Basilio di Cesarea, nato nel 330 e morto nel 379, pronunciò queste nove omelie sulla "Genesi" (conosciute sotto il nome di "Esamerone") in cinque giorni: dal 12 al 16 febbraio, durante la quaresima probabilmente del 377. Persone colte, ma per la maggior parte umili, convenivano "alla mensa serale della parola"; e alla fine di ogni omelia "il suono delle voci miste di uomini, di donne e di fanciulli, come quello dei flutti che si frangono sulla riva" s'innalzava nelle "preghiere rivolte a Dio". In apparenza, "Sulla Genesi" è un manuale di scienza patristica, che trasforma e cristianizza la scienza greca: come tale, ebbe un immenso successo fino al diciassettesimo secolo. Ma le ambizioni di Basilio erano ben altre: si proponeva di scrivere quella cosmogonia e quella cosmologia che il cristianesimo ancora non possedeva, interpretando e ampliando i rapidissimi cenni della "Genesi". Nell'universo, come fu creato fuori dal tempo e come è oggi, tutto è sapienza, ordine, armonia, bellezza, provvidenza divina: non c'è traccia di tenebra, come invece sostenevano i Manichei; né di caso e di disordine. Movendo dalla bellezza della realtà visibile, Basilio voleva da un lato risalire al Grande Artefice, a "Colui che supera ogni bellezza"; e dall'altro offrire ad ogni uomo un modello di ordine e di armonia. Come chi guida un forestiero in una città sconosciuta, così Basilio accompagna tutti noi a scoprire le "meraviglie nascoste di questa grande città" - l'universo: con quale stupenda eloquenza, con quale ricchezza di colori, con che affettuosa luminosità di immagini.
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Omelia I
Omelia II
Omelia III
Omelia IV
Omelia V
Omelia VI
Omelia VII
Omelia VIII
Omelia IX
COMMENTO
Omelia I
Omelia II
Omelia III
Omelia IV
Omelia V
Omelia VI
Omelia VII
Omelia VIII
Omelia IX
INDICI
Indice dei nomi
Indice dei passi biblici
Indice dei temi e delle cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Basilio e il suo tempo
Basilio nacque a Cesarea di Cappadocia intorno al 330, circa dieci anni prima che morisse Eusebio di Cesarea e poco dopo l'elezione di Atanasio a vescovo di Alessandria. Proprio nel 330, per volere dell'imperatore Costantino I, avvenne la dedicatio di Costantinopoli, l'antica Bisanzio rifondata come la "nuova Roma", con un misto di riti pagani e cristiani, probabile espressione dell'anima stessa di Costantino.
La "crisi ariana", sfociata in frange e derivazioni estremiste, continuava a interessare e a condizionare l'attività pastorale e teologica della Chiesa con i suoi intricati riflessi politici e sociali. Negli anni della gioventù e della maturità di Basilio, sedette sul soglio imperiale nella pars Orientis il figlio di Costantino, Costanzo II (337-361), della stessa tendenza arianeggiante seguita dal padre negli ultimi anni di vita. Dopo l'effimero ma convinto tentativo di Giuliano (361-363) per una completa restaurazione pagana, e il breve regno di Gioviano (363-364), favorevole ai cristiani ma non intollerante verso i pagani, l'imperatore Valente (364-378) aderì alla fede ariana secondo la formulazione imposta al concilio di Rimini (359), e contrastò duramente la politica religiosa del vescovo Basilio.
Dalla famiglia, sulla cui formazione spirituale aveva influito a fondo l'insegnamento di Gregorio Taumaturgo, fervido seguace di Origene e apostolo del Ponto, Basilio aveva ereditato natura aristocratica, sensibilità, passione per la cultura classica, e una fede cristiana radicata nella Scrittura e alimentata dalle cure della nonna paterna, Macrina. L'enorme ricchezza, costituita dalle vaste proprietà di famiglia disseminate nel Ponto e nell'Armenia, gli aprì le porte di centri culturali come Costantinopoli, dove ebbe contatti col retore Libanio, e Atene, dove fu condiscepolo del futuro imperatore Giuliano alla scuola di Imerio e di Proeresio. Ad Atene strinse profonda e duratura amicizia con Gregorio Nazianzeno. Ma la sua vocazione lo indirizzava alla vita ascetica e monastica. Tornato nella sua terra come "una nave carica di cultura", dopo la morte del padre, rinunziò alla prospettiva di una brillante e sicura carriera di retore e ricevette il battesimo; quindi si recò in Egitto, in Palestina, in Siria e in Mesopotamia, a conoscere da vicino l'esperienza dei monaci, di cui ammirò l'austerità di vita e la testimonianza di essere pellegrini su questa terra e insieme cittadini del ciclo. Di ritorno in patria, distribuì il patrimonio ai poveri e con la madre Emmelia e la sorella Macrina si ritirò ad Annesi, una proprietà di famiglia sull'Iris presso Neocesarea, un eremo aspro e incantevole, che, oltre i frutti genuini e i benefici di una natura intatta, procurava il più ambito dei doni, la quiete esteriore e interiore. Lo raggiunsero il fratello Gregorio, alcuni discepoli che si misero sotto la sua guida, e l'amico Gregorio Nazianzeno, con il quale compilò una preziosa antologia degli scritti di Origene, la Philocalia.
Ha cosi inizio quell'attività ascetico-monastica, espressa negli scritti e nelle istituzioni, che meritò a Basilio la paternità del monachesimo in Oriente e in Occidente e, ispirando ogni suo atteggiamento nell'esercizio pastorale e di governo, anticipò in lui l'esperienza agostiniana del contemplativo in azione.
Nell'eremo di Annosi era giunto anche Eustazio di Sebaste, fautore fino dal 340 di un movimento "evangelico radicale" e ispiratore autorevole dell'indirizzo ascetico dello stesso Basilio. Ma dinanzi alle tendenze dogmatiche antinicene di Eustazio e alla sua rigida ascesi di tendenza dualistica, Basilio prenderà le distanze fino a contrastare l'antico maestro e amico. Propugnatore di un'autentica confessione religiosa, egli si propose di realizzare il suo equilibrato ideale monastico in una vita svolta nella comunità, la cui forza è la preghiera, l'umile accettazione dei lavori manuali e soprattutto la generosa disponibilità verso i fratelli. Importante doveva essere fra i monaci l'attività intellettuale: lo studio della Bibbia, di san Paolo e dei Vangeli, senza trascurare l'interesse per i classici della letteratura e della filosofia pagana. Un'impostazione del genere esprimeva, nella teoria e nella pratica, un'esigenza che divenne retaggio permanente del cristianesimo orientale: il monaco non è chiuso ai valori e ai contributi della cultura. A questo tipo di ascesi comunitaria Basilio s'ispirò nella fondazione di quella "città nuova" che fu chiamata Basiliade, un complesso di istituzioni e di edifici per poveri, malati anche contagiosi, di chiese e di conventi, una città con una sua autonomia sotto la guida del vescovo, che suscitò critiche da parte dell'amministrazione statale e anticipò realtà medievali.
Nel 364 Basilio fu ordinato prete dal suo vescovo Eusebio, al quale diede piena collaborazione, ben presto interrotta a causa di contrasti personali e poi ripresa per iniziativa dello stesso Eusebio, che si era convinto di quanto fosse preziosa per la Chiesa l'opera dell'eccezionale collaboratore. Dopo la morte di Eusebio, nel 370, nonostante l'energica opposizione dell'episcopato e del clero, Basilio riuscì a far prevalere l'elettorato popolare a lui favorevole, con uno zelo che sconcertò Gregorio Nazianzeno, meno realista e più poeta, e venne eletto vescovo di Cesarea, destinato ad esercitare il ruolo di guida carismatica in Cappadocia e oltre. Nonostante la salute malferma e le gravi malattie che spesso ne fiaccarono l'organismo, svolse una grande e sagace attività. Nel complesso rapporto con l'episcopato, soprattutto in relazione alle vicende della fede nicena, si accostò ad Atanasio, che già ne stimava l'azione e il comportamento.
Rodolfo il Glabro, di cui la Fondazione Valla pubblica le "Cronache dell'anno mille in una fondamentale edizione critica, nacque attorno al 985 e mori attorno al 1047. Fu un monaco cluniacense, allievo di Guglielmo da Volpiano: irrequieto, nevrotico, sempre in fuga; e per questo tanto più legato alla fede religiosa che lo schiacciava. Era un uomo colto, complicato, sottile - e fanatico, e rozzo come il più rozzo contadino medievale. Le "Cronache dell'anno mille" raccontano la storia d'Europa dal 900 fino ai suoi tempi. Rodolfo è un teologo: sa che Dio è coincidenza di opposti: "immobilmente mutevole e mobilmente immutabile"; e tutto il suo libro consiste nella ricerca della mano di Dio nella storia umana. L'uomo è peccatore: forse nessuno scrittore, in tutto il Medioevo, ha una coscienza così tremenda della malvagità dell'uomo, che né interventi celesti né pellegrinaggi né reliquie né apparizioni meravigliose possono alleviare. "Il genere umano è incline fin dall'origine al male come un cane al vomito, o come una scrofa che si lava sguazzando nel fango." Rodolfo racconta prodigi e calamità naturali, che sembrano rivelare un piano soprannaturale: orrori che la nostra fantasia ha difficoltà a concepire, corruzioni, stupri, empietà, guerre, vizi innominabili, epidemie, follie; ed è convinto che il mondo si stia avviando verso la sua prossima fine. In questa trama di eventi, Rodolfo cerca un senso. A chi risale la colpa delle sventure e delle nefandezze che formano il tessuto della storia? Agli uomini, col cuore guasto e le mani insanguinate? O a Dio che, di generazione in generazione si vendica implacabilmente dei peccatori? Ma il senso, alla fine, sfugge a Rodolfo. I nessi cronologici del racconto si disgregano, perché la stessa realtà è disgregata. Mentre egli guardava e riguardava questa storia di infamie e insensatezze, forse si accorse di quanto noi percepiamo distintamente nella sua opera. I fatti da lui narrati sono figli di un destino atroce e casuale: Dio vi è completamente assente. In tutto il libro, c'è un solo segno di Dio: quel passo famoso dove la terra, "come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia", "si riveste di un fulgido manto di chiese".
Questo volume contiene un ricco corredo iconografico, con illustrazioni tratte da codia, bassorilievi e altre manifestazioni artistiche medievali.
Indice - Sommario
Introduzione
Cartina
Bibliografia essenziale
Nota la testo
Abbreviazioni bibliografiche
Tavole genealogiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Libro V
COMMENTO
Indice dei nomi
Indice geografico
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La formazione di Rodolfo
Nel libro V delle Storie di Rodolfo il Glabro, "un essere dall'aspetto tenebroso" dice a un monaco: "Perché mai voi monaci, diversamente da quel che fanno gli altri uomini, vi sottoponete a tante fatiche, veglie, digiuni, penitenze, canti di salmi e innumerevoli altre mortificazioni? Non è forse vero che moltissime persone, pur vivendo nel mondo e persistendo nel peccato fino al termine della vita, sono destinate a godere di quella stessa pace cui voi tendete? Per guadagnare il premio della felicità eterna, che spetta a voi in quanto giusti, basterebbe un giorno o un'ora sola. Cosi mi domando perché tu stesso con tanto zelo, non appena senti la campana, balzi prontamente dal letto interrompendo la dolcezza del sonno, mentre potresti startene a dormire fino al terzo rintocco ... Non avete nulla da temere: siete liberi di seguire i vostri impulsi e di soddisfare senza danno qualsiasi piacere carnale". Il sogno-visione sembra la proiezione di quell'inquietudine esistenziale che porta Rodolfo il Glabro di monastero in monastero nella Borgogna dell'anno Mille; sogno-visione fatto di immagine e parola, che percuote vista e udito, incrinando il propositum monastico: "Con queste e simili sciocchezze il diavolo, perfido com'era, si faceva gioco del monaco; anzi lo abbindolò al punto di convincerlo ad astenersi dal partecipare con gli altri al servizio del mattutino".
Si può rintracciare il percorso del sogno-visione di Rodolfo: esso s'ncontra nella "Visto Anselli Scholastid", testo fatto scrivere da Oddone di Saint-Germain d'Auxerre tra gli anni trenta e cinquanta del secolo XI, quando Rodolfo, dopo lungo girovagare, si ritira in quel monastero. E una visione che egli forse ha sentito tante volte raccontare dal suo abate (il monaco anonimo?), ma che adatta ai suoi stati d'animo, ad un mondo onirico, nel quale prendono figura le sue inquietudini e che affascina Rodolfo.
Quando scrive il libro V delle Storie, Rodolfo - nato verso il 985 non si sa con precisione dove, ma con ogni probabilità in Borgogna - è ormai anziano, forse al riparo delle "sciocchezze", certo ancora assai turbato dai ricordi. Da adolescente, appena compiuti i dodici anni, era stato sottratto con la forza alle "perverse vanità del mondo"; e nella sua monacazione obbligata egli aveva mutato l'abito, "ahimè l'abito soltanto, non il carattere". E dunque gli insidiosi "perché" e gli attrattivi inviti che il demone, laido, con eloquenza perfida e seducente, rivolge al "monaco", non possono essere che gli stessi che hanno travagliato Rodolfo da giovane, lasciandolo "pieno di turbamento e di confusione", fino a prostrarlo, a fargli cercare l'unica via di scampo nelle parole "Signore Gesù, che sei venuto per la salvezza dei peccatori, in virtù della tua immensa misericordia abbi pietà di me". Si intuisce che le "perverse vanità del mondo" non hanno mai cessato di esercitare la loro tentazione sul monaco, turbandone la coscienza; di qui le ribellioni, le arroganze, le negligenze, sentite come "gravi peccati" e perciò sofferte e represse. Ma anche pronte ad esplodere. Rodolfo stesso ricorda: "Per quanto i superiori e i fratelli spirituali mi esortassero per il mio bene alla moderazione e alla santità, io, col cuore ricoperto da una spessa corazza di riottosità e presunzione, rifiutavo per orgoglio di accettare quei salutari consigli. Mi ribellavo ai più anziani, infastidivo i coetanei, opprimevo i più giovani; insomma, a dirla franca, la mia presenza era un tormento, la mia assenza un sollievo per tutti. Infine, spinti da questi e da altri simili motivi, i monaci di quel luogo mi cacciarono dalla sede della loro comunità, sapendo d'altronde che non mi sarebbe mancato un tetto dove abitare, se non altro in virtù delle mie cognizioni letterarie, come s'era già sperimentato in varie occasioni". "Più volte" Rodolfo è espulso dalla comunità; è costretto a cercarsi un altro monastero; ma il diavolo è sempre in agguato nei luoghi dei suoi spostamenti: a Saint-Léger de Champeaux, a San Benigno (Saint-Bénigne) di Digione, a Santa Maria di Melleraye (o Moutiers-Sainte-Marie), la "figura ripugnante" gli si presenta verso il mattino, acquattata ai piedi del letto, o eruttata dalle latrine, o affannata su per le scale, sempre urlante. Nel ricordo di Rodolfo le visioni demoniache si intrecciano al suo richiamare febbrilmente alla memoria negligenze, colpe, trasgressioni commesse "dall'infanzia in poi". Restare a letto è dolce verso l'alba; ma il demonio grida due, tre volte "Eccomi! eccomi! io sto con quelli che rimangono qui". "Indulgere al riposo" è vizio, al pari dei "più svariati vizi" nei quali insistono "gli innumerevoli individui" che non hanno rinunciato al mondo; e dunque, mancare alla preghiera del mattino, sottrarsi al primo obbligo della giornata, nel monaco ingenera sensi di colpa, lacerazioni, paure: "spaventato" Rodolfo balza dal letto e corre a gettarsi "ai piedi dell'altare del santissimo padre Benedetto", a lungo restando "steso e immobile".
Il secondo libro delle "Storie" di Erodoto - commentato da Alan B. Lloyd e tradotto con intelligente eleganza da Augusto Fraschetti - è dedicato all'Egitto. Erodoto fu sulle rive del Nilo tra il 449 e il 450 a.C.: visitò Pelusio, Bubastis, Sais, Eliopoli, Chemmis, Tebe, Menfi, Elefantina; come informatori, ebbe sia discendenti degli Egiziani che avevano appreso il greco dagli Ioni, sia sacerdoti d'alto rango. Da un lato, la civiltà egizia è, per lui, quella più antica, religiosa e saggia: la civiltà che ha fondato il tempo e nominato gli dei; dall'altro, è quella più strana - dove tutte le cose sono capovolte rispetto al mondo greco. Con la sua infinita amabilità e la sua scrupolosa competenza, Erodoto parla di tutto: gli oracoli, i sacrifici, i gatti, i coccodrilli, la fenice, i serpenti alati, le profezie, la medicina, l'imbalsamazione, i pesci, le zanzare, i labirinti, il Nilo, gli dei, le inondazioni, i santuari, i sacerdoti, i prodigi. Elena di Sparta, Sesostri, le piramidi, Micerino, gli Etiopi, gli abiti, Psammetico, Amasi. Nel primo libro, Erodoto ci aveva mostrato le sue qualità di complicato e variegato narratore. Qui trionfa il suo talento di etnologo: 1''Egitto è il più bei testo di etnologia che sia mai stato scritto. Ma Erodoto non sarebbe Erodoto se si dimenticasse di raccontare. La storia di Elena, quella di Micerino e quella dei ladri di Rampsinito sono tra le sue novelle più straordinarie: intrecciate con arte raffinatissima al corpus etnologico, evocano un delizioso sapore d'Oriente. Il moralista, infine, si affida alla storia di Amasi. Secondo il modello del faraone Amasi, che la mattina curava gli affari politici e poi si divertiva, il nostro arco psicologico-morale non deve essere mai troppo teso: altrimenti, cadiamo preda delle furie. Ciò che conta, nella vita come nella letteratura, è soprattutto l'arte della variazione.
Indice - Sommario
Introduzione al Libro II
Bibliografia
Abbreviazioni bibliografiche
Nota la testo del libro II
edizioni e commenti
Sommario del Libro III
Tavola cronologica
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Nota al testo del Libro II
Il Libro II delle Storie
Scoli
Lessico
COMMENTO
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Il secondo libro delle Storie di Erodoto è il risultato di oltre due secoli di interesse greco verso l'Egitto. Questo interesse fu molto importante sia nel fornire sull'Egitto una massa considerevole di informazioni largamente accessibili, sia nel determinare la lunga storia della partecipazione diretta dei Greci negli affari politici e militari egiziani, storia che divenne una parte integrante del tema di Erodoto. E dunque essenziale, per uno studio del secondo libro, delineare l'attività greca in Egitto durante l'età arcaica e l'età classica, fino alla metà del quinto secolo.
Erodoto identifica tre categorie di Greci: "Quando Cambise, figlio di Ciro, marciava contro l'Egitto, anche altri Greci si recarono lì, alcuni, come ci si potrebbe aspettare, per commercio, altri come soldati, altri ancora per visitare lo stesso paese". Questi gruppi tuttavia non furono certo limitati all'ambito del sesto secolo. Mercanti e soldati greci possono essere individuati in Egitto già in un'età molto più antica, mentre l'attestazione di visitatori e studiosi, sebbene meno chiara e attendibile, è comunque indubbia. Questi gruppi non esauriscono tutte le possibilità; per il settimo e il sesto secolo esiste infatti la possibilità che alcuni Greci abbiano operato in Egitto come esperti navali.
Dopo il lungo iato del medioevo ellenico, i Greci appaiono in Egitto per la prima volta come mercanti all'inizio del regno di Psammetico I (664-610 a. C.); inoltre dalla fine del settimo secolo i Milesi avevano stabilito in Egitto un importante centro commerciale a Naucrati presso Sais, la capitale della ventiseiesima Dinastia, che regnò sul paese dal 664 fino alla conquista persiana del 525. Perfettamente adatta come base per il commercio d'esportazione e d'importazione, Naucrati si sviluppò in fretta e attrasse per primi Egineti e Sami; in seguito contingenti da Chio, Teo, Focea, Clazomene, Rodi, Cnido, Alicarnasso, Faselide e Mitilene. Nel 570 (o intorno al 570) la sua posizione si consolidò in seguito al movimento antiellenico che portò Amasi sul trono d'Egitto; la città allora divenne il centro attraverso cui doveva essere convogliato tutto il commercio greco nel paese. Il nucleo centrale di questo interesse commerciale greco era costituito dal grano, ma venivano acquistati anche oggetti di faïence e forse lino, papiro e avorio. In cambio i Greci esportavano in Egitto soprattutto argento e vino.
Anche mercenari sono chiaramente documentati nei primi anni del regno di Psammetico I, quando truppe provenienti dalla Caria e dalla Ionia svolsero un ruolo cruciale nella riconquista dell'indipendenza egiziana dal dominio assiro e nella restaurazione in Egitto, nel 656, da parte di Psammetico, di un potere centralizzato e unificato. Psammetico in seguito insediò i mercenari in campi permanenti alla frontiera nord-orientale; resti di questi campi sono stati portati alla luce a Dafne e a Magdolo. Qui essi avrebbero dovuto chiaramente costituire una barriera contro eventuali invasioni da parte di pericolose potenze asiatiche come gli Assiri, i Caldei e, più tardi, i Persiani. Mercenari greci furono utilizzati dall'Egitto anche nella sua politica estera aggressiva, di cui l'esempio meglio conosciuto è l'invasione della Nubia nel 593/2, durante il regno di Psammetico II. Questi condusse i mercenari almeno fino alla terza cateratta e diede a un contingente di soldati greci l'opportunità di registrare, al loro ritorno, il proprio passaggio in iscrizioni su uno dei colossi di Ramesse II ad Abu Simbel. In questo contesto, e probabilmente in ogni altra occasione, i mercenari agivano sotto il comando operativo di ufficiali egiziani.
I mercenari comunque non erano il solo contingente militare greco che si trovasse in Egitto durante l'età arcaica e l'età classica. Anche gli Ateniesi e altri membri della confederazione di Delo furono presenti in Egitto, in numero considerevole, come alleati tra il 460 e il 455 circa: essi vi si recarono per sostenere la rivolta di Inaro contro i governanti persiani. La loro catastrofica sconfitta in questa avventura evidentemente dissuase gli Ateniesi da ulteriori e importanti impegni, in Egitto, dello stesso tipo.
Secondo Erodoto anche la pura e semplice curiosità condusse molti Greci in Egitto. Alcuni di loro saranno stati visitatori, ma senza dubbio altri potrebbero essere definiti studiosi. Al tempo di Erodoto, si riteneva che molte figure famose della cultura greca avessero già visitato l'Egitto e acquisito lì saggezza o dottrina: p.es., Omero, Licurgo, Solone e Pitagora. In genere la storicità di simili tradizioni è molto dubbia, ma almeno nel caso degli artisti Telecle e Teodoro può essere avanzata una fondata pretesa di veridicità.
Più problematiche sono le implicazioni dell'affermazione di Erodoto secondo cui il faraone Neco (610-595 a. C.) avrebbe impiegato triremi nella sua flotta. E' possibile che queste imbarcazioni fossero progettate e costruite da artigiani greci e che essi fornissero anche l'addestramento iniziale al loro uso; tuttavia, in mancanza di ulteriore documentazione, il preciso sfondo storico dell'affermazione di Erodoto resta necessariamente oscuro.
I rapporti tra questi visitatori greci e gli Egiziani a volte erano certamente tesi, e potevano degenerare in aperta e violenta ostilità. La politica militare saitica, che preferiva mercenari greci alle truppe indigene, offendeva naturalmente la classe dei guerrieri egiziani o machimoi; sappiamo che durante il regno di Psammetico I un notevole contingente emigrò in Etiopia, dove indubbiamente i machimoi ritenevano che sarebbero stati trattati con maggiore rispetto.
Questo terzo volume del Cristo, a cura di Claudio Leonardi, disegna, con i testi latini dal IV al XII secolo, un panorama forse filosoficamente più incerto ma anche più sconvolto, tragico e commovente.
Tramontati l'impero e la filosofia greca, Cristo diventa la figura centrale della mente occidentale, attorno alla quale precipitano tutti i pensieri e le immagini. La civiltà crolla, i barbari travolgono gli imperi, e i filosofi (e i barbari) non pensano che al Dio-uomo e al suo significato per noi. Se la filosofia greca aveva sottolineato la natura divina del Cristo e proposto all'uomo la divinizzazione, la cultura latina mette in rilievo la natura umana del Cristo, che soffre sulla croce, e propone all'uomo la redenzione.
Da Agostino ad Anselmo di Canterbury, un interrogativo drammatico percorre questi testi: Dio non aveva altro modo per liberare gli uomini dalla loro condizione mortale? Era necessario che il suo Figlio, Dio eterno come Lui, divenisse uomo e morisse? Terribile interrogativo, che mette in dubbio la necessità dell'incarnazione. Agostino risponde: «[Cristo] si è fatto mortale senza abbassare la dignità del Verbo, ma avendo assunto la debolezza della carne; non è però rimasto neppure mortale nella carne, ma anzi l'ha risuscitata dalla morte». Fulgenzio commenta: «La divinità di Cristo [...] sta dappertutto compiutamente, ma senza volume, in modo che nessun luogo sia senza divinità, e insieme nessun luogo possa tuttavia contenerla come in un luogo». Gregorio Magno legge il Cantico, Giobbe, Ezechiele, e dovunque scorge il Cristo, con un ardore interpretativo e visionario che rende folgoranti le sue immagini. Giovanni Scoto esprime la doppiezza del Verbo: incomprensibile ad ogni creatura visibile e invisibile; e figura infinitamente molteplice, che corre attraverso le cose e spinge l'uomo e la natura verso la divinizzazione totale. Guitmondo d'Aversa esalta la presenza fisica di Cristo nell'ostia, di cui il fedele si nutre in una specie di cannibalismo sacro. Infine Anselmo di Canterbury inneggia all'ordine dell'universo, di cui anche il peccato fa parte, e conclude la sua opera con una preghiera: «O Signore, fa' che io possa assaporare con l'amore quello che assaporo con la conoscenza; che io possa sentire con l'affetto ciò che sento con l'intelletto»: preghiera che racchiude il senso ultimo di questo libro e di qualsiasi libro umano.
"Le cose della guerra", che la Fondazione Valla pubblica con l'ampia introduzione e il commento di Andrea Giardina, è stato scritto nel quarto secolo dopo Cristo, probabilmente sotto l'imperatore Costanzo II. Non sappiamo chi l'abbia composto: certo qualcuno che si era ritirato a vita privata dopo significative esperienze nell'amministrazione civile; e, come un dilettante stravagante e geniale, sollecito del bene della patria, voleva soccorrere coi suoi consigli l'imperatore e l'impero. Il testo, specie secondo Santo Mazzarino, ha un'importanza capitale per lo studio dell'economia tardo-antica. L'anonimo parla delle largizioni smodate dello Stato, del crescente depauperamento delle classi inferiori, della disonestà dei governatori, della contraffazione della moneta aurea, della necessità di una riforma monetaria e della riduzione della ferma militare. Il lettore non specialista rimarrà affascinato soprattutto dalle descrizioni di macchine belliche (a metà tra reali e fantastiche), che hanno avuto un ruolo di primo piano nella storia del pensiero tecnologico. La liburna: il carro falcato: la ballista a quattro ruote: la ballista fulminale: il ticodifro: il ponte di otri: lo scudo chiodato: la plumbata tribolata: il toracomaco - vengono descritti con puntiglio realistico e, insieme, con una specie di incanto fantastico, come se fossero ircocervi o ippogrifi. Le riproduzioni di alcune bellissime illustrazioni appartenenti a un codice del quindicesimo secolo impreziosiscono il volume.
Indice - Sommario
Introduzione
Nota alle illustrazioni
Abbreviazioni Bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Le cose della guerra
COMMENTO
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Da Voltaire al tardo impero
Il 26 febbraio del 1769 Voltaire scrisse a Caterina II, imperatrice di Russia, e le propose di utilizzare, nell'imminente guerra contro i Turchi, un temibile strumento di morte, che avrebbe sorpreso e atterrito gli avversari: "Non basta fare una guerra vittoriosa contro questi barbari e poi concluderla con una pace qualsiasi; non basta umiliarli, bisogna distruggerli. Un uomo dalle idee nuove mi diceva, qualche giorno fa, che nelle vaste pianure dove le vostre truppe si apprestano a marciare, si potrebbe fare uso facilmente, e con successo, di antichi carri da guerra, modificati. Egli immaginava carri a due timoni, dotati, alla loro estremità, di un largo frontale destinato a proteggere il pettorale dei cavalli. Ciascuno di questi carri, molto leggero, sarebbe guidato da due fucilieri, situati all'interno, su un soppalco. I carri dovrebbero precedere la cavalleria. Lo spettacolo riempirebbe i Turchi di stupore, e quello che stupisce soggioga. Ciò che non servirebbe a nulla in un paese frastagliato o montagnoso, potrebbe avere effetti sorprendenti in pianura, almeno per una sola campagna. Il tentativo costerebbe ben poco, ma potrebbe risultare molto utile, senza controindicazioni. Ecco quello che mi diceva il mio sognatore, e io lo ripeto all'eroina del nostro secolo. Ella giudicherà con un colpo d'occhio. Potrà riderne, ma perdonerà allo zelo ".
L'"uomo dalle idee nuove", il "sognatore", non era altri che lo stesso Voltaire. E non era la prima volta che il filosofo proponeva a un sovrano l'idea di riesumare, in forma aggiornata, uno dei più antichi e tenaci miti dei campi di battaglia: il carro falcato, un veicolo munito di lame taglienti, destinate a distruggere la fanteria nemica. Lo aveva già fatto durante la guerra dei sette anni, suggerendo al re di Francia Luigi XV, per il tramite del duca di Richelieu, di adoperare contro Federico II quella macchina "molto più affidabile, molto più temibile" delle armi messe in campo dai Prussiani. Il marchese di Florian si era entusiasmato dell'idea (per questo Voltaire lo chiamerà con l'appellativo di "sovrintendente ai carri di Ciro"), ne aveva chiesto un modellino e lo aveva presentato al ministro d'Argenson. Voltaire si mostrava sicuro del successo della sua scoperta: appena seicento uomini e seicento cavalli, in pianura, avrebbero annientato un esercito di diecimila uomini, mentre soltanto cinquanta cannoni dal tiro preciso avrebbero potuto neutralizzare quella "petite drôlerie". Unico inconveniente: i carri falcati potevano essere usati una sola volta, perché dopo l'effetto sorpresa non erano più efficaci. Uomini intorpiditi dalla routine - egli aggiungeva - non avrebbero potuto apprezzare quella novità. Ci voleva gente d'immaginazione e di genio. E confidava: "Ammetto di essere ridicolo, ma insomma, se un monaco con del carbone, dello zolfo e del salnitro ha cambiato l'arte della guerra in tutto questo sporco mondo, perché mai un imbrattacarte come me non potrebbe rendere qualche piccolo servizio incognito?". Tuttavia, con il passare del tempo, egli si rese conto di non essere Berthold Schwarz, l'inventore" della polvere da sparo, e che le possibilità di veder realizzato il proprio progetto erano quanto mai remote ("Nessun generale oserà mai servirsene per paura del ridicolo in caso d'insuccesso. Ci vorrebbe un uomo risoluto... che fosse un po' macchinista e che amasse la storia antica..."); ma non rinunciò - soprattutto dopo la bella vittoria di Federico II a Rossbach - al piacere della recriminazione: "Ci ha battuto indegnamente. Sarebbe stato meglio... far correre dei carri d'Assiria in aperta campagna, piuttosto che farsi accoppare tra due colline ed essere costretti a fuggire vergognosamente davanti a sei battaglioni prussiani, senza aver combattuto".
Con l'imperatrice di Russia Voltaire fu più insistente: quasi petulante. Caterina gli rispose una prima volta nell'aprile dello stesso anno 1769: "Nulla prova di più, signore, la sincerità dei vostri sentimenti nei miei confronti, di quanto mi dite su quei carri di nuova invenzione. Ma i nostri uomini di guerra rassomigliano a quelli di tutti gli altri paesi: le novità non sperimentate appaiono loro discutibili". Era un modo garbato e deciso di chiudere il discorso, ma il 27 maggio Voltaire ritornò sull'argomento con nuovi particolari: i carri, in numero di appena mezza dozzina, avrebbero dovuto precedere un corpo di cavalleria o di fanteria e sarebbero stati sicuramente efficaci, a meno che i giannizzeri di Mustafà non avessero fatto uso di cavalli di Frisia. Ancor più insistente fu in una lettera del 10 aprile dell'anno successivo: "Ho buoni motivi per credere che la grande armata di Vostra Maestà imperiale si troverà nelle pianure di Adrianopoli nel mese di giugno. Vi supplico di perdonarmi se oso insistere ancora sui carri di Tomiride. Gli esemplari che metto ai vostri piedi sono di concezione completamente diversa da quelli dell'Antichità. Non appartengo affatto al mestiere degli assassini; ma proprio ieri due eccellenti omicidi tedeschi mi assicuravano che l'effetto di questi carri sarebbe sicuro in un primo scontro, e che sarebbe impossibile a un battaglione o a uno squadrone resistere all'impetuosità e alla novità di un simile attacco. I Romani si facevano beffe dei carri da guerra, e avevano ragione. Essi sono soltanto uno scherzo, una volta che vi si è fatta l'abitudine. Ma la loro prima apparizione deve certamente spaventare, e scompigliare tutto".
Questo "Commento ai Salmi" è il cuore di un'opera sterminata, che Agostino compose per tutta la vita, e che contiene le sue pagine più luminose dopo le "Confessioni". Durante la celebrazione della Messa, al termine della lettura delle Scritture, i fedeli cantavano un salmo; e Agostino lo interpretava davanti al pubblico raccolto nella chiesa. Qualcuno stenografava l'omelia: Agostino rivedeva e trascriveva il testo; così che questo "Commento", sebbene stilisticamente sapientissimo, ci tramanda la viva voce di Agostino - le sue domande, le sue risposte, le sue pause, il ritmo ansioso di chi vuoi persuadere ed essere persuaso. Tutti i grandi temi di Agostino confluiscono in queste orazioni. Il mistero di Dio e del cuore umano: due abissi che si attraggono. Cristo come luce, che illumina gli angeli e l'uomo, e come corpo, come debolezza, come ferita. Il tempo che scorre e trascina via i nostri pensieri, i nostri sentimenti e tutte le cose. Il sogno di quando usciremo fuori dal tempo nel non-tempo, davanti al Cristo non-incarnato, di cui il Cristo incarnato è solo l'ombra. La mescolanza, nelle stesse persone, della città terrena e della città celeste. E - tema che si insinua in tutti gli altri e avvolge tutti gli altri - il desiderio di Dio, della dolcezza di Dio, del Dio onnipresente e introvabile : "Si arriva a Dio come seguendo qualcosa di dolce, non so quale diletto interno e nascosto, quasi che dalla Sua casa risonasse dolcemente uno strumento musicale".
Ciò che distingue questo "Commento", tra le opere di Agostino, è il ricamo delle citazioni bibliche e della prosa latina: mai l'arte della citazione e della tarsia giunse a questa sublimità. E la rappresentazione della corposità metaforica della vita dello spirito. È il principio che tutte le immagini possono significare Dio. È il procedimento mai rettilineo: il procedimento a onde, a variazioni, a domande, a ripetizioni, a echi, a risonanze infinite: una rete ansiosa, avvolgente, mobile di interrogazioni - verso un punto che ci sfugge e ci sfuggirà sempre, come, diceva Baudelaire, "cet ardent sanglot qui roule d'âge en âge / Et vient à mourir au bord de votre éternité!".
Indice - Sommario
Introduzione
TESTO E TRADUZIONE
- Conspectus siglorum
- Salmo 25
- Salmo 29
- Salmo 41
- Salmo 51
- Salmo 64
- Salmo 76
- Salmo 86
- Salmo 89
- Salmo 92
- Salmo 109
- Salmo 132
- Salmo 133
- Salmo 136
- Salmo 143
COMMENTO
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Indice dei nomi e di alcune cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'Introduzione
I "Salmi" e la loro interpretazione nella chiesa antica
I. I "Salmi". Il libro dei "Salmi" è una collezione di poemi lirici, d'ispirazione religiosa, composti in epoche diverse della storia d'Israele, sia come formule ufficiali per le cerimonie del culto, sia anche per uso privato dei devoti di Jahweh, i quali ricevettero poi, presto o tardi, una destinazione liturgica. Uno dei tipi più comuni di salmo è l'inno, il canto di lode a Jahweh, in frequente connessione col tempio di Gerusalemme, dove la comunità esprime la sua gratitudine per i benefici di cui è stata oggetto da parte del suo Dio, dalla creazione alla liberazione dall'Egitto e dagli altri nemici. Altri salmi sono di lamentazione: sia privata da parte di chi, nel travaglio e nel dolore, chiede a Dio conforto e liberazione; sia pubblica da parte del popolo che, radunato nel santuario in occasione di qualche sciagura nazionale, cerca in Dio conforto e salvezza. Altri salmi esprimono la fiducia, addirittura la certezza che la preghiera del salmista a Dio sia stata esaudita.
I singoli salmi sono preceduti da una breve rubrica relativa all'autore del salmo, al genere letterario, all'uso liturgico, alle modalità dell'esecuzione, a fatti della vita di Davide. Si tratta d'indicazioni tutt'altro che sistematiche, sempre presenti, a volte in forma brevissima, nel testo greco, assenti in trentaquattro salmi nell'attuale testo ebraico, e con divergenze in gran numero fra testo ebraico e testo greco. Gli studiosi moderni non considerano affidabili i dati delle rubriche: soprattutto quelli relativi all'autore e a fatti della vita di Davide; in effetti la cronologia dei singoli salmi risulta, alla loro indagine, molto incerta: tuttora c'è chi considera parecchi salmi composti al tempo della monarchia; ma è preminente la proposta di considerare i salmi composti, tranne qualche eccezione, in età esiliaca e postesiliaca. Ma intorno all'era volgare in ambiente giudaico era opinione comune che Davide fosse stato l'autore almeno di buona parte dei salmi: il contrasto fra Gesù e i farisei sull'origine davidica del Messia è impostato sulla comune convinzione che il salmo 109 fosse stato composto da Davide.
In ambito cristiano, non solo l'origine davidica di molti salmi non è contestata, ma si dà anche, tranne poche eccezioni, la massima fiducia ai dati storici contenuti nelle rubriche, che perciò forniscono spesso all'interprete lo spunto di base su cui egli sviluppa la sua esegesi del testo.
2. I "Salmi" nel Nuovo Testamento. Intorno all'era volgare i "Salmi" erano parte importante della liturgia del tempio e della sinagoga e perciò fondamento della pietà del giudeo. Ciò spiega perché la loro conoscenza fosse incomparabilmente maggiore di quella degli altri libri poetici dell'Antico Testamento, anche e soprattutto a livello popolare, dove alcuni di essi, per esempio i salmi 2.44.109, contribuivano ad alimentare l'attesa messianica. Non meraviglia perciò incontrare alcuni passi di salmi nelle polemiche che, sin dai primordi della chiesa, si ebbero fra giudei e cristiani intorno alla messianicità di Gesù, mentre di essi faceva uso anche l'incipiente organizzazione liturgica della comunità cristiana.
Per inquadrare adeguatamente la più antica interpretazione cristiana dei "Salmi", dobbiamo rifarci proprio a queste prime polemiche. La messianicità di Gesù, che i cristiani sostenevano contro i giudei, doveva essere suffragata dall'autorità dei testi veterotestamentari considerati d'indiscusso significato profetico e messianico, la cui applicazione a Gesù i cristiani appunto difendevano contro il rifiuto degli avversari. In questo più antico dossier di passi veterotestamentari, i "Salmi" erano ben rappresentati: basti rilevare il molteplice impiego di passi dei salmi 2 e 109 nei più arcaici testi cristiani. Ma passione morte risurrezione di Cristo si situavano al di fuori dell'usuale modulo messianico: se ne cercò pertanto il fondamento scritturistico in testi fino allora non considerati messianici e che ora invece si caricavano di nuovi insospettati significati alla luce dell'evento pasquale. Nell'ambito dei salmi basti pensare al 21 e al 68.
Questa rilettura in chiave cristologica dei vecchi testi si allargò ben presto oltre l'ambito specifico della polemica con i giudei riguardo alla realizzazione, o meno, delle profezie messianiche nella persona e nell'opera di Cristo: gli occhi della fede ormai scoprivano l'annuncio profetico di Cristo nell'Antico Testamento anche là dove il giudeo scettico non era disposto a riconoscerlo. E infatti difficile pensare che costui abbia potuto accettare Ps. 15,10 "Non abbandonerai nell'inferno l'anima mia né permetterai che il tuo santo veda la corruzione" come profezia della risurrezione, com'è invece in Act. Ap. 2,31; o Ps. 40,10 "Uno che mangia il mio pane ha levato contro di me il suo calcagno" come profezia del tradimento di Giuda (cfr. Ev. Matth. 26,23; Ev. Io. 13,18). Ne erano invece ben convinti i cristiani, perché ormai per loro Cristo era diventato la chiave di lettura dell'Antico Testamento: la chiave finalmente capace di rimuovere il velo che offuscava la vista dei giudei (2 Ep. Cor. 3,13), e perciò di aprire alla loro mente il significato più autentico del libro sacro, rimasto fino allora incompreso.
Giovanni Scoto Eriugena, un irlandese, fu tra 1'846 e 1'870 al centro della vita intellettuale alla corte di Carlo il Calvo, "l'imperatore filosofo". Tradusse dal greco il corpus di Dionigi l'Areopagita, Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore; rinnovando la terminologia filosofica d'Occidente. Scrisse il de divina praedestinatione e il Periphyseon. Fuse la tradizione platonica col cristianesimo, così che il platonismo diventò, in lui, la forma naturale della rivelazione cristiana; e incarnò gli sviluppi più arditi della teologia negativa. Egli ricerca il Primo Principio, che fonda l'Essere e sta al di sopra dell'Essere: tenebra che irradia luce. "Tutto ciò che si comprende e si sente non è altro che apparizione del non apparente, manifestazione dell'occulto, affermazione della negazione, comprensione dell'incomprensibile, parola dell'ineffabile, accesso dell'inaccessibile." Il mondo nel quale viviamo è un paradosso vivente. Da un lato, è divino: "questa pietra e questo legno per me sono luce"; non c'è frammento di realtà, per quanto umile e insignificante, che non partecipi dell'eterno raggio divino. Al tempo stesso, il mondo è radicalmente altro da Dio: opacità, caduta, ombra, separazione. Quanto all'umanità, il suo rappresentante più alto, Giovanni evangelista, è superiore alle gerarchie angeliche: come un'aquila spirituale vola con le ah veloci della più inaccessibile teologia, sollevandosi sopra ciò che può essere compreso dall'intelligenza, fino a spingersi all'interno di ciò che trascende ogni significato. Scritta probabilmente tra 1'805 e l'870 e molto diffusa nel Medioevo, L'Omelia sul Prologo di Giovanni è uno dei capolavori della lingua latina: un testo filosofico-poetico che ha la concentrazione degli scritti presocratici e taoisti; una piccola gemma radiosa, che raccoglie in sé i misteri della teologia trinitaria, della creazione, della natura, dell'eterno e del tempo, e della via mistica a Dio.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Nota al testo
Omelia di Giovanni Scoto
COMMENTO
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La civiltà carolingia. Restaurazione politica e restaurazione culturale.
"Dopo che Gesù Cristo, Dio e signore nostro [...] è tornato gloriosamente e trionfalmente alla sede della maestà paterna, per sconfiggere in tutta la terra le cupe tenebre dell'ignoranza, ha ripartito per tutto il mondo i luminari innumerevoli dei santi dottori, risplendenti della luce della predicazione evangelica: affinché, come il cielo si orna di stelle fulgenti, che però sono illuminate tutte da un unico sole, così anche i vasti spazi terrestri risplendessero di santi dottori, illuminati tuttavia dall'eterno sole, destinati, per la preveggenza della divina grazia, a rischiarare le cieche tenebre dell'ignoranza con lo splendore della vera fede e con il glorioso nome di Cristo."*
In questa luce di cosmica Aufklärung, in cui l'ignoranza e l'orrore delle sue tenebre sono il nemico più potente della parola evangelica, il maestro e creatore della nuova civiltà carolingia, Alcuino di York, colloca l'incontro storicamente decisivo del sovrano franco Clodoveo e del santo Vedasto. Al di là del valore topico di certe immagini, le ricorrenti metafore della luce, che nell'opera di Alcuino annunciano le speranze di una spirituale rinascita, affidata al magistero dei santi, esprimono forse la consapevolezza storica che il mondo cristiano, e quindi - nella prospettiva altomedievale - l'umanità intera, hanno attraversato un oscuro passaggio, una zona di rischio. A questa oscurità Alcuino contrappone, con sincero entusiasmo, i valori infine recuperati della eruditio e della sapientia cristiana, quella continuità di linguaggio che soltanto la scrittura può trasmettere: nella costruzione del regno di Dio nel mondo, come si esprime un autore contemporaneo, il liturgista Amalario di Metz, le strutture sono costituite dai maestri e dagli allievi, come una pietra sull'altra, in ordine ascendente.
Se, come è stato osservato, la caratteristica più peculiare dell'alto Medioevo è quella di essere un'età senza scuola, il rischio che l'Occidente romano-barbarico sembra aver corso fra il VII e l'VIII secolo è soprattutto quello della perdita della scrittura, di quelle arti della parola e del discorso che erano state uno dei fondamenti della civiltà antica. Mentre l'aspirazione più profonda e radicale della tradizione cristiana, quella di costruire un uomo totalmente nuovo, libero dai condizionamenti della cultura profana, aveva finito per coincidere con il più affascinante e solenne dei fenomeni storici, la progressiva degradazione di un grande insieme come l'Impero d'Occidente, il rischio era stato quello di una non rimediabile perdita della stessa parola divina, del verbo cristiano consegnato per sempre a una scrittura sacralizzata, e all'ormai ricchissimo patrimonio esegetico, che ne aveva elaborato i complessi strumenti di interpretazione.
La volontà di continuità sarà espressa però dalla cultura ecclesiastica nella forma storicamente più decisiva, attraverso quella restaurazione dell'istituzione imperiale, che condizionerà comunque lo sviluppo dell'Europa del Medioevo. Restaurazione determinata e condizionata a sua volta da un insieme complesso di fenomeni: in primo luogo dal fenomeno macroscopico della ricostituzione, ad opera della dinastia dei Pipinidi, di un grande dominio territoriale al centro dell'Europa, dall'interesse della Chiesa e della cristianità occidentale di conservare quella unità, che in effetti solo l'eccezionale personalità politica di Carlo sarà
in grado di garantire, con le sue conquiste militari, con la sua geniale e tenace opera di recupero culturale. Oggetto di questo recupero, attraverso precise disposizioni legislative, è prima di tutto il fondamentale strumento intellettuale della lingua latina, chiave d'accesso a tutto il patrimonio della cultura scritta, il cui apprendimento e uso appare indispensabile per formare una gerarchia ecclesiastica in grado di svolgere le sue funzioni. I formulari delle Interrogationes responsionis, che ci tramandano lo schema di una sorta di esame annuale, a cui i vescovi avrebbero dovuto sottoporre i primi elementi della gerarchia, i parroci, costituiscono lo strumento attraverso il quale l'autorità sovrana si preoccupa di controllare la conoscenza della pratica liturgica, e possibilmente la comprensione del suo significato. Le formule ricorrenti, legere et intelligere, scire et intelligere, nascere et intelligere, sembrano, quasi paradossalmente, ricalcare il linguaggio della corrispondenza di una raffinata personalità intellettuale come Alcuino, che si adopera a diffondere, nella sua vasta cerchia di amici e di allievi, la pratica di un cristianesimo colto, nutrito di lettura e di meditazione.
Se resta ancora problematica la definizione in termini di "rinascita" di questo decisivo momento storico-culturale, caratterizzato piuttosto da un'evidente volontà di restaurazione, di continuità con il passato "costantiniano", cristiano-imperiale, evidente e determinante appare il consapevole disegno dei sovrani, soprattutto di Carlo Magno, di organizzare le strutture amministrative del regnum utilizzando le istituzioni ecclesiastiche, valendosi di quel contributo dell'episcopato e della sua grande tradizione, che aveva costituito uno degli elementi di forza del potere dei Franchi.
Con questo nuovo grande commento alle Storie di Erodoto, al quale hanno partecipato studiosi inglesi, israeliani e italiani, la Fondazione Lorenzo Valla vuole rendere omaggio al padre della storiografia europea: all'uomo che simboleggia la passione dell'Occidente per tutto ciò che non gli appartiene. Quante cose aveva contemplato Erodoto! Mentre leggiamo le Storie, lo vediamo ancora, animato da una curiosità insaziabile verso la totalità dell'esistenza, entrare nei templi e "osservare, conversare, porre domande, ascoltare, riflettere, paragonare, sollevare problemi, ragionare, talvolta concludere". Egli considera con attenzione e rispetto tutto ciò che fa l'uomo - tutte le nostre imprese gli sembrano degne di interesse o memorabili. E, insieme, sparge un'onnipresente ironia sugli orgogli, le vanità, le pretese, le follie, la hybris dell'uomo. "Nulla è sicuro tra le cose umane". "Tutto nell'uomo è caso e circostanza". Nella nostra vita si fondono l'iridescente imprevedibilità del caso, la ferrea necessità del destino, la strana partecipazione degli dèi - verso i quali egli prova un'ellenica mescolanza di venerazione e diffidenza. Prima o dopo di lui, nessuno ha mai saputo orchestrare così perfettamente una storia totale: i fatti politici, economici, militari, i costumi, le leggende, le favole, il folclore, la geografia, i monumenti si equilibrano in quest'opera che respira l'immensità e la libertà degli spazi aperti. La mente di Erodoto è complessa, molteplice, intrecciata, polimorfa. Quando egli insinua un tema dentro l'altro, e poi ancora un altro, e poi un altro ancora, quando procede a inserti e parentesi successive e scatole cinesi, come a mimare "l'infinito labirinto di concatenazioni" nel quale consiste l'universo, - noi pensiamo ai lontanissimi intarsi, alle ramificazioni di Henry James. Ma poi, se egli vuole, riesce a sembrarci semplicissimo: candido come un barbaro o un bambino. Molto spesso fatichiamo a capire cosa pensi e quale sia il suo punto di vista. Forse è inutile chiedergli un giudizio. Forse dobbiamo soltanto abbandonarci al suo talento di narratore : al senso prodigioso che egli ha della fluidità del tempo - allo scorrere del mondo e del racconto come, diceva Cicerone, "un fiume quieto", che muove da un punto ignoto e si perde chissà dove, oltre ogni limite.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Il testo delle Storie
Abbreviazioni bibliografiche
Introduzione al Libro I
Tavola genealogica
Nota al testo del Libro I
Sommario del Libro I
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Il Libro I delle Storie
Scoli
Lessico
COMMENTO
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
1. "Questa è l'esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso..,": con queste parole famose si apre il primo libro. Non esiste certezza assoluta sull'autenticità di questa frase. Uno scrittore del primo secolo d.C., Tolemeo Hephaistion o Chennos ("quaglia") l'attribuiva ad un innografo tessalo, un certo Plesirrhoos, amato da Erodoto e suo erede. E una testimonianza alla quale nessuno da più peso, da quando la dichiarazione di questo Tolemeo venne catalogata come Schwindelphilologie ("filologia truffaldina"); tuttavia, poiché non è mancato chi catalogasse, anche di recente, l'opera dello stesso Erodoto in una simile categoria, la Schwindlerei letteraria greca sembra divenire una nozione piuttosto relativa. E possibile che l'autenticità della frase iniziale fosse discussa già in antico e che Tolemeo avesse cercato di risolvere il problema in maniera piccante. In ogni caso, questa frase è un'intitolazione. Figurava probabilmente all'inizio e alla fine dell'opera (come nella copia posseduta da Dionisio d'Alicarnasso) oppure sul sillybos o index sporgente dal rotolo nelle biblioteche di Alessandria e di Pergamo. Autentica o no, questa frase famosa ci dice poco o nulla sulla personalità dello scrittore: appena il nome e l'etnico. Ci informa di più sul tema e sullo scopo dell'opera: ma di questo si parlerà in seguito.
E buona regola ricercare i dati biografici di uno scrittore antico nelle opere di quello stesso scrittore, e non servirsi di ricostruzioni apocrife. Purtroppo, a parte le notizie sui viaggi, Erodoto ci dice ben poco di sé. Era convenzione dell'epica greca arcaica, passata poi alla storiografia, che lo scrittore non dovesse parlare di sé quando l'argomento non lo richiedeva. Erodoto, però, è costantemente presente: leggerlo è come sentirlo parlare. Io, me, mio, a me, noi al pluralis maiestatis, ricorrono centinaia di volte in riferimento alla sua persona. Erodoto ci fa ripetutamente partecipi di ciò che pensa, di ciò che ha visto o udito, di cosa si propone di raccontare, con chi ha conversato; esprime dubbi, ragionamenti ed opinioni, invoca persino gli dei. Tuttavia, di sé da pochissime notizie concrete. Dice di esser stato in Egitto, a Tiro, in Arabia; di aver conversato con l'agente di un re scitico, e - se non parla ironicamente - ci fa capire che la sua famiglia possedeva una genealogia (II 143,1), ma non forse un capostipite divino, elemento in base al quale può essere messa in dubbio una sua origine aristocratica. Gli ultimi eventi ricordati da Erodoto appartengono ai due primi anni della guerra del Peloponneso (431/30 a.C.): quindi, sembrerebbe legittimo concludere che la sua attività di scrittore sia terminata non molto dopo quegli anni. Questo è tutto quanto si possa ricavare direttamente dall'opera sulla vita del suo autore. Indirettamente, si possono aggiungere i paragoni che egli fa talvolta con misure e distanze attiche, delie, ioniche e magnogreche: se ne deduce che voleva farsi comprendere dal pubblico di queste regioni.
Per altre informazioni biografiche è necessario volgersi ad altre fonti, lontane anche di secoli e di ambienti culturali diversi. La breve biografia riportata sotto la voce "Erodoto" nel lessico bizantino Suida dice così: "Erodoto: figlio di Lyxes e Dryo, di Alicarnasso, uno degli illustri (locali). Aveva un fratello: Theodoros. Si trasferì a Samo per via di Ligdami, colui che, a partire da Artemisia, fu il terzo tiranno d'Alicarnasso... A Samo si impratichì del linguaggio ionico e scrisse storia in nove libri, a cominciare da Ciro e Candaule re dei Lidi. Dopo essere ritornato ad Alicarnasso ed aver espulso il tiranno, si vide più tardi odiato dai cittadini, ed andò volontariamente a Turi, che era colonizzata dagli Ateniesi. Là morì e fu sepolto nell'agoni: alcuni però dicono che morì a Pella...". A questi si possono aggiungere i dati riferiti nello stesso lessico sotto altre voci: che Erodoto era il nipote o il cugino del poeta e divinatore Paniassi, messo a morte dal tiranno Ligdami; che soggiornò con lo storico di Lesbo Ellianico alla corte macedone di Pella; che dopo una lettura pubblica delle Storie, durante la quale il fanciullo Tucidide versò molte lacrime, Erodoto confortò Oloro, il padre di Tucidide.
Dall'introduzione al libro I
Il primo libro delle Storie prefigura l'intera opera di Erodoto e ne costituisce in un certo senso la quintessenza. Tutti gli elementi caratteristici di contenuto e di forma, di pensiero e di stile, si presentano subito e distintamente al lettore. Si estende immediatamente la panoramica universale della storia erodotea: l'umanità del sesto secolo a.C., Oriente e Occidente, civiltà e conflitti, continuità e mutamenti, i popoli e i grandi protagonisti. Lo spazio geografico si apre a Sardi, Mileto, Efeso nell'Asia minore occidentale, con salti in Grecia, a Corinto, a Delfi, ad Atene e a Sparta; si passa in Media, da Ecbatana e da Ninive al Caucaso, nella Filistia, in Persia; si ritorna in Asia minore, in Lidia, nella Ionia e nelle isole, in Caria e in Licia, con punte ad Occidente, in Corsica, Etruria, Lucania; la scena si trasferisce a Babilonia e si chiude nel paese dei Massageti, ad oriente del mar Caspio. È un giro del mondo arcaico in duecentosedici capitoli, grazie al quale si visitano anche i centri maggiori del dramma storico che si svolgerà nei libri successivi: la Persia, la Ionia, Atene, Sparta. Lo spazio cronologico del nucleo principale del racconto è il trentennio che va dall'inizio del regno di Creso alla morte di Ciro il Grande (560-30 a.C.), con punte digressive nel passato remoto dei Lidi e degli Assiri sino al tredicesimo secolo a.C., dei Medi sino all'ottavo, degli Ateniesi e degli Spartani sino all'alto sesto secolo. Sui due grandi protagonisti, Creso e Ciro, si fonda l'intera struttura del libro, che anche in questo prefigura il resto dell'opera, tutta articolata intorno alla serie dinastica dei re achemenidi, da Ciro a Serse.
A parte i capitoli introduttivi (1-5), il primo libro può infatti suddividersi facilmente in due logoi principali: il logos di Creso (6-94) e il logos di Ciro (95-216). L'ipotesi che originariamente esso fosse composto di tre logoi (1-94; 95-140; 141-216), corrispondenti a tre rotoli di papiro, va incontro alla banale difficoltà che la lunghezza di queste tre parti è sensibilmente diversa, mentre il rotolo di papiro andrebbe inteso proprio come unità di lunghezza. Nulla si oppone invece all'ipotesi che il primo libro occupasse originariamente due rotoli di circa sette metri ciascuno, corrispondenti in questo caso ai due logoi suddetti. Il "primo logos" (così lo chiama lo stesso Erodoto) è dedicato alla Lidia, con al centro il suo ultimo re. Erodoto riassume in brevi frasi introduttive le notizie essenziali su Creso, "colui che io so essere stato il primo ad aver fatto torto ai Greci", per giustificare il punto di partenza della sua ricerca: la "causa", per cui Greci e barbari si fecero guerra, è dopo tutto un proposito deliberatamente espresso dall'autore nella frase iniziale dell'opera. Erodoto passa quindi ad un breve prologo sui re lidi anteriori a Creso: i re autoctoni ed eraclidi sino a Candaule, ed i primi quattro Mermnadi (tre dei quali ebbero per primi rapporti ostiti con i Greci d'Asia minore); il quinto è Creso, il cui regno termina con la caduta di Sardi nelle mani di Ciro (546 a.C.). In questo prologo, che essenzialmente presenta una lista cronologica di regni, alcuni eventi bellici con aneddoti e le prime offerte lidie al tempio di Delfi, spiccano due racconti famosi: la storia di Candaule e Gige e la favola di Arione. Dal cap. 26 al cap. 94 il tema principale è il regno di Creso. Formalmente fedele all'impegno dichiarato, Erodoto apre con una breve rassegna delle ostilità e dei progetti espansionistici di Creso verso la costa ionica e le isole adiacenti; in seguito, però, non si parla più di questi rapporti ostili: anzi, il re lidio emerge come un benefattore filelleno in stretti rapporti con Delfi, che cerca l'alleanza dei Greci contro il pericolo persiano: c'è un divario evidente fra proemio e primo logos. Prima di passare alle vicende storiche del conflitto lidio-persiano, Erodoto inserisce due altri famosi brani novellistici: il dialogo di Creso e di Solone sulla felicità umana con le storie anch'esse ben note di Tello d'Atene e degli argivi Cleobi e Bitone, e la tragica storia di Atys e Adrasto. La morale di questi racconti, chiaramente premonitoria, deve tratteggiare la figura tragica di Creso, che dall'arroganza ingiustificata passa alla perplessità e al dolore. Si perviene quindi al tema principale: la minaccia persiana ed il ricorso di Creso all'appoggio dei Greci, dei loro oracoli, lautamente ricompensati con ricche offerte, e delle loro milizie. Creso vorrebbe l'appoggio delle due città-stato più importanti, Atene e Sparta. Ciò giustifica l'inserimento di due coppie di digressioni: una, più breve, sugli Ateniesi discendenti dei Pelasgi e sui Dori del Peloponneso discendenti di Elleno, ed una su Atene al tempo di Pisistrato e su Sparta intorno alla metà del sesto secolo. Solo Sparta a quel tempo era in grado di promettere l'appoggio richiesto; Creso, quindi, incoraggiato dall'oracolo delfico e dalle promesse spartane, traversa con le sue truppe il fiume Halys ed invade la Cappadocia. Dopo una battaglia non decisiva, Creso si ritira, Ciro invade la Lidia, sgomina l'esercito di Creso nella piana dell'Ermo ed assedia Sardi. Creso chiede allora l'aiuto che gli Spartani avevano promesso, ma gli Spartani proprio in quel periodo sono impegnati in un guerra contro Argo per il possesso della Tireatide: Sardi cade in mano ai Persiani dopo appena quattordici giorni di assedio, Creso è fatto prigioniero, posto sul rogo e poi graziato, cominciando così la sua carriera di consigliere del re persiano. Con ulteriori notizie sulle offerte di Creso agli oracoli greci e due capitoli storico-etnografici sulla Lidia, si conclude il "primo logos" di Erodoto.
La Vita di Cipriano, di Ponzio, ci fa conoscere l'Africa quando la Chiesa nascente era ancora perseguitata, la Vita di Ambrogio, di Paolino, è la storia della città di Milano nel IV secolo. Nella Vita di Agostino, opera di Possidio, che comincia nel punto in cui le Confessioni si arrestano, la maturità e la vecchiaia del più grande scrittore cristiano sono raccontate da chi per anni gli fu vicino.
Per Plutarco, il mito è qualcosa di infinitamente complesso : i suoi cultori dovrebbero indossare le vesti variopinte di Iside per simboleggiare ciò che vi è in esso di molteplice, di ondeggiante, di contraddittorio. Di una sola cosa Plutarco sembra certissimo: non possiamo tradurre il mito in una realtà storica umana, o in un semplice fatto naturale, come se la sua sostanza si esaurisse completamente in queste equivalenze. Quello che caratterizza ogni mito è la straordinaria ricchezza degli accostamenti che ci consente. Noi possiamo trascriverlo in termini demoniaci, matematici, alfabetici, naturali, religiosi ; e mentre lo interpretiamo, ci accorgiamo che ogni segno può avere valori contrastanti, può significare insieme il sole e l'acqua, la materia e la conoscenza. Pensare miticamente significa giungere nel luogo dove il " principio di non contraddizione " è caduto.
Le "Vite di Teseo e di Romolo", commentate con grande erudizione e finezza da Carmine Ampolo in questo volume, riguardano eventi che si collocano prima dei fatti storici, nell'oscurità mitica. Come nelle carte geografiche, oltre le terre conosciute, gli antichi geografi disponevano segni per indicare "deserti" o "zone infestate da belve" o "paludi inesplorate" o "ghiaccio scitico", così Plutarco avanza nei territori favolosi che appartenevano di solito ai poeti tragici e ai mitografi. Il suo procedimento è molteplice. Da un lato egli, che venera l'elemento divino puro e incontaminato, non vuole vederlo troppo mescolato all'elemento umano; e dunque nega o razionalizza le leggende mitiche. Ma, d'altro lato, quando è convinto che il sacro si è calato tra noi, ne riconosce con commossa venerazione il passaggio sulla terra. Invece di abbandonarsi alla sua vocazione di grande ritrattista, evita di chiudere la materia mitica in un profilo psicologico. Non c'è un " personaggio " Teseo o un " personaggio " Romolo - come esistono, invece, l'Antonio o il Cesare di altre Vite. Qui Plutarco racconta incarnazioni celesti, descrive con amore istituzioni religiose e riti, tradizioni strane e curiose, oppure, con una specie di brivido, si inoltra nello spessore barbarico, fosco e brigantesco, che avvolge e nasconde i miti greci e romani.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
Scolî
COMMENTO
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Plutarco nel territorio del mito. Nelle pagine iniziali della "Vita di Teseo" (1-2) Plutarco chiarisce i motivi della scelta della coppia Teseo-Romolo, ma giustifica soprattutto la sua decisione di occuparsi dell'età delle origini di Atene e di Roma, un'epoca ai confini della storia. Spiega il suo atteggiamento con un parallelo felice ed efficace con la cartografia: come nelle carte inserite nei libri di storia si mettevano nelle zone marginali indicazioni su terre inesplorate e invivibili, cosi egli, che ha già trattato in altre Vite l'età dei fatti accertabili o verosimili, potrebbe affermare ora che tocca i territori dove abitano poeti e mitografi, terre in cui non esiste certezza storica.
Il campo della storia viene delimitato con chiarezza e distinto dal campo della poesia e del mito, secondo una tendenza ben attestata e diffusa, anche se molto contrastata e spesso ignorata volutamente da parte dell'erudizione antica. Com'è noto, esisteva un'antica discussione sulla legittimità, l'opportunità e la possibilità stessa trattare l'età più antica, l'epoca delle origini di popoli e di città, di cui molti si dilettavano e di cui soprattutto si teneva conto nella vita politica interna e internazionale. In genere la storiografia locale si interessò sempre delle origini; basti pensare agli attidografi (da Ellanico in poi), benché la grande storiografia greca, prima del quarto secolo, avesse seguito vie sostanzialmente diverse: sono note le gravi riserve espresse da Tucidide (I 1,3 e 20,1), che pure aveva saputo scrivere pagine di storia antichissima (la cosiddetta "archeologia" del primo libro e la "archeologia siciliana" del libro sesto).
Un buon esempio della discussione sull'opportunità di scrivere delle origini oppure di storia recente o contemporanea è offerto dal primo libro del de legibus di Cicerone. Qui, discutendo appunto di verità poetica e di verità storica, della storiografia romana in confronto a quella greca, Attico, in polemica con Quinto Cicerone, preferisce nettamente la storia contemporanea al sentir parlare de Remo et Romulo (I 3,8). A loro volta, due storici ben noti a Plutarco, come Dionisio d'Alicarnasso e Tito Livio, pur cosi diversi, sentono entrambi il bisogno di giustificare la propria trattazione delle epoche più antiche. Malgrado le difficoltà e l'ampiezza del lavoro di ricerca, Dionisio d'Alicarnasso risale con decisione a tempi remoti; deve premettere tuttavia una sorta di autodifesa dalle critiche, che gli sarebbero state rivolte per essersi occupato delle oscure origini di Roma, e deve sostenere che i primordi della città potevano essere ricostruiti in modo veritiero e che essi avevano un carattere greco e illustre (I, 4-5; cfr. I 8). Livio invece si diceva sicuro che i lettori avrebbero apprezzato poco la sua trattazione dell'età delle origini, mentre si sarebbero affrettati a leggere la storia più recente (praefatio 4); specificava inoltre come le tradizioni relative all'età che precedette la fondazione di Roma fossero più abbellite da leggende poetiche di quanto fossero documentate: così, da parte sua, non intendeva ne accettarle ne respingerle. Ancora in tempi più vicini a quelli di Plutarco, Flavio Giuseppe nell'introduzione alla Guerra giudaica (5-6) dichiarava la sua preferenza per la storia contemporanea, criticando chi "riscriveva" la storia antica.
L'atteggiamento di Plutarco e le sue spiegazioni sono condizionate - com'è chiaro - da questa antica discussione. Il dilemma, storia antica o storia contemporanea, imponeva una scelta tanto di campo storico quanto di fonti. In tal modo, come nella Vita di Nicia (1,5) Plutarco aveva chiarito che da biografo intendeva solo integrare la grande storiografia con la ricerca di altri elementi trascurati, servendosi di fonti documentarie (iscrizioni votive, decreti)', così affrontando le origini di Atene e Roma spiega come abbia dovuto dare ascolto all'elemento leggendario, ma cercando sempre di razionalizzarlo e di renderlo verosimile. Aveva già espresso il suo scetticismo con forti perplessità a proposito di Licurgo (Lyc. i) e della stessa cronologia di Numa Pompilio, quando aveva riportato il giudizio negativo dello storico romano Clodio sulle genealogie. Non gli restava dunque che seguire il razionalismo della storiografia greca, passato anche a storici e antiquari romani, facendo appello alla comprensione dei lettori, come Livio aveva già fatto (praefatio 7). Per giustificare, ancora una volta, il carattere poco credibile del racconto dell'infanzia di Romolo e Remo (Rom. 8,9) ricorre a un argomento estremo, anch'esso forse una reminiscenza liviana (cfr. praefatio 7): si può credere alle origini divine di Roma se si pensa al grado di potenza che essa ha raggiunto.
Vediamo quali sono le caratteristiche del razionalismo di Plutarco. Come Plutarco abbia considerato il mito e la conoscenza mitica, è problema che esula da questa Introduzione: andrebbe affrontato in un esame globale della sua figura e della grandiosa attività di documentazione e di interpretazione mitologica attestata dai Moralia. Qui, vogliamo soltanto affrontare un problema più limitato: la sua interpretazione dei miti arcaici greci e romani.