"Dio è presente ovunque sulla terra, e specialmente, con la sua grazia, nei cuori miti e umili. Poiché è l'Altissimo, Egli e anche l'Infinitamente Basso. Poiché è il Trascendente, Egli è anche l'Onnipresente. Gli umili e i docili sanno che Egli fa sì che tutto concorra al loro Bene, che il sassolino nella scarpa, la pozzanghera, lo scoglio e il pantano sono, per così dire, l'anticamera della sua santa Dimora. Perciò si abbandonano alla sua Volontà. E, dove questa Volontà si compie, noi viviamo sulla terra come fossimo in ciclo." (Fabrice Hadjadi)
Chi sono i pifferai magici che, come il flautista di Hamelin, negli ultimi decenni hanno incantato il mondo costringendo un numero sempre più alto di persone a seguirli, abbandonando il mondo dell'etica, quel mondo che, nonostante tutte le sue fragilità, ha permesso fino a tempi recenti all'essere umano di mantenere la sua specificità? Ormai, tutto quello che si può fare, si fa. E le voci che ancora si levano in difesa della misteriosa complessità della vita e della persona vengono ridicolizzate, tacciandole di medioevale oscurantismo. L'uomo non è più un fine, ma soltanto un mezzo e, in quanto mezzo, può essere usato in tutti i modi possibili. Il fatto che il numero di disturbi mentali, di depressioni, di malattie autoimmuni sia sempre più alto non inquieta più nessuno, così come non turba il fatto che il paganesimo sia tornato prepotentemente nella nostra civiltà e che proprio questo paganesimo abbia annullato la responsabilità individuale del male. Il fato decide per noi. Non esiste più il bene, non esiste più il male, non esiste più il giudizio sulle nostre azioni e, anche quando queste sono efferate, siamo convinti di avere diritto all'happy end. Queste riflessioni fatte nel corso degli ultimi anni cercano di mettere a fuoco il progressivo declino della nostra civiltà, incantata dalla suadente musica di questi astuti orchestrali che tutto hanno a cuore tranne il bene dell'umanità.
Secondo la vulgata pseudoprogressista l'immigrazione è sempre un bene e le frontiere esistono soltanto per essere valicate, l'Occidente deve espiare la sua stessa esistenza, il genere è separato dal sesso ed esiste in infinite varianti, la famiglia naturale è male, il cristianesimo è un relitto da cancellare, la vita umana non inizia mai e finisce quando lo decidiamo noi, il transumanesimo è l'orizzonte dell'uomo contemporaneo... Si potrebbe continuare a lungo con questo campionario di affermazioni grottesche, e a lungo si potrebbe riderne, se le conseguenze non fossero libri proibiti, censurati e al macero; parole e idee vietate; intellettuali processati e accademici allontanati... Perché la «diversità» è sì la nuova bandiera, ma non vale se a essere diverse sono le opinioni. Come si può continuare nella difesa di una civiltà di cui non ci permettiamo di vedere la straordinaria e mostruosa trasformazione? Una civiltà che, per uno strano paradosso, volendo emancipare l'individuo lo ha reso schiavo? Qualche anno fa si è a lungo parlato di «scontro di civiltà»? Ma oggi forse non esistono neppure più civiltà che potrebbero scontrarsi, tutte sono scomparse a favore di una «cultura» standardizzata, i cui vari elementi sono difficilmente distinguibili se non per lievi e innocue differenze di colorazione. Quello a cui stiamo assistendo è piuttosto lo shock della non-civiltà. In questo nuovo regime, libertà illimitata e dispotismo illimitato non sono più in opposizione. Si sono fusi.
Non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Facciamocene una ragione. Le limitazioni alla democrazia, il potere dispotico esercitato sui popoli dalle istituzioni sovranazionali, la prevalenza della finanza sulla politica, sono tutti effetti prodotti dall'economia della crescita continua. Un sistema che sta giungendo alla fine e che, come un animale ferito, mostra il suo volto peggiore e aggressivo, pronto a trascinare tutto e tutti nel baratro. Per arginare questa potenza distruttrice non basta riformare il sistema, ma è necessario cambiare l'orizzonte culturale e le categorie attraverso le quali pensiamo e interpretiamo il mondo. Le grandi famiglie politiche tradizionali non sono in grado di comprendere i rischi che l'umanità corre in questa fase storica, in cui il modo di produzione industriale si sta estendendo a tutto il mondo. Destra e sinistra sono categorie del passato. E per certi versi incarnano anche parte del problema. Se vogliamo garantirci un futuro dobbiamo smetterla con la crescita. Solo una decrescita felice, selettiva e governata, può salvarci.
Perché Péguy, oggi? Che cosa hanno da dirci le inquietudini di questo scrittore francese, "morto sul campo d'onore" un secolo fa, nella prima battaglia della Marna? Socialista, dreyfusardo, poi convertito al cattolicesimo, tradizionalista, patriota, Péguy appare agli occhi di Finkielkraut come un "profeta disperato" del malessere spirituale moderno. Animo perennemente insoddisfatto, sempre alla ricerca di una verità più grande di quella contemplata dalla scienza e dalle ideologie del suo tempo e comunque non limitata all'orizzonte della storia e del sapere umano, Péguy è stato emarginato dalla cultura di sinistra cui pure appartenne, ma di cui rifiutò dogmi e pregiudizi. Eppure, la sua riflessione sulla modernità - sulle implicazioni dell'affare Dreyfus, sul nazionalismo che avrebbe portato alla prima guerra mondiale, sui cambiamenti sociali prodotti dal progresso tecnologico, sulla scomparsa della tradizione, sul declino della religiosità, sulla miopia degli intellettuali, sulla decomposizione della famiglia - è imprescindibile per chiunque voglia capire la crisi di certezze che caratterizza il nostro tempo
La via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni. Ed è proprio su di esse che si concentra in questo libro la critica radicale di Roger Scruton. La moderna storia europea è stata funestata da tragedie incomparabili (su tutte il nazismo, il fascismo e il comunismo). Responsabili di questi orrori sono, secondo l'autore, gli idealisti e utopisti di destra e di sinistra, che, ignorando la natura umana, immaginano un futuro inevitabilmente radioso, credono nel ritorno a un felice stato di natura (che non è mai esistito), considerano l'utopia una forza positiva della storia. Questi "ottimisti senza scrupoli" hanno in comune il desiderio di imporre, spesso con la violenza, la propria visione del mondo basata su false speranze di palingenesi illusorie: è il caso dei giacobini francesi, dei rivoluzionari russi, dei nazisti, dei comunisti, dei terroristi islamici e, in una dimensione meno tragica ma altrettanto "distruttiva", dei burocrati dell'Unione Europea, degli economisti, dei sociologi, dei politologi e dei vari esperti votati al benessere e al miglioramento dell'umanità. "Del buon uso del pessimismo" costituisce, fin dal titolo, un invito ad adottare un atteggiamento serenamente pessimistico, non dettato da una visione tetra della condizione umana, ma dalla consapevolezza dei vincoli e dei limiti della natura dell'uomo, che rendono impossibile ogni pianificazione e trasformazione idealistica della società.
"Che cos'è la verità?" è la domanda che Ponzio Pilato fece a Gesù e che oggi viene rivolta, nell'ambito di una disputatio tenutasi nella cattedrale di Rouen, a due filosofi francesi contemporanei, ben noti anche al pubblico italiano: Fabrice Hadjadj e Fabrice Midal. Partendo da punti di vista radicalmente diversi, entrambi propongono al lettore interessanti spunti di riflessione su una questione che ha attraversato la storia della filosofia, della religione, della letteratura e dell'arte, e che ciascuno è costretto ad affrontare nel corso della vita. Per Midal la ricerca della verità si inscrive nell'ambito del buddhismo, verso cui il filosofo, di origine ebraica, ha da tempo rivolto il suo interesse (ritrovandone echi suggestivi anche in Rilke e in Monet). Per Hadjadj - pure di origine ebraica, ma convertito al cristianesimo - la ricerca della verità si realizza soprattutto nell'incontro con l'Altro, colto nella sua irriducibile diversità e concretezza, di cui la persona di Cristo è l'espressione folgorante e assoluta.
IL LIBRO
Allan Bloom pubblicò questo saggio nel 1987. Dopo oltre vent’anni possiamo dire che le sue tesi, allora strenuamente combattute dalla sinistra liberal, si sono rivelate profetiche e godono di una considerazione sempre più ampia.
A giudizio di Bloom la cultura americana – ma lo stesso vale per la cultura di qualsiasi democrazia occidentale – vive dagli anni ’60 una crisi profonda, dietro un’apparenza di liberazione e creatività. Caduto il tradizionale confine tra l’accademia e la società, una miriade di rivendicazioni ha fatto irruzione nelle università, direttamente dalla società e dalla politica, scardinando un sistema senza proporne uno alternativo. Nelle nostre democrazie governate dall’opinione pubblica, la scuola non è più un’isola di libertà intellettuale, dove tutte le opinioni sono prese in esame senza restrizioni e pregiudizi, ma si è trasformata nel magazzino delle influenze più nocive prodotte dalla cultura popolare: prime fra tutte il relativismo e un malinteso senso dell’uguaglianza (il multiculturalismo), uniti in un’intenzione morale. In base a questo nuovo e pericoloso conformismo, la verità non esiste più e crederci, più che un errore, è un segno di intolleranza. Agli occhi di studenti e professori il relativismo è il nutrimento di una mente aperta, per la quale le diverse culture hanno tutte lo stesso peso, mentre le religioni non sono altro che opinioni, senza nessun rapporto con la conoscenza. L’apertura mentale si è così trasformata in chiusura: al sapere, ai valori, alle differenze, ai fatti.
Per Bloom l’università deve tornare ai classici occidentali della filosofia, della letteratura, dell’arte, della storia. Deve rimettere al centro i libri e il loro studio, perché l’apprendimento sui libri è il più grande contributo che un professore può dare ai suoi studenti. Deve rielaborare il concetto greco di educazione, che mira alla realizzazione di tutto il potenziale umano naturale e alla ricerca del bene attraverso la ragione. Ciò che è essenziale nei dialoghi di Platone può essere riproposto in qualsiasi tempo perché esiste una sola, vera comunità degli uomini: quella di coloro che desiderando sapere ricercano la verità.
L'AUTORE
Allan Bloom (1930-1992) è stato un insigne filosofo e un brillante scrittore. Ha insegnato nelle università di Tel Aviv, Toronto, Chicago, a Yale e alla Cornell University. Tra le sue opere, ricordiamo Giants and Dwarfs. Essays, 1960-1990 e Shakespeare on Love and Friendship. Saul Bellow si ispirò all’amico e collega di università Allan Bloom per il protagonista del suo romanzo Ravelstein.
IL LIBRO
L’inizio del nuovo millennio non è stato facile per il cristianesimo. Se certe forme di anticlericalismo del passato sono ormai definitivamente tramontate, una nuova leva di detrattori e di critici è apparsa all’orizzonte, fomentando una violenta polemica anticristiana, che riscuote un certo consenso presso il grande pubblico. È un’offensiva che non proviene più dagli ambienti laici tradizionali, ma da pensatori più iconoclasti, che vogliono dar vita a una sorta di «ateismo » militante.
In questo libro-intervista René Rémond riflette, insieme a Marc Leboucher, sulle motivazioni di una tale ostilità e risponde alle obiezioni di questi odierni accusatori.
La sua è un’analisi lucida e precisa, che prende in esame, uno dopo l’altro, tutti gli attacchi rivolti al cristianesimo e al clero e fa emergere le diverse posizioni di laici e cattolici su delicate questioni di grande attualità, quali la liberalizzazione dei costumi, i PACS, i movimenti gay e femministi, il progresso scientifico e le conseguenti questioni di bioetica, fino ad arrivare alla Costituzione europea. Aquesto proposito la riflessione di Rémond sottolinea il ruolo determinante della religione e della cultura cristiana nella costruzione dell’Unione, un ruolo che oggi è messo in discussione da un pericoloso «negazionismo».
Ma se il nuovo anticristianesimo condanna la pretesa della Chiesa di continuare a impartire insegnamenti morali in un contesto che non è più quello di un tempo, la risposta rivoluzionaria della fede cristiana è la libertà di coscienza dell’individuo, unico vero responsabile delle proprie scelte e dei propri giudizi di valore.
L'AUTORE
RENÉ RÉMOND, nato nel 1918, è presidente della Fondation Nationale des Sciences Politiques. Storico, è autore di diverse opere di analisi politica, storia contemporanea e religiosa. Tra i libri pubblicati in Italia ricordiamo: La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea; La destra in Francia; Introduzione alla storia contemporanea.
RECENSIONI
Da «Avvenire», 1 maggio 2007
J’ACCUSE – «Nel suo ultimo pamphlet, che esce ora in italia, il grande storico francese da poco scomparso replica alla nuova ondata contro la fede.»
Maurizio Stefanini, «Il Foglio», 11 agosto 2007
«"Il cattolicesimo ci rende la vita impossibile!". È dall’affermazione del filosofo Michel Onfray che prende le mosse questo lungo dialogo del 2005 tra il giornalista Marc Leboucher e l’accademico di Francia René Rémond […], di cui questo testo rappresenta un ideale testamento.»
Carmen Aveta, «Roma», 6 agosto 2007
«Il testo non è assolutamente ostico, come si potrebbe pensare. Infatti, pur garantendo un rigore informativo ricco di riferimenti storici e tecnici, appare decisamente semplice e piacevole.»