Nel volgere di pochi decenni, l'umanità è andata incontro a una rivoluzione nelle sue abitudini ancestrali. Senza che ce ne accorgessimo, la nostra specie, che fino a poco tempo fa viveva immersa nella natura abitando ogni angolo della Terra, ha finito per abitare una parte davvero irrisoria delle terre emerse del pianeta. Cosa è accaduto? Da specie generalista in grado di vivere dovunque, ci siamo trasformati, in poche generazioni, in una specie in grado di vivere in una sola e specifica nicchia ecologica: la città. Una rivoluzione paragonabile soltanto alla transizione da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori avvenuta 12.000 anni fa. È certo che in termini di accesso alle risorse, efficienza, difesa e diffusione della specie questa trasformazione è vantaggiosa. Ma è altrettanto certo che ci espone a un rischio terribile: la specializzazione di una specie è efficace soltanto in un ambiente stabile. In condizioni ambientali mutevoli diventa pericolosa. Il nostro successo urbano richiede, infatti, un flusso continuo ed esponenzialmente crescente di risorse e di energia, che però non sono illimitate. Inoltre, fatto decisivo, il riscaldamento globale può cambiare in maniera definitiva l'ambiente delle nostre città e costituire proprio quella fatale mutazione delle condizioni da cui dipende la nostra sopravvivenza. Ecco perché è diventato vitale riportare la natura all'interno del nostro habitat. Le città del futuro, siano esse costruite ex novo o rinnovate, devono trasformarsi in fitopolis, luoghi in cui il rapporto fra piante e animali si riavvicini al rapporto armonico che troviamo in natura. Non c'è nulla che abbia una maggiore importanza di questo per il futuro dell'umanità.
Un giorno al compositore inglese Sir Edward Elgar venne chiesto da dove provenisse la sua musica. La risposta fu: «La mia idea è che ci sia musica nell'aria, musica dappertutto intorno a noi, il mondo ne è pieno e ne puoi prendere ogni volta tutta quella di cui hai bisogno». Lo stesso accade per le piante che, come la musica per Elgar, sono letteralmente dappertutto e per scriverne non si deve far altro che ascoltare le loro storie e raccontarle. Tutte quelle di cui abbiamo bisogno. È così che è nato questo libro, scrivendo storie di piante che intrecciandosi agli avvenimenti umani si legano le une alle altre nella narrazione della vita sulla Terra. Perché le piante costituiscono la nervatura, la mappa (o pianta) sulla base della quale è costruito l'intero mondo in cui viviamo. Non vederla, o ancora peggio ignorarla, credendo di essere al di sopra della natura, è uno dei pericoli più gravi per la sopravvivenza della nostra specie
L'immensità è un concetto familiare per chi nasce in Amazzonia, dove lo spazio sembra non avere confini. Un'inesauribile varietà di ambienti, la più alta concentrazione di forme di vita sul pianeta, corsi d'acqua così vasti da non scorgerne la sponda opposta. Emanuela Evangelista, biologa e attivista, vive da oltre dieci anni nel cuore della foresta amazzonica e precisamente nel villaggio di Xixuaú, una manciata di palafitte ignorate dalle mappe ufficiali, come la maggioranza degli insediamenti umani situati nelle zone più remote. Nelle pagine di questo libro racconta l'Amazzonia che ha conosciuto e lo fa da un punto di vista unico: un'italiana, ormai parte integrante della comunità? dei popoli della foresta. Conosceremo il susseguirsi delle stagioni, l'importanza dell'acqua e dei suoi movimenti; la paura e l'incanto che scaturiscono dal contatto senza mediazioni con la natura; l'indicibile bellezza dei luoghi e dei suoi abitanti, non solo umani; i lenti viaggi lungo i fiumi a bordo di un battello, la magia degli spiriti della selva, la conoscenza delle piante medicinali, la vita quotidiana nel villaggio. Ma anche la violenza, le miniere illegali, il disboscamento, le speculazioni, il bracconaggio, la lotta dei rivieraschi per preservare le terre in cui vivono. Umanità e spazi che rendono questo luogo uno dei più? affascinanti del pianeta.
A chi gli chiedeva perché voleva scalare l'Everest, George Mallory, il grande pioniere himalayano, rispose: «Perché è lì». Da Preuss a Bonatti, da Mallory a Messner, da Cassin a Honnold, tutti i grandi della storia dell'alpinismo hanno avuto una propria, personalissima, 'visione verticale'. L'apparente insensatezza di esporsi ad avventure che mettono a rischio la propria vita e l'impossibilità a resistere all'ignoto, le difficoltà e la brutalità della natura e i propri e umanissimi fantasmi: è il mistero e il fascino dell'alpinismo. Perché scalare? Perché mettere a rischio la propria vita? E farlo facendo ricorso a ogni mezzo o seguendo un'etica rigorosa? Nel corso di quasi due secoli e mezzo di vita, l'alpinismo ha subito innumerevoli rivoluzioni. Non solo e non tanto delle tecniche e degli strumenti, quanto piuttosto della sua stessa etica, delle 'visioni verticali' che l'hanno attraversato. C'è stato un alpinismo esplorativo, legato a una dimensione scientifica e conoscitiva; uno romantico, fondato sul confronto a 'mani nude' con la roccia; uno eroico, tutto teso alla ricerca della difficoltà estrema; fino alle forme commerciali e sportive che stiamo vivendo. Ognuna di queste 'visioni' ha costruito una sua dimensione morale, su ciò che era lecito e ciò che non lo era, su come si 'doveva' andare in montagna e sul perché lo si faceva. I grandi campioni, da Preuss a Bonatti, da Messner a Honnold, sono stati e sono anche portatori di una prospettiva che ha influenzato e condizionato migliaia di appassionati che ne hanno seguito gesta e fallimenti. A differenza di ogni altro sport, la 'prima' invernale della parete nord del Cervino, la 'prima' in solitaria senza ossigeno di un 8000 in Himalaya, il free solo sul granito della Yosemite Valley sono imprese che hanno scatenato dibattiti infiniti e ci interrogano ogni volta. Sono visioni che pongono domande sul senso stesso della nostra vita.
Il leopardo delle nevi non è soltanto un raro felino dagli occhi color del ghiaccio che vive nei dirupati e gelidi ambienti montani del Karakoram, dell'Himalaya e dell'Altopiano Tibetano, ma è anche un simbolo dell'Asia trascendente e misteriosa che la religione buddhista ha trasformato in messaggero degli dei. Colpito dal fascino che esercita questo fantasma delle impervie montagne asiatiche, Sandro Lovari ne ha studiato per un decennio l'ecologia e il comportamento, seguendone le tracce dal Parco Nazionale del Monte Everest in Nepal a quello del Karakoram Centrale in Pakistan, svelando gli aspetti enigmatici della vita di questo magnifico felino, delle sue prede e dei rapporti con le popolazioni locali. Leggendo questo libro comprenderemo come possano convivere tigri, leopardi, lupi, leopardi delle nevi e anche gli elefanti, tra loro e con l'uomo. Con sottile ironia e senso dell'umorismo, questo diario di viaggio ci fa vivere l'avventura sul campo, svelando antefatti e retroscena inaspettati, avvicinandoci agli animali delle più remote regioni e rendendoci comprensibile il loro comportamento.
La prima grande bugia che si può raccontare sull'emergenza climatica è che non è colpa dell'essere umano. La seconda è che tutti gli esseri umani ne sono responsabili in egual misura. Se oggi non esiste una politica climatica globale efficace, se le temperature continuano ad aumentare, se gli ecosistemi sono al collasso, la ragione va cercata nella macchina organizzata del negazionismo climatico: ingenti finanziamenti, tecniche di propaganda ed efficaci manovre di ingegneria comunicativa che hanno lo scopo di far sembrare il cambiamento climatico solo una teoria, un'opinione, non una realtà scientificamente fondata. Questo libro racconta quello che non viene mai detto a proposito dell'emergenza climatica: quando gli scienziati hanno cominciato a dare l'allarme, le industrie di combustibili fossili non potevano permettere che i loro affari fossero compromessi. Erano gli anni '70 e, da allora, le lobby negazioniste - non solo le industrie fossili, ma politici, think tank, gruppi di pressione, piattaforme mediatiche, gruppi di facciata e falsi esperti - hanno messo in atto la più grande operazione di insabbiamento della storia più recente. Il negazionismo non si limita a rimuovere la realtà. Ne costruisce una alternativa al cui centro c'è un elemento su tutti: l'inganno. La disinformazione diventa la nuova realtà. E il negazionismo diventa vitale per la sopravvivenza di quella stessa realtà. Il negazionismo è strategico, è attivo, è pubblico.
Se non cambiamo stile di vita qui e ora, nel 2100 il nostro pianeta sarà irriconoscibile. Siamo abituati a credere che modificare i nostri comportamenti individuali non abbia un impatto significativo sul riscaldamento globale. Ma la scienza ci dice esattamente il contrario: azioni semplici fanno la differenza. Quali abitudini quotidiane - in casa, al lavoro, nel modo in cui fai acquisti, mangi, viaggi, vivi -puoi modificare per avere un impatto positivo e reale sul futuro del nostro pianeta? Ecco una piccola guida per una vita quotidiana più sostenibile.
Faggi, castagni, querce, larici, abeti... Oltre il 35% della penisola è coperto da boschi, un paesaggio che spesso percepiamo come primigenio e 'naturale'. In realtà, come il resto del nostro paesaggio, i boschi sono un prodotto della storia, sempre legata all'opera dell'uomo che ne ha modificato tutte le caratteristiche. Nell'antichità il bosco è già largamente utilizzato, tanto che le foreste naturali nel primo secolo d.C. sono meno di una decina. Il bosco di alto fusto e il bosco ceduo, la forma più diffusa, hanno contribuito al bisogno di legna da fuoco, carbone e legname da costruzione, consentendo allo stesso tempo il pascolo del bestiame. Dal medioevo all'Ottocento sono le costruzioni navali che modellano gran parte dei boschi, legando strettamente il mondo dei commerci mediterranei a quello della montagna. Da nord a sud, poi, esiste una 'civiltà del castagno', vero e proprio 'albero del pane' a cui intere popolazioni devono la propria sopravvivenza. Oggi l'esodo dalle campagne e dalle montagne ha portato alla ricomparsa di macchie e foreste in territori antropizzati da secoli. E il desiderio di ricercare nel bosco valori naturalistici si è sovrapposto alla realtà storica di un paesaggio forestale come prodotto culturale. Un viaggio alla riscoperta dello straordinario rapporto che ci lega alle 'selve oscure'.
Siamo abituati ad associare le emissioni di CO2 solo alla produzione energetica e ai trasporti. Ma vi siete mai chiesti quanto esse dipendano da cosa scegliamo di mangiare? La risposta è una sola: moltissimo, perché le abitudini di consumo, i processi di produzione e il riscaldamento globale ormai sono legati a doppio filo. Il direttore dell’associazione ambientalista Terra! e autore di importanti inchieste sulle filiere agro-alimentari ci racconta perché saper scegliere cosa mangiamo ci salverà dalla crisi climatica.
Se il clima cambia, cambia l’agricoltura. Se cambia l’agricoltura, cambia anche il cibo che mangiamo. È sotto i nostri occhi: la crisi climatica ha già sconvolto i cicli colturali, stanno diminuendo le api mettendo a rischio l’impollinazione, le ondate di maltempo distruggono interi raccolti, gli agricoltori abbandonano la terra perché il cibo che producono vale sempre meno. E non è tutto. L’aumento degli allevamenti industriali si traduce in milioni di ettari di deforestazione all’anno e sfruttamento delle terre arabili per la produzione di mangimi. Il consumo smisurato di acqua e fertilizzanti così come la quantità di alimenti sprecati si aggiungono alle ragioni gravi che attentano alla salute del nostro pianeta. È arrivato il momento di essere tutti consapevoli che l’agricoltura e gli altri usi della terra sono responsabili del 23% delle emissioni climalteranti totali, una cifra che arriva al 37% se si includono i processi di trattamento dei prodotti alimentari. E, fatto non meno importante, sull’altare del nostro fabbisogno si sta sacrificando l’equilibrio tra il consumo di risorse naturali a livello globale con la capacità del pianeta di rigenerarle. Comprendere tutto questo significa da una parte assumere abitudini di consumo rispettose del clima, delle stagioni e della biodiversità; dall’altra chiedere alla politica e alle istituzioni di rendere l’agricoltura non una nemica, ma un’alleata del pianeta.
Tra le valli e i monti, lungo i fiumi e tra gli alberi. A pochi passi dalle città e lontanissimo dalle autostrade. Là dove il rumore delle metropoli retrocede, ci sono vie poco battute, percorsi ferroviari nascosti, passaggi fluviali e varchi che aprono la strada verso un'Italia preziosa e profonda. Dalle enigmatiche vie cave di Pitigliano scavate nel tufo al rocambolesco fascino della statale 92 che attraversa la dorsale della Basilicata. Dal sentiero di punta Manara che conduce lì dove, al confine con il mare, una torretta ancora sembra attendere l'attacco dei Saraceni, fino ai meandri misteriosi delle barene tra le isole abbandonate della laguna della Venezia Nativa. Dai gradoni luminosissimi e irreali della Salita dei Turchi fino al viaggio in traghetto, sulle acque rapide del Lago Maggiore, che conduce all'eremo di Santa Caterina del Sasso. Federico Pace ci accompagna in un suggestivo viaggio tra luoghi che diventano occasione di piccole epifanie, in cui si svela qualcosa di inatteso, un meravigliato contatto che, senza una partenza, non sarebbe stato possibile. Il paesaggio, il movimento, le storie delle persone e i loro legami offrono l'opportunità di uno sguardo diverso e nuovo su noi stessi, sugli altri e su quel che ci accade intorno.
Come abbiamo scoperto l'importanza dell'ambiente e della salute del nostro pianeta? Un viaggio attraverso le tappe fondamentali che hanno portato alla nascita della coscienza ambientalista contemporanea. La nuova visione del mondo che ha assegnato all'ambiente un posto di rilievo si è affermata velocemente nel corso di questi ultimi sessant'anni. Ci sono stati alcuni momenti di particolare importanza che hanno fatto registrare un salto di qualità. Ciascuno di essi è fotografato da un libro che ha rappresentato un momento decisivo e ha impresso una svolta nella storia dell'ambientalismo, arricchendola con una nuova prospettiva o valorizzando un aspetto importante in precedenza ignoto o, più semplicemente, non ancora imposto all'attenzione dall'evolversi della realtà. Così, a partire dalle prime denunce dell'inquinamento alla presa di coscienza dei limiti della crescita economica e demografica, dallo sviluppo sostenibile fino alla consapevolezza del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici, viene tessuta la storia della nascita e dello sviluppo del movimento ambientalista a livello globale.
Un pianeta più caldo significa ghiacciai che si sciolgono, piogge meno prevedibili, alluvioni più frequenti, deserti che avanzano. Nell'acqua vediamo gli effetti del riscaldamento globale e la probabile causa di guerre future. Oro blu, in nove storie da tutto il mondo, dalla Sicilia al Bangladesh, dall'Olanda al Brasile, ci fa scoprire come l'acqua si intrecci all'economia, alla storia, alla cultura e alla vita di ciascuno di noi.