Iniziato con ogni probabilità nel 1306-07, l'Inferno è la prima delle tre cantiche che compongono la Commedia dantesca. In questi trentaquattro canti il poeta racconta l'inizio del suo viaggio ultraterreno, a partire dallo smarrimento nella "selva oscura", dove incontra il poeta latino Virgilio che sarà sua guida, giù giù per i diversi gironi, fino all'orrenda visione di Lucifero e quindi alla faticosa risalita "a riveder le stelle". Un itinerario nell'animo umano lungo il quale Dante incontra decine di indimenticabili personaggi, alle cui tristi vicende egli sa guardare con fermo giudizio ma anche con una suprema pietas che è forse il maggior segno del suo profondo atteggiamento di estrema modernità.
Un mistero - o un paradosso - avvolge l'India contemporanea: il paese vanta un indiscusso primato per l'eccellente preparazione dei suoi tecnici e professionisti, i suoi «primi della classe» altamente competitivi sul mercato del lavoro occidentale, eppure il suo sistema scolastico esclude o trascura la gran parte di coloro che dovrebbe educare e che, non a caso, appartengono alle categorie sociali più svantaggiate, i poveri e le donne. Perché l'iniquità e la disuguaglianza non riguardano solo la scuola, ma tanti, troppi ambiti della vita sociale indiana, dall'assistenza sanitaria alla previdenza sociale, fino alle svariate e clamorose forme di discriminazione castale, tuttora ampiamente vigenti. Nei brevi saggi raccolti in queste pagine, Amartya Sen fissa alcune priorità nella serie di problemi che ostacolano il pieno sviluppo economico e democratico del suo paese e delinea condizioni e modi per farvi fronte: le questioni della giustizia sociale, della povertà, delle disuguaglianze, della parità tra i sessi, dell'istruzione, dei diritti d'espressione e del ruolo dei media sono, fra le tante, al centro della sua riflessione appassionata e partecipe, illuminata da una vasta competenza e sempre ispirata a principi di equilibrio e di apertura antidogmatica alla molteplicità delle prospettive. Ma non è solo all'India - ai preziosi contributi che la sua civiltà millenaria ha dato all'umanità nel passato e al suo presente difficile ma anche ricco di iniziative e di grandi potenzialità - che Sen dedica le sue attenzioni, poiché anche il mondo globale contemporaneo è afflitto, e su scala molto più larga, dalle medesime piaghe: ingiustizia, fame, dispotismo, guerra, esclusione, sfruttamento. Nell'invocare la piena realizzazione dei diritti di tutti nella prima e più grande democrazia dell'Asia, Sen ci mostra che «ciò che dovrebbe toglierci il sonno» non riguarda solo l'India, ma anche tutte le altre zone del pianeta, dove applicare un'idea concreta di giustizia, ovvero centrata sulla realizzazione più che sui princìpi o sulle istituzioni ideali, equivarrà sempre a promuovere la vita umana e a migliorare il mondo in cui viviamo. Una lezione che ci viene da uno dei maestri del pensiero contemporaneo e che è doveroso ascoltare.
"Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei 'ragazzi di Salò'. Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla 'gabbia del gorilla' in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di 'esule in Patria' nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine."
Ivano è un uomo come tanti. Per tutta la vita ha cercato di costruire la sua felicità e ha sempre creduto di esserci riuscito. Il lavoro di ingegnere, una bella famiglia: un piccolo capolavoro di stabilità, proprio come le dighe che ha progettato in ogni parte del mondo. Finché Sofia, sua moglie, viene a mancare e lui si trova improvvisamente libero e solo, incapace di capire se esista ancora un Ivano senza Sofia. Decide allora di partire per Santo Domingo, dove il fratello si è ritirato dopo anni di lavoro nella finanza. Lì incontra Liliana, una donna spontanea e fragile come una bambina, e se ne sente attratto. Sull'isola, però, Ivano intuisce che qualcosa non va: il fratello, con il quale ha sempre avuto un rapporto di grande complicità, si comporta in modo strano, sembra un altro. Riconsiderandoli a distanza, molti fatti e persone della sua vita gli appaiono diversi da quello che ha sempre creduto. Prima tra tutti sua moglie, un enigma affascinante e indisponente, nonostante quarant'anni di vita insieme. E poi la figlia Anna, rimasta a Milano: reticente, ostile, asserragliata in una vita che il padre non ha mai compreso. Quello che Ivano scoprirà riguardo al passato finirà per rompere gli argini in cui la sua esistenza è sempre scorsa tranquilla. Eppure, quando tutto è sul punto di crollare, si prospetta una seconda occasione, la possibilità di un nuovo inizio. Con una lingua duttile, devota all'incanto semplice e maestoso della realtà, una scrittura mobile in cui ci si immerge come nell'acqua - limpida, avvolgente, misteriosa -, Gaia Manzini racconta le illusioni intorno alle quali creiamo la nostra felicità e dà voce a una generazione che negli anni del Boom si è costruita un'idea luminosa di futuro a costo di rifiutare le proprie radici, lasciando dei conti in sospeso. Ma Ultima la luce è anche la storia di un tempo di mezzo, dell'attesa di un nuovo ordine delle cose: una famiglia si è disgregata, una nuova famiglia sta per nascere. Il passato è alle spalle, davanti c'è solo la luce.
Novant'anni fa, il 1° febbraio 1927, s'insediava a Roma, nell'Aula IV del Palazzo di Giustizia, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, un organo composto da magistrati e giudici in camicia nera reclutati tra gli squadristi. Mussolini, dopo il discorso del 3 gennaio 1925 e l'introduzione delle «leggi fascistissime» - che avevano soppresso la libertà di stampa, di associazione e il diritto allo sciopero -, mostrava il suo vero volto, quello di un dittatore disposto ormai a tutto. Per i nemici del regime, ma anche per i semplici cittadini che osavano criticarlo, non c'era più spazio per il dissenso. Anzi, non c'era più spazio per la libertà. Agli imputati, condotti di fronte alla corte e rinchiusi in un gabbione, non rimaneva che attendere il verdetto: d'altra parte, come potevano difendersi se l'istruttoria era segreta? Fino al luglio 1943 la magistratura, sottoposta agli ordini del duce, processerà migliaia di oppositori politici (tra loro, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, solo per citarne alcuni) e persone comuni, accusate di spionaggio, contrabbando valutario, mercato nero... Le condanne a morte, mediante fucilazione alla schiena, saranno un'ottantina. Eppure, la storia del Tribunale speciale dello Stato è rimasta sostanzialmente sconosciuta. Poco studiata. Persino l'imponente biografia mussoliniana di Renzo De Felice, punto di riferimento irrinunciabile per chiunque si occupi del Ventennio, gli dedica meno di due pagine. Il libro di Mimmo Franzinelli, basato su fonti d'archivio sinora inesplorate, riempie questo «vuoto», e lo fa documentando attività e funzioni del Tribunale, svelando l'intreccio tra persecutori e perseguitati, raccontando i segreti, assai poco commendevoli, della magistratura di regime: gli scandali su cui fu imposto il silenzio, le ruberie dei giudici, la corruzione degli avvocati, le sentenze palesemente truccate, la terribile situazione in cui vennero a trovarsi le donne, vittime di una giustizia ferocemente maschilista (il solo essere figlia, sorella o moglie di un sovversivo comportava l'arresto, senza riscontri oggettivi di reato). Ma Franzinelli dedica pagine efficaci, ricche di dettagli e informazioni, anche ad altri aspetti, non meno inquietanti, dell'intera vicenda, come il potenziamento del Tribunale speciale durante la seconda guerra mondiale e, soprattutto, il colpo di spugna che dopo il 1945 «perdonerà» quasi tutti i responsabili. In nome della continuità dello Stato, si doveva archiviare (e dimenticare) un passato troppo scomodo.
Il terrorismo, vale a dire l'uso indiscriminato della violenza contro civili, è una tattica adottata spesso nel corso della storia da gruppi armati decisi a sfidare un nemico più forte per raggiungere obiettivi politici o militari, ma anche da governi dittatoriali per garantirsi l'assoluta sottomissione dei propri cittadini. Ma l'attuale moltiplicarsi di attacchi e attentati terroristici di matrice islamista sempre più efferati e cruenti ha creato in Occidente un diffuso clima di insicurezza e di paura, esacerbato dalla sensazione di essere in balìa di un avversario invisibile e incontrollabile. Come si può scongiurare una simile minaccia al tempo stesso incombente e sconosciuta? Benedetta Berti, analista di politica internazionale, tenta di rispondere a tale interrogativo esaminando la genesi e le attività dei numerosi gruppi jihadisti che quasi ogni giorno sono alla ribalta della cronaca, a partire da quello più noto e più potente, autoproclamatosi Stato Islamico di Iraq e Siria: l'isis. Dallo studio delle sue radici e rivendicazioni, del contesto in cui sono nati e si sono affermati, dei modi in cui si finanziano e fanno proseliti emerge uno scenario molto lontano dallo stereotipo del terrorista islamico clandestino, armato di kalashnikov e nascosto in una grotta. Come le multinazionali sul mercato globale, molti gruppi armati hanno sviluppato complessi modelli di business per arricchirsi; come i partiti politici moderni, hanno capito l'importanza del consenso; come le agenzie pubblicitarie di successo, hanno ideato campagne di marketing basate su un'ottima conoscenza della Rete. Fino ad assumere i compiti e le funzioni di un vero e proprio Stato: dalla gestione dell'«ordine pubblico» alla raccolta dei rifiuti, alla costruzione di scuole e strutture sanitarie. In un quadro così complesso, le armi non sono l'unico, né forse il più efficace strumento per sconfiggere il terrorismo. È invece necessario, secondo Benedetta Berti, prosciugare le fonti che lo alimentano e, in particolare, rimuovere la causa prima di ogni forma di ribellione e insurrezione, in Medio Oriente come altrove: l'esistenza di Stati inefficienti e corrotti, dove la forbice della diseguaglianza sociale è eccessivamente ampia e il dissenso viene soffocato con il carcere e la tortura.
«Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Ma si può essere vecchi e mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare degli insoliti colori di un tramonto, di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride con aria divertita.» Il nuovo libro di Massimo Ammaniti è una riflessione sulla terza e quarta età, e più in generale sulla vecchiaia, stimolata anche dalle testimonianze di ottantenni e novantenni protagonisti della vita culturale e politica del nostro paese (come Andrea Camilleri, Raffaele La Capria, Aldo Masullo, Mario Pirani, Alfredo Reichlin, Luciana Castellina, Angela Levi Bianchini) che ora raccontano di come e quanto è cambiato il loro modo di vivere i sentimenti e le esperienze propri della vita di ogni essere umano: la famiglia, l'amore, l'amicizia, il senso del tempo, i sogni, il desiderio, i ricordi, i lutti. Ammaniti ci mostra che non lasciarsi sopraffare dalla rabbia e dal rancore, non ripiegarsi su se stessi, ma continuare a coltivare affetti, interessi e passioni, a rimanere agganciati al presente e a fare progetti per il futuro, magari condividendo in modo partecipe quelli di figli e nipoti, è il segreto per far sì che la vecchiaia non corrisponda al tetro stereotipo di periodo di inquietudine e sconforto, di abulia e rassegnazione, insomma di vuota attesa della morte. Come l'anziano professor Borg, l'indimenticabile protagonista del film "Il posto delle fragole" di Ingmar Bergman, anche le persone intervistate rivisitano la storia della propria vita per rintracciare il filo rosso che l'ha attraversata e, con esso, la direzione e il significato del percorso compiuto. Così la dimensione anagrafica ed esistenziale della vecchiaia ritrova la sua verità, quella di una stagione indubbiamente difficile, irta di insidie fisiche e psicologiche, di paure e di perdite, ma che, se affrontata accettando la propria condizione senza risentimento né eccessivi rimpianti, e con la lucidità dovuta a una maggiore consapevolezza di sé e a un minor coinvolgimento emotivo nelle vicende del mondo, può rivelarsi una fase di straordinario arricchimento interiore e affettivo. Come quando il giorno concede al tramonto la sua luce più intensa e più vera.
Nella Germania del Terzo Reich, mentre imperversa l'occupazione nazista e milioni di persone vengono perseguitate, Ernst Lossa si chiede: Perché io? Perché proprio io? Ernst ha solo quattro anni quando, nel 1933, viene separato dalla sua famiglia di nomadi e mandato in un orfanotrofio, e poi da lì trasferito in un riformatorio. Giudicato "irrecuperabile", all'età di dodici anni viene trasferito ancora, questa volta in un manicomio. Ernst però non si arrende all'immagine di sé che vede riflessa negli sguardi degli altri. Non si sente né diverso, né sbagliato. Nonostante gli orrori nazisti non risparmino neanche i bambini, lui stringe amicizie e vede nascere il suo primo amore, lottando fino alla fine per la salvezza. Tra il 1939 e il 1945 oltre 200.000 persone furono vittime del programma di eutanasia nazista. Questa è una storia vera, per ricordare Ernst e tutti coloro che come lui hanno amato la libertà.
Summa delle concezioni filosofiche di Rousseau sulla natura umana e sull'influsso esercitato dalla società, "Emilio" costituisce una chiave di volta nello sviluppo della sua dottrina: vagheggiato l'ideale di una società perfetta, è in queste agube che vengono gettate le basi concretre della civiltà rinnovata. "Emilio" percorre le tappe della formazione intellettuale e morale di un individuo destinato a vivere nella società, ma capace di resistere alal sua influenza corruttrice. Un progetto ispirato ai principi di natura, libertà, rispetto dell'individualià del fanciullo, destinato a influenzare la riflessione pedagogica dal settecento in poi e a diventare il punto di partenza della pedagogia moderna. Con un saggio di Claude Lévi-Strauss.
Tra gli animali domestici il gatto è quello più misterioso: pigro e abitudinario ma anche spietato predatore, amico affettuoso e giocherellone o vagabondo solitario. Un etologo di grande esperienza e fama internazionale ci aiuta a capire le ragioni del comportamento di questi piccoli felini che, dopo 3500 anni a contatto con l'uomo, non hanno dimenticato la vita libera e selvaggia.
"Per una bambina di sette anni avere il trentasei di piede nel 1972 era come avere due teste o la barba... I bambini erano bassi e le bambine più basse ancora. Poi c'ero io. La più alta della classe, irrimediabilmente fuori misura." Fuori misura, ma mai all'altezza! Su questo paradosso Veronica Pivetti ha costruito una carriera, e questo libro. Un libro che racconta di una casa andata in fumo, di un'infanzia funestata dalle cattive ragazze, di una vita costellata di grandi e piccoli traumi, di incontri con una serie di personaggi bizzarri, meschini, improponibili, o semplicemente ridicoli. Ma che racconta anche come dalle macerie si possa ricostruire, come dai traumi si possa guarire, come dalla cattiveria ci si possa difendere, semplicemente applicando a ogni cosa il magico filtro dell'umorismo. Veronica, l'ironica, riesce a ridere e a farci ridere delle sue disavventure. Certo, la vita può essere un inferno per chi si sente costantemente inadeguata, troppo spesso in debito di autostima. Ma il riscatto - anche dall'inferno - è possibile, basta riderci sopra e saperlo raccontare. Nel suo primo libro Veronica ha descritto la sua depressione facendoci morire dalle risate. In "Mai all'altezza" ricorda i traumi di una vita con la stessa verve irresistibile.
È trascorso un secolo da quando, il 13 maggio 1917, nell'infuriare di una delle più sanguinose guerre che abbiano mai devastato l'Europa, mentre soffia il vento del più acceso anticlericalismo e la Russia è sull'orlo di una rivoluzione che ne stravolgerà il volto, a Fatima, sperduto paesino del Portogallo, tre pastorelli affermano di aver visto la Madonna. Sono Lucia, dieci anni, e i suoi cuginetti più piccoli Francesco e Giacinta. L'episodio si ripete nei mesi successivi provocando una grande affluenza di fedeli e l'ostilità delle autorità civili che, preoccupate per l'ordine pubblico, esercitano forti pressioni sui ragazzini, rinchiudendoli persino in prigione. Ma essi non ritrattano: Lucia, anzi, racconta di avere parlato con la «Signora», che l'ha resa depositaria di tre segreti. Come rivelerà in seguito, il primo consiste in una terrorizzante visione dell'inferno, destinato a chi rifiuta l'amore di Dio; il secondo è incentrato sull'azione del demonio che s'incarna nelle guerre e nei sistemi atei e profetizza la fine della Prima guerra mondiale, lo scoppio della Seconda e la parabola del comunismo in Russia; il terzo - il più inquietante, reso noto nel 2000 - traduce in visioni angosciose l'azione di Satana contro la Chiesa, con la persecuzione e il martirio dei cristiani. Vincenzo Sansonetti ripercorre nei dettagli ciò che accadde cento anni fa. Quelle apparizioni e rivelazioni profetiche ancor oggi suscitano reazioni contrastanti e addirittura opposte tra chi, anche cattolico, attacca Fatima giudicando quegli eventi solo fantasie estranee al messaggio cristiano, e chi l'esalta da fanatico, ritenendola una minaccia del Cielo che c'invita a prepararci alla fine del mondo. Sansonetti, invece, parte dall'ipotesi che sia tutto vero, ma che tale verità si comprenda solo se la si accoglie senza pregiudizi. E procedendo nell'analisi, sempre aderente ai fatti, cerca di rispondere alle tante domande che rimangono ancora aperte. Perché la Madonna è apparsa proprio in quel paesino e in quell'anno? Perché si è manifestata a tre bambini? C'è un quarto segreto? Che significa l'affermazione: «Alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà»? C'è un legame con Medjugorje? Ma soprattutto: il messaggio di Fatima è ancora attuale? Come sottolinea Vittorio Messori nella prefazione al libro, già nel 2000 Joseph Ratzinger, allora prefetto dell'ex Sant'Uffizio, nel suo commento teologico al terzo segreto, perentoriamente affermava: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa». Aggiunge Messori: «Fatima è un messaggio "duro", "politicamente scorretto": proprio per questo è evangelico, nella sua rivelazione della verità e nel suo rifiuto di ipocrisie, eufemismi, rimozioni. Ma, come sempre in ciò che è davvero cattolico, la "durezza" convive con la tenerezza, la giustizia con la misericordia, la minaccia con la speranza. Così, l'avviso che ci è giunto dal Portogallo è, al contempo, inquietante e consolante». Pur denunciando il dilagare dell'iniquità e del peccato, osserva ancora, il messaggio di Fatima è dunque un invito a sperare, perché afferma che la salvezza personale e del mondo è possibile se si confida «nel cuore della Madre di Cristo, potente avvocata dell'umanità».