Israele viene solitamente descritto come un'isola democratica in mezzo a un oceano oscurantista e Hamas come un esercito di belve assetate di sangue. La storia sembra tornare al XIX secolo, quando l'Occidente perpetrava genocidi coloniali in nome della sua missione civilizzatrice. I suoi presupposti essenziali rimangono gli stessi: civiltà contro barbarie, progresso contro intolleranza. Accanto alle dichiarazioni di rito sul diritto di Israele a difendersi, nessuno menziona mai il diritto dei palestinesi a resistere a un'aggressione che dura da decenni. Ma se in nome della lotta all'antisemitismo viene scatenata una guerra genocida, sono i nostri stessi orientamenti morali e politici a offuscarsi. A uscirne minati sono i presupposti della nostra coscienza morale: la distinzione tra bene e male, oppressore e oppresso, carnefici e vittime. L'attacco del 7 ottobre è stato atroce, ma deve essere analizzato e non solo condannato. E dobbiamo farlo chiamando a raccolta tutti gli strumenti critici della ricerca storica. Se la guerra a Gaza dovesse concludersi con una seconda Nakba, la legittimità di Israele sarebbe definitivamente compromessa. In tal caso, né le armi americane, né i media occidentali, né la memoria distorta e oltraggiata della Shoah potranno riscattarla.
La superficie del nostro pianeta è segnata da innumerevoli confini. Alcuni sono naturali, altri sono legati all'opera dell'uomo, marcati da frontiere, muri e barriere. Accanto a questi, ne esistono molti altri che sono meno scontati e tanto sottili da risultare quasi invisibili. Sono quelle linee che separano, dividono, porzioni del nostro mondo a vari fini: dividono popoli, custodiscono identità e culture, sono capaci di generare tensioni e conflitti anche molto gravi. Il geografo Maxim Samson esplora trenta di queste linee invisibili: dalle correnti artiche o la 'cintura della malaria' a quelle che abbiamo segnato per circoscrivere gli effetti delle nostre azioni, come la 'zona rossa' di Cernobyl o i cordoni sanitari del Covid. O ancora: le linee utilizzate per reclamare territori contesi, come quelle nella ex Jugoslavia o tra le gang di Los Angeles, o quelle che servono a definire e difendere le diverse identità, come il Bosforo, gli Urali o la 'Bible Belt'. Queste linee compaiono raramente sulle nostre mappe fisiche e politiche, ma sono ugualmente rilevantissime in qualche parte del mondo perché segnano un qualche tipo di divisione tra un 'noi' e un 'loro'. Questo libro è una guida per osservare e comprendere il nostro pianeta in tutta la sua consistenza e in tutto il suo disordine.
Dalla xylella al granchio blu, negli ultimi anni si parla sempre più spesso di specie aliene. Per la verità, è da tempi remoti che noi umani trasportiamo piante, animali e altri organismi al di fuori dei loro ambienti originari. È un fenomeno antico, che ha arricchito la nostra vita, ad esempio diffondendo in Europa alimenti come il pomodoro o le patate. Ma è quando l'arrivo di una nuova specie incrina gli equilibri naturali che iniziano i problemi. Al di fuori del loro habitat, alcune specie aliene possono infatti diventare invasive, con effetti molto gravi sugli ecosistemi. E anche su di noi. Lo sanno bene i pescatori dell'Adriatico, che hanno visto gli allevamenti di vongole decimati dal granchio blu. Con la globalizzazione sono queste 'invasioni biologiche' a essere aumentate, fino a diventare una delle principali minacce alla biodiversità, responsabili di un numero impressionante di estinzioni. Quali misure dobbiamo adottare per prevenirle? E cosa può fare ciascuno di noi? Piero Genovesi, uno degli scienziati ambientali più influenti al mondo, ci indica come invertire la rotta, se vogliamo davvero proteggere la natura, le nostre società e la salute delle persone.
La disobbedienza civile e la non-violenza hanno una storia lunga e gloriosa: pensiamo a chi si è opposto con coraggio al nazifascismo o a figure come quelle di Gandhi e di Martin Luther King. Negli ultimi anni si sono aggiunte nuove pratiche di disobbedienza: quella climatica, l'animalismo radicale, i passeurs che fanno attraversare i confini ai migranti, l'abbattimento o l'imbrattamento di statue di personaggi controversi, e tante altre. L'opinione pubblica ha spesso faticato a comprendere le ragioni e la specificità di queste iniziative, riducendole a un generico bisogno di visibilità. Certo, gli stati liberali e democratici, seppur imperfetti, meritano il rispetto delle leggi. Ma è innegabile che ci sono leggi e pratiche ingiuste, e da questa constatazione è necessario partire per capire le ragioni di chi decide di andare contro gli ordinamenti per reclamare la necessità di un cambiamento. Lungi dall'esprimersi in un bisogno di radicalismo fine a sé stesso, il senso morale della disobbedienza va inteso come un modo, a volte estremo, di fare politica in una democrazia. Quando le normali forme di rivendicazione democratica non funzionano, la disobbedienza può essere moralmente giustificabile.
Il 'delitto Matteotti', di cui quest'anno ricorrono i cento anni, è stato senza dubbio il più grande 'caso' della storia italiana. Proviamo a raccontarlo come se nessuno l'avesse raccontato prima, come se nessuno lo ricordasse più, facendone 'un affaire' in cui non è semplice districarsi. All'inizio dobbiamo analizzare la scena del crimine, sul lungotevere di un afoso pomeriggio romano, e descrivere la meccanica del delitto. Dopo di che si approfondisce la conoscenza prima degli esecutori e poi dei loro mandanti - il duce e il suo entourage - per raccontare la tremenda lotta per il potere e per la sopravvivenza di uomini divisi su tutto, ma accomunati dalla menzogna (mentono tutti e più di tutti mente il loro capo) e dalla consapevolezza che per salvare se stessi devono salvare a ogni costo Benito Mussolini. Poi dovremo interrogarci sui possibili moventi del delitto, muovendo dall'assunto borgesiano che se la realtà può sottrarsi all'obbligo di essere interessante, non possono sottrarvisi le ipotesi. Infine, come in ogni delitto, c'è un 'dopo', le molteplici 'vie di fuga' dall'affaire: dai processi del 1926 e del 1947 al destino di ciascun protagonista nel corso del ventennio. Ma soprattutto c'è Giacomo Matteotti. Finora è stato come un fantasma: un'assenza, una salma, la vittima. Giunti alla fine, siamo costretti a chiederci: chi è, chi era, chi è stato Matteotti? E perché proprio lui?
Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti 'conniventi' con l'attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un'accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un'operazione strettamente militare. Esso rappresentò l'apice di un'azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All'eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di 'sopravvissuti' in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L'accanimento con cui fu condotta l'esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che 'religiosa') che andò oltre l'esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di 'eretici', scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l'obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant'anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche. Prefazione di Andrea Riccardi.
Da oltre trent'anni l'Italia vede attuarsi periodicamente soluzioni 'irregolari' delle crisi politiche. Ciampi, Monti, Draghi. Da tempo i presidenti della Repubblica si regolano come se fosse in vigore da noi la Costituzione della Quinta Repubblica francese, o forse pensano che sia ritornato lo Statuto Albertino: convocano 'qualcuno' che metta le cose a posto. Non possiamo non chiederci se, tra le cause immediate di questa deriva, non ci sia il disinvolto e reiterato ricorso alla cosiddetta 'unità nazionale' e al conseguente assembramento di formazioni politiche ritenute antitetiche ma destinate a perdere, nel corso di tali esperienze, larga parte dei loro connotati. È probabile che tutto questo si sia verificato sotto la pressione incalzante di costringenti strutture extranazionali in grado di imprimere una accelerazione. Ma il problema ineludibile che abbiamo di fronte è: a quale prezzo e con quale riassetto del nostro ruolo internazionale si sia prodotta una tale mutazione, e se essa sia irreversibile.
Nei testi raccolti in questo libro, i temi cari a Tullio De Mauro: uso dei dialetti e dell'italiano, il latino e l'eredità classica; la regola della chiarezza per quelli che devono trasferire ai cittadini conoscenze; la passione e l'impegno per la politica. E infine il ruolo essenziale della scuola.
L'Italia è il Paese dei misteri. I colpevoli delle stragi non sono mai stati trovati né sono mai stati puniti. Tutto viene insabbiato e non si riesce mai a trovare il bandolo della matassa per chiudere definitivamente la stagione dolorosa delle bombe, la cosiddetta 'strategia della tensione', e consegnarla alla storia. Ogni volta sembra di ricominciare da capo: piazza Fontana, piazza della Loggia e stazione di Bologna sono soltanto alcune delle tappe di una laica via crucis che non ha mai fine e su cui ogni anno emergono particolari, false piste, rivelazioni vere o false. Se però sbirciamo oltre il muro delle tante assoluzioni, le cose non stanno proprio così. Ormai le testimonianze e le carte ci permettono di ricostruire con precisione quanto è successo in quella fase storica. Se Pasolini, in un suo articolo molto famoso, scriveva «io so, ma non ho le prove», ora possiamo dire che sappiamo e abbiamo le prove, di molto, se non di tutto, e spesso possiamo pure fare nomi e cognomi di esecutori e mandanti.
Dal primo avventurarsi su due gambe nelle pianure africane alla produzione di pitture rupestri, piramidi, bastimenti, parlamenti e molto altro: tanto si è scritto sul cammino evolutivo dell'umanità grazie al lavoro di paleontologi, archeologi e genetisti. Ciascuno di loro ha messo un tassello a formare un quadro generale della nostra storia. Ma oggi siamo riusciti a compiere un altro passo: con la capacità che abbiamo acquisito di leggere a fondo il DNA di tante persone, passate e presenti, e di interpretarne le differenze, quei resti non solo ci danno un'idea delle migrazioni, degli scambi, dei processi di adattamento all'ambiente che hanno fatto di noi quello che siamo, ma ci hanno anche permesso la ricostruzione delle sembianze dei nostri antenati. Il lavoro scrupoloso di un gruppo di artisti ci fa finalmente guardare in faccia Homo erectus, che per primo ha imparato a maneggiare il fuoco, e i piccoli ominidi dell'isola di Flores in Indonesia, che qualcuno ha ribattezzato hobbit; i vecchi europei, gli uomini di Neandertal e quelli nuovi come Ötzi, l'uomo dei ghiacci del Museo di Bolzano, e tanti altri. Guardandoli negli occhi possiamo capire meglio quanto abbiamo in comune, quanto ci siano vicini, quanto è vero che, nonostante la grande distanza temporale, noi in qualche modo siamo loro.
Chi parla, soprattutto se da posizioni di autorità o in contesti istituzionali, ha una pesante responsabilità: ciò che diciamo cambia i limiti di ciò che può essere detto, sposta un po' più in là i confini di ciò che viene considerato normale, assodato, legittimo. E cambiare i limiti di ciò che può essere detto cambia allo stesso tempo i limiti di ciò che può essere fatto. Questo libro indaga una delle declinazioni più interessanti del tema della violenza: quello che è diventato comune chiamare hate speech, espressioni e frasi che comunicano derisione, disprezzo e ostilità verso gruppi identificati sulla base di tratti sociali come etnia, religione, genere, orientamento sessuale, (dis)abilità. Claudia Bianchi mostra che il linguaggio è lo strumento chiave che plasma le nostre identità sociali, crea e rinforza le asimmetrie e le ingiustizie sociali, diffonde e legittima i pregiudizi e la discriminazione, fomenta l'odio e la violenza.
Il 25 aprile 1974, una data che pare ormai lontana anni luce, avvenne in Portogallo un fatto straordinario: sulle note di Grândola, vila morena di José Afonso, un gruppo di ufficiali dell'esercito diede avvio a una rivoluzione che pose fine alla più longeva dittatura d'Europa, durata quarantasette anni, dieci mesi, ventiquattro giorni e qualche ora. I fiori nelle canne dei fucili, simbolo della Rivoluzione dei garofani, furono un momento di speranza per un'intera generazione che, dopo il golpe del Cile del 1973, le feroci repressioni in Grecia, il fallimento della Primavera di Praga del 1968 e la guerra del Vietnam, vedeva finalmente trionfare i propri ideali. Furono in molti, come i protagonisti di questo libro Victor e Vasco, a partire da ogni parte d'Europa per assistere, almeno una volta nella loro vita, al trionfo della rivoluzione. Ma ogni viaggio, anche o soprattutto se fatto su una mitica Due Cavalli, senza navigatori e fuori autostrada, è un'avventura, un tragitto fatto di incontri, inconvenienti e sorprese per «seppellire i tiranni con una risata». Cosa resta oggi di quel viaggio iniziatico? Lo scopriranno i lettori che ritroveranno Victor e Vasco cinquant'anni dopo ancora sulle strade di Lisbona, sempre alla ricerca di un nuovo sogno per ricominciare. Come se la gioventù fosse un'eterna nostalgia.