oltre 5 milioni di spettatori nelle sale), consacrato infine dal premio César 2011 quale miglior film in Francia? Com'è nato il progetto? Quali intenzioni muovevano lo sceneggiatore Etienne Comar e il regista Xavier Beauvois? Come si sono calati nei loro ruoli attori come Lambert Wilson e Michael Lonsdale? Henry Quinson ha partecipato a tutte le fasi del film. Attraverso le loro pieghe, ha potuto penetrare il segreto degli dei, che rivela anche il segreto degli uomini. Questo racconto inedito, intriso di humour e sensibilità, è ben più che un making of, un "dietro le quinte" o una semplice analisi artistica. Un film è una cattedrale, opera collettiva di esseri animati dallo Spirito. Qual è questo Spirito che ha travolto cristiani vicini alla esperienza monastica di Tibhirine come pure atei intrisi di umanesimo e di umanità?" Prefazione di Xavier Beauvois.
Prendendo spunto dalle prestigiose Gifford Lectures, tenute nel 1989 con il titolo "La dimora del Divino nel mondo contemporaneo. La Trinità indivisa", "Il ritmo dell'Essere", alla cui stesura Panikkar si è dedicato per vent'anni, è considerata la sua opera più importante nel campo filosofico. Il tema di base è la struttura triadica o trinitaria della realtà, che comprende il Divino. l'Umano e il Cosmico. Questa prospettiva cosmoteandrica rappresenta un punto di unione fra cristianesimo, induismo e buddhismo. Nel descrivere la sua opera, Panikkar afferma: "Non sto cercando di dire qualcosa di nuovo. Non voglio contribuire alla alienazione prodotta dalla ricerca ossessiva di novità. La mia originalità, ammesso che esista, sarà quella di andare alle origini - non per fare archeologia o formulare interpretazioni anacronistiche [...], ma per propormi come cacciatore-raccoglitore dei nostri giorni, piluccando frammenti di vita dallo stupendo campo dell'esperienza umana sulla Terra". Alla fine, tuttavia, egli ammise i limiti nel raggiungere una tale grandiosa sintesi. Il capitolo nono, che riguardava la consumazione escatologica finale di tutta la realtà, fu omesso dall'autore e sostituito da un breve epilogo commovente in cui egli scrive: "Ho dovuto ammettere che le questioni ultime non possono avere risposte ultime, ma, se non altro, possiamo essere consapevoli del problema che abbiamo presentato. Ho raggiunto i limiti della mia comprensione, e qui mi devo fermare.
Sante, prostitute, regine, nobildonne, guerriere, religiose, rivoluzionarie, madri, mogli, suore; ecco il panorama variegato e molteplice di cui si compone questo libro attraverso i lunghi secoli del Medioevo. Una galleria di donne le più diverse, certo però tutte legate dalle loro eccezionali personalità, sono quelle di cui si raccontano la vita, gli amori, la storia, ma soprattutto i viaggi. Il loro andare alla ricerca della fede o al compimento di un voto, il loro andare verso i luoghi santi costituisce la trama di esistenze avventurose e spesso pericolose davanti alle quali nessuna di esse si tirò indietro; forse sarebbe più opportuno dire: potè mai tirarsi indietro, perché quello che accomuna queste pellegrine viaggiatrici, di molte epoche, paesi e caratteri diversi, è che spesso la ricerca dei luoghi santi, vicini o lontani che fossero, era in realtà un modo per cercare di colmare un vuoto che eventi traumatici avevano causato nelle loro vite, come del resto accade anche per le persone più normali e comuni. Ecco allora l'ostessa che, divenuta Augusta Imperatrice, deve farsi perdonare un oscuro passato, le grandi matrone che perdono marito e figli, la borghese che non riesce ad adattarsi alla vita coniugale, le prostitute che si redimono, la grande contessa che fallisce sempre con i matrimoni e che non avrà figli, la fanciulla insidiata che deve abbandonare casa e genitori.
C'è chi - come Giacomo Biffi - ha definito questi saggi - "un ritratto ineccepibile e persuasivo" della "personalità eccezionale", qual era quella dell'arcivescovo che era succeduto a Schuster e a Montini sulla cattedra di sant'Ambrogio e vi aveva esercitato soprattutto l'illuminato magistero della parola; un ritratto "dove tutto si dice e niente si nasconde, dove non si teme di esaltare le luci (anche se siano luci che non incontrino il gusto della mentalità oggi dominante) e non si tacciono furbescamente, se ci sono, né le zone d'ombra né i tratti opinabili". C'è un tratto caratteristico che contrassegna queste ricerche minute e accurate, ed è che si intrecciano con la testimonianza personale consentita all'autore dall'assidua frequentazione di Colombo fin dagli anni dell'adolescenza, durante la sua formazione nel seminario di Venegono, dov'era educatore affascinante e ammirato lo stesso Colombo, già docente insigne e rinomato di letteratura italiana. Da allora i contatti proseguirono fino alla tarda età del cardinale e al suo ritiro sorprendentemente splendido e operoso.
Nel romanzo della sua gioventù, carico di atmosfere universitarie sullo sfondo di una Bucarest segnata dal ritmo delle stagioni, Mircea Eliade si racconta come un ragazzo guidato da un profondo e intransigente furore di conoscenza, spietato osservatore della comunità studentesca in cui è immerso e con cui pure interagisce attivamente. Non sappiamo quanto di questo carattere esasperato corrisponda alla personalità storica del giovane studioso, o ne sia la parossistica rappresentazione; Eliade scrive un romanzo, creazione letteraria volta vampirescamente a succhiare il sangue del reale. Ed egli è già scrittore a tutto tondo in queste pagine, che seguono la saga scolastica narrata ne "Il romanzo dell'adolescente miope" (Jaca Book, 1992), dotato di una qualità affabulatoria che doveva essergli propria anche nella comunicazione orale e già capace di mettere in scena gli sconfinati campi del sapere che andava sondando, trasformandoli in materia narrativa. Ciò sarebbe avvenuto in maniera insospettabile nella sua successiva produzione letteraria, segnata dal fantastico e dal misterioso senza che il registro realistico fosse mai del tutto abbandonato. Scritto da un Eliade ancora giovane nella sua Bucarest sul finire degli anni Venti, questo romanzo restituisce alla perfezione la tensione estrema che precede lo slancio verso la vita, l'irrequietudine di scelte ancora da fare, l'attesa prima del viaggio con cui infatti si chiude il libro.
La centralità di Roma, il suo ruolo fondamentale per gli svolgimenti della cultura di età gotica in Italia, la sua funzione di melting pot tra il nord Europa e il Mediterraneo, e infine il suo peso per la "rivoluzione del 1300" e per la formazione di Giotto: sono i temi che motivano la discussione sul Duecento romano, il secolo che ha visto più novità e scoperte durante il Novecento, e che continua in questi anni ad apparire come una sorta di inesauribile vaso di Pandora, la cui abbondanza speriamo di mostrare in questo volume.
L'attenzione portata alla circolazione europea delle grandi correnti artistiche e quella dedicata alle varie espressioni delle "arti minori" costituiscono la struttura di questa sintesi dell'arte medioevale, che copre un arco temporale che va dal IV secolo alla prima metà del XV.
"La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un'apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. [... ] Cos'è un uomo senza la forma che lo segna, che lo circonda come corazza inesorabile e che tuttavia lo rende malleabile, libero da qualsiasi insicurezza e dallo sgomento che inceppa, libero per se stesso e per le sue possibilità più alte: cos'è l'uomo senza tutto ciò? Cos'è l'uomo senza forma vitale, cioè senza forma che egli abbia scelto per la sua vita?..." (dall'introduzione)
Il tratto comune che innegabilmente emerge da questi scritti è quello di formare un'unica riflessione attorno alla questione della fede nei tempi moderni. Pierre Teilhard de Chardin scavalca i dibattiti tra spirito laico e spirito religioso. Il mistero dell'Incarnazione, mistero dell'amore di Dio, dà luce alla stessa evoluzione del cosmo e ogni uomo partecipa alla sua realizzazione. Il discorso paolino dell'Areopago trova in Teilhard un nuovo abbrivio dopo duemila anni di cristianesimo e di evoluzione del pensiero umano. I cinque testi qui riuniti fanno parte di un'ampia raccolta, "Ecrits du temps de la guerre", nella cui prima traduzione italiana (intitolata La Vita cosmica, Il Saggiatore, Milano 1971), era stato escluso il penultimo di essi, "Per una nuova evangelizzazione del nostro tempo". Questi Scritti presentano caratteristiche sorprendenti, data l'età relativamente ancora giovane di Teilhard e la già chiara impronta del suo pensiero: "La sostanza fondamentale in seno alla quale si modellano le anime, l'ambiente superiore in cui evolvono, il loro speciale Etere (se così si può dire), è la trascendente e tuttavia immanente Divinità nella quale viviamo, ci muoviamo e siamo. Dio è alla nascita, nella crescita e al termine di tutte le cose, senza peraltro mescolarsi né confondersi per nulla con l'essere partecipato che regge, anima, tiene insieme. Di conseguenza tutto vive e si eleva, tutto è uno in Lui e per mezzo di Lui...". Prefazione di Luciano Mazzoni Benoni.
"Non si riesce a comprendere nulla della natura del denaro e delle mirabolanti capovolte che l'uomo compie attorno ad esso se non si passa dal modo d'essere di un soggetto che desidera ciò di cui non ha bisogno e che manca di ciò rispetto a cui non ha mai un sapere chiaro e distinto". Attraverso la lettura di Kafka, Kojève, Simmel, Heidegger, Lacan, Lévinas, una folgorante analisi delle ragioni che portano il soggetto a trasformare un mero strumento in quel fantasma vorace di fronte al quale ogni identità evapora e ogni volto si sfigura. Uno strumento utile per comprendere e smascherare l'inganno per eccellenza del nostro tempo.
Due narrazioni si intrecciano in questo libro, separate dai secoli ma unite da un luogo, i Balcani, e da un tema, l'identità. La prima e più importante dispiega la grandiosa vicenda storica del pascià Mehmet Sokollu, alias Bajica Sokolovic, giovane serbo strappato alla sua terra per essere formato nelle file dell'alta burocrazia dell'Impero ottomano, fino a diventarne gran visir al servizio di Solimano il Magnifico. La seconda narrazione ha inizio in una località termale in Bosnia verso la fine degli anni Settanta del XX secolo e mette in scena lo scrittore stesso, spesso accompagnato dall'amico Orhan Pamuk, e le sue riflessioni intorno ai concetti di nazione, di confine, di fede e, soprattutto, di identità, stimolate e quasi evocate dai vapori di un bagno turco proprio al gran visir intitolato. Serbo e turco insieme quest'ultimo, cristiano ortodosso e infedele suo malgrado, protagonista di una straordinaria ascesa ai vertici dell'Impero ottomano di cui avrebbe retto le sorti per lunghi anni, e intimo amico di un altro grande straniero cristiano al servizio del sultano (questa volta greco), Sinan, il più grande architetto islamico di tutti i tempi. Così la vicenda storica rivela allo scrittore il debito iniziale di ogni identità, storica, culturale ma anche personale, la permeabilità di ogni confine - quale terra più dei Balcani può esserne testimone?
"Guardate come si amano", è stato detto dei cristiani nel corso dei secoli, malgrado il peccato e le infedeltà sempre presenti. Probabilmente l'unica identità costitutiva dei cristiani è quella incentrata sulla carità, intesa come atto indiviso di amore per Dio e per i propri fratelli. In che cosa consiste questo amore, come lo abbiamo manifestato, in che modo sono esistiti questo sentimento e questo comportamento nel corso del nostro lungo cammino? In che maniera possiamo esaminare e spiegare la vita della Chiesa con l'occhio e attraverso il prisma dell'amore, questo nuovo modo di accostarci alla sua storia? In questo volume si ripercorre la storia della carità lungo duemila anni di vita cristiana, a partire dalle prime comunità, passando per i grandi fondatori delle istituzioni ecclesiastiche e i martiri della carità e della giustizia, soffermandosi soprattutto sugli innumerevoli cristiani anonimi che, grazie al loro amore e alla loro generosità, hanno fatto sì che la Chiesa divenisse una comunità solidale, compassionevole, fraterna, che vive nella speranza. Sono essi, più di tutti, ad aver realizzato l'annuncio di Gesù ai discepoli: "Dai loro frutti li riconoscerete".