Questo volume e i quattro successivi sostituiscono la prima, grande edizione commentata delle "Confessioni" di Agostino. Ad essa hanno collaborato i maggiori studiosi francesi e italiani della sua opera: Jacques Fontaine, che ha scritto l'introduzione generale; Patrice Cambronne, Goulven Madec, Jean Pépin, Aimé Solignac, che hanno scritto parte dei commenti; Manlio Simonetti, che ha curato il testo, l'apparato biblico, e commentato l'ultimo libro; Gioacchino Chiarini, autore della bellissima traduzione; mentre gli altri commenti sono stati affidati a Marta Cristiani, Luigi F. Pizzolato e Paolo Siniscalco; e José Guirau ha allestito la bibliografia generale.
Se l'Occidente deve una metà del suo cuore all'Odissea, certo l'altra metà è riempita da questo libro tessuto in parti eguali di luce e di tenebra. Quale libro immenso! Lode e celebrazione di Dio; storia di una vita, di un'anima, di due culture; sublime testo filosofico e metafisico; saggio sulla memoria, sul tempo, sulla Bibbia; e tutto questo materiale disparato è disposto nelle linee di un'architettura rigorosa e complessa come le chiese che, per dodici secoli, sorsero sulla base di una testimonianza così appassionata. Petrarca adorava le "Confessioni", "questo libro gocciolante di lacrime". Come noi, ne amava la stupenda retorica: il gioco delle ripetizioni, dei ritornelli, dei parallelismi, delle opposizioni, l'inquietante stregoneria verbale, l'ansia dolcissima e drammatica delle interrogative, la mollezza a volte quasi estenuata - la quale suscitava, in lui che scriveva, e suscita in noi, che stiamo leggendo, lo stesso contagio e la stessa commozione.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Nota al testo
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro I
Libro II
Libro III
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro I
Libro II
Libro III
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
Prologo
Il lettore del nostro secolo è tanto più sconcertato dalle "Confessioni" dal momento che le apre con una simpatia nutrita di illusioni molteplici. La discendenza dell'opera, ricca e diversa, può dargli l'impressione che gli basti risalire un certo filone delle letterature moderne per accostarsi con familiarità a un antenato comune di Jean-Jacques Rousseau, Alfred de Musset e André Gide; o anche, tra molti altri, di Michel de Montaigne, Ulric Guttinguer e Marcel Proust. Da questo punto di vista, è sufficiente il solo titolo dell'opera a risvegliare nel lettore echi ingannevoli. Non dimentico del dibattito tra Voltaire e Pascal sugli Essais di Montaigne, il lettore può accingersi a misurare con curiosità se anche chi scrisse le "Confessioni" meritasse già il giudizio di Pascal sullo "sciocco progetto, che egli ebbe di dipingersi", o la rettifica sarcastica di Voltaire, che lo riteneva da parte sua un "progetto affascinante". La memoria, intrisa di biografie e di autobiografie, può anche scoprire nella figura del vescovo d'Ippona un antenato di Nathanael, ubbidiente all'ultimo precetto delle Nourritures terrestres: "creato da tè... ah! il più insostituibile degli esseri". A meno che l'evocazione dell'adolescenza di Agostino non gli lasci sperare, sulle vicissitudini del giovane africano a Cartagine, dettagli piccanti come i ricordi del giovane Rousseau sulle sue avventure veneziane. Esistono infatti Confessioni e Confessioni. Qui non troveremo ne confidenze scabrose, ne l'apologia appassionata di un uomo di lettere assetato di giustificazioni, e neppure un'autobiografia intesa nel senso che i moderni (i quali del resto lo hanno inventato) danno al termine. Le Confessioni di Agostino sono prive di compiacimenti: sono lontane sia dal "culto di sé stesso", sia da un progetto letterario gratuito. Anzi esse sono solo parzialmente "autobiografichc"; quanto basta perché un'esperienza vissuta e individuale fornisca precisa materia e precisa illustrazione a una lode pubblica di Dio che fu misericordioso nei confronti del peccatore Agostino.
Le ultime parole fanno comprendere che non si entra in queste "Confessioni" con la tranquillità con cui si affrontano le confidenze troppo umane di un memorialista o di un romanziere moderno. L'universo interiore di Agostino e le forme del suo discorso possono, a prima vista, sembrarci ugualmente sorprendenti, o addirittura estranei. Non solo per il sentimento di estraneità ispirato dal racconto di ogni esperienza mistica, nel senso che diamo ancora a questa parola pensando a Teresa d'Avita o a Giovanni della Croce. Ma l'estremismo concertato della sensibilità religiosa di Agostino e della sua espressione non ci disturba meno di quanto ci imbarazzi, in alcune pagine, l'agilità sottile della sua ragione alle prese con le contraddizioni più delicate dell'animo umano. Le risonanze filosofiche e bibliche, sapientemente accordate o contrastate, sono difficili da cogliere a prima vista per un lettore che abbia scarsa familiarità con il tardo platonismo e spesso una familiarità appena maggiore con il Nuovo e soprattutto con l'Antico Testamento. Anche se iniziato discretamente alla complessità di una simile cultura classica e cristiana, il lettore talvolta faticherà nel seguire i meandri del pensiero di Agostino: si pensi alle pagine dove, sotto il riflesso cangiante e volutamente disparato delle metafore e delle astrazioni, si tesse un linguaggio adeguato con attenzione a esprimere il proprio oggetto: in questo linguaggio le perifrasi e le riprese si seguono a stento, come in un discorso esoterico.
Non è però meno vero che, a questo proposito, noi non siamo più prevenuti, come lo erano i nostri predecessori, dall'ossessione del "genio luminoso". Di fronte a uno stile talvolta più barocco che classico, l'apertura del gusto moderno ci mette al riparo da molti pregiudizi anche recenti, scusabili in lettori del secolo scorso che non avevano ancora letto A rebours, ne conosciuto i deliri verbali della poesia dopo Rimbaud. Nonostante qualche difficoltà formale, il lettore di buona volontà non può declinare l'invito al viaggio nell'universo interiore di Agostino. Se accetta di compierlo può constatare che, a prezzo di uno sforzo minimo di attenzione, "tutto lì parla all'anima, in segreto, la sua dolce lingua natale". Anche per il lettore di oggi le Confessioni conservano fascini immediati: il calore umano, la freschezza dell'anima, le sfumature delicate e multiple di un sentimento religioso e poetico in accordo con quello del salmista, ma anche la convinzione, la passione dell'assoluto e la penetrazione metafisica, l'accanimento paziente nel comprendere le ambiguità umane, la rivendicazione incessante dei diritti della ragione e del libero arbitrio (anche di fronte a un Assoluto personale che precorre sempre le decisioni dell'uomo). Le Confessioni non smettono di testimoniare con foga quella che chiamiamo, dopo i filosofi del diciottesimo secolo, la "caccia alla felicità". Agostino si appassiona a ciò che noi chiamiamo la ricerca del senso: senso dell'esistenza umana, del male e della morte, della colpa, e dell'equilibrio perduto e ritrovato. Come noi, diffida dei sistemi, esercitando nei loro confronti una critica esigente; vive tragicamente la tentazione dello scetticismo disperato; e, anche quando pensa di aver trovato, continua con passione a cercare di comprendere le debolezze dell'uomo, i limiti della ragione e le oscurità del nostro destino. Non c'è bisogno che il lettore sia un credente per trovare nelle "Confessioni" quel "nutrimento di verità" che Agostino si dichiara capace di trarre dalla poesia classica, anche da quella più lontana dal cristianesimo. Quand'anche non condivida le sue convinzioni religiose e filosofiche, il lettore di oggi non può non ammirare le qualità invidiabili di questa personalità così attraente: l'onestà intellettuale; il coraggio di continuare a cercare sempre; soprattutto, forse, il gusto di vivere nel fervore del cuore e dello spirito.
In questo senso cercheremo di indicare la via al lettore, prima che egli la percorra in compagnia di guide migliori. Esiste sulle "Confessioni", tanto più su Agostino, una bibliografia sempre rigogliosa, più considerevole che sulle altre grandi opere dell'antichità classica. Eccellenti e recenti edizioni, soprattutto in francese e in italiano, possiedono introduzioni la cui ampiezza è pari al valore. Actum ne agas: ci guarderemo dal ripeterle. Cercheremo anche di non sciupare le note preparate in questi volumi da specialisti eminenti sui particolari del testo e dei suoi problemi. Bisogna innanzitutto che il lettore si impegni di buon grado e prenda coscienza delle affinità tra Agostino e un uomo d'oggi.
Con questo nuovo grande commento alle Storie di Erodoto, al quale hanno partecipato studiosi inglesi, israeliani e italiani, la Fondazione Lorenzo Valla vuole rendere omaggio al padre della storiografia europea: all'uomo che simboleggia la passione dell'Occidente per tutto ciò che non gli appartiene. Quante cose aveva contemplato Erodoto! Mentre leggiamo le Storie, lo vediamo ancora, animato da una curiosità insaziabile verso la totalità dell'esistenza, entrare nei templi e "osservare, conversare, porre domande, ascoltare, riflettere, paragonare, sollevare problemi, ragionare, talvolta concludere". Egli considera con attenzione e rispetto tutto ciò che fa l'uomo - tutte le nostre imprese gli sembrano degne di interesse o memorabili. E, insieme, sparge un'onnipresente ironia sugli orgogli, le vanità, le pretese, le follie, la hybris dell'uomo. "Nulla è sicuro tra le cose umane". "Tutto nell'uomo è caso e circostanza". Nella nostra vita si fondono l'iridescente imprevedibilità del caso, la ferrea necessità del destino, la strana partecipazione degli dèi - verso i quali egli prova un'ellenica mescolanza di venerazione e diffidenza. Prima o dopo di lui, nessuno ha mai saputo orchestrare così perfettamente una storia totale: i fatti politici, economici, militari, i costumi, le leggende, le favole, il folclore, la geografia, i monumenti si equilibrano in quest'opera che respira l'immensità e la libertà degli spazi aperti. La mente di Erodoto è complessa, molteplice, intrecciata, polimorfa. Quando egli insinua un tema dentro l'altro, e poi ancora un altro, e poi un altro ancora, quando procede a inserti e parentesi successive e scatole cinesi, come a mimare "l'infinito labirinto di concatenazioni" nel quale consiste l'universo, - noi pensiamo ai lontanissimi intarsi, alle ramificazioni di Henry James. Ma poi, se egli vuole, riesce a sembrarci semplicissimo: candido come un barbaro o un bambino. Molto spesso fatichiamo a capire cosa pensi e quale sia il suo punto di vista. Forse è inutile chiedergli un giudizio. Forse dobbiamo soltanto abbandonarci al suo talento di narratore : al senso prodigioso che egli ha della fluidità del tempo - allo scorrere del mondo e del racconto come, diceva Cicerone, "un fiume quieto", che muove da un punto ignoto e si perde chissà dove, oltre ogni limite.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Il testo delle Storie
Abbreviazioni bibliografiche
Introduzione al Libro I
Tavola genealogica
Nota al testo del Libro I
Sommario del Libro I
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Il Libro I delle Storie
Scoli
Lessico
COMMENTO
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
1. "Questa è l'esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso..,": con queste parole famose si apre il primo libro. Non esiste certezza assoluta sull'autenticità di questa frase. Uno scrittore del primo secolo d.C., Tolemeo Hephaistion o Chennos ("quaglia") l'attribuiva ad un innografo tessalo, un certo Plesirrhoos, amato da Erodoto e suo erede. E una testimonianza alla quale nessuno da più peso, da quando la dichiarazione di questo Tolemeo venne catalogata come Schwindelphilologie ("filologia truffaldina"); tuttavia, poiché non è mancato chi catalogasse, anche di recente, l'opera dello stesso Erodoto in una simile categoria, la Schwindlerei letteraria greca sembra divenire una nozione piuttosto relativa. E possibile che l'autenticità della frase iniziale fosse discussa già in antico e che Tolemeo avesse cercato di risolvere il problema in maniera piccante. In ogni caso, questa frase è un'intitolazione. Figurava probabilmente all'inizio e alla fine dell'opera (come nella copia posseduta da Dionisio d'Alicarnasso) oppure sul sillybos o index sporgente dal rotolo nelle biblioteche di Alessandria e di Pergamo. Autentica o no, questa frase famosa ci dice poco o nulla sulla personalità dello scrittore: appena il nome e l'etnico. Ci informa di più sul tema e sullo scopo dell'opera: ma di questo si parlerà in seguito.
E buona regola ricercare i dati biografici di uno scrittore antico nelle opere di quello stesso scrittore, e non servirsi di ricostruzioni apocrife. Purtroppo, a parte le notizie sui viaggi, Erodoto ci dice ben poco di sé. Era convenzione dell'epica greca arcaica, passata poi alla storiografia, che lo scrittore non dovesse parlare di sé quando l'argomento non lo richiedeva. Erodoto, però, è costantemente presente: leggerlo è come sentirlo parlare. Io, me, mio, a me, noi al pluralis maiestatis, ricorrono centinaia di volte in riferimento alla sua persona. Erodoto ci fa ripetutamente partecipi di ciò che pensa, di ciò che ha visto o udito, di cosa si propone di raccontare, con chi ha conversato; esprime dubbi, ragionamenti ed opinioni, invoca persino gli dei. Tuttavia, di sé da pochissime notizie concrete. Dice di esser stato in Egitto, a Tiro, in Arabia; di aver conversato con l'agente di un re scitico, e - se non parla ironicamente - ci fa capire che la sua famiglia possedeva una genealogia (II 143,1), ma non forse un capostipite divino, elemento in base al quale può essere messa in dubbio una sua origine aristocratica. Gli ultimi eventi ricordati da Erodoto appartengono ai due primi anni della guerra del Peloponneso (431/30 a.C.): quindi, sembrerebbe legittimo concludere che la sua attività di scrittore sia terminata non molto dopo quegli anni. Questo è tutto quanto si possa ricavare direttamente dall'opera sulla vita del suo autore. Indirettamente, si possono aggiungere i paragoni che egli fa talvolta con misure e distanze attiche, delie, ioniche e magnogreche: se ne deduce che voleva farsi comprendere dal pubblico di queste regioni.
Per altre informazioni biografiche è necessario volgersi ad altre fonti, lontane anche di secoli e di ambienti culturali diversi. La breve biografia riportata sotto la voce "Erodoto" nel lessico bizantino Suida dice così: "Erodoto: figlio di Lyxes e Dryo, di Alicarnasso, uno degli illustri (locali). Aveva un fratello: Theodoros. Si trasferì a Samo per via di Ligdami, colui che, a partire da Artemisia, fu il terzo tiranno d'Alicarnasso... A Samo si impratichì del linguaggio ionico e scrisse storia in nove libri, a cominciare da Ciro e Candaule re dei Lidi. Dopo essere ritornato ad Alicarnasso ed aver espulso il tiranno, si vide più tardi odiato dai cittadini, ed andò volontariamente a Turi, che era colonizzata dagli Ateniesi. Là morì e fu sepolto nell'agoni: alcuni però dicono che morì a Pella...". A questi si possono aggiungere i dati riferiti nello stesso lessico sotto altre voci: che Erodoto era il nipote o il cugino del poeta e divinatore Paniassi, messo a morte dal tiranno Ligdami; che soggiornò con lo storico di Lesbo Ellianico alla corte macedone di Pella; che dopo una lettura pubblica delle Storie, durante la quale il fanciullo Tucidide versò molte lacrime, Erodoto confortò Oloro, il padre di Tucidide.
Dall'introduzione al libro I
Il primo libro delle Storie prefigura l'intera opera di Erodoto e ne costituisce in un certo senso la quintessenza. Tutti gli elementi caratteristici di contenuto e di forma, di pensiero e di stile, si presentano subito e distintamente al lettore. Si estende immediatamente la panoramica universale della storia erodotea: l'umanità del sesto secolo a.C., Oriente e Occidente, civiltà e conflitti, continuità e mutamenti, i popoli e i grandi protagonisti. Lo spazio geografico si apre a Sardi, Mileto, Efeso nell'Asia minore occidentale, con salti in Grecia, a Corinto, a Delfi, ad Atene e a Sparta; si passa in Media, da Ecbatana e da Ninive al Caucaso, nella Filistia, in Persia; si ritorna in Asia minore, in Lidia, nella Ionia e nelle isole, in Caria e in Licia, con punte ad Occidente, in Corsica, Etruria, Lucania; la scena si trasferisce a Babilonia e si chiude nel paese dei Massageti, ad oriente del mar Caspio. È un giro del mondo arcaico in duecentosedici capitoli, grazie al quale si visitano anche i centri maggiori del dramma storico che si svolgerà nei libri successivi: la Persia, la Ionia, Atene, Sparta. Lo spazio cronologico del nucleo principale del racconto è il trentennio che va dall'inizio del regno di Creso alla morte di Ciro il Grande (560-30 a.C.), con punte digressive nel passato remoto dei Lidi e degli Assiri sino al tredicesimo secolo a.C., dei Medi sino all'ottavo, degli Ateniesi e degli Spartani sino all'alto sesto secolo. Sui due grandi protagonisti, Creso e Ciro, si fonda l'intera struttura del libro, che anche in questo prefigura il resto dell'opera, tutta articolata intorno alla serie dinastica dei re achemenidi, da Ciro a Serse.
A parte i capitoli introduttivi (1-5), il primo libro può infatti suddividersi facilmente in due logoi principali: il logos di Creso (6-94) e il logos di Ciro (95-216). L'ipotesi che originariamente esso fosse composto di tre logoi (1-94; 95-140; 141-216), corrispondenti a tre rotoli di papiro, va incontro alla banale difficoltà che la lunghezza di queste tre parti è sensibilmente diversa, mentre il rotolo di papiro andrebbe inteso proprio come unità di lunghezza. Nulla si oppone invece all'ipotesi che il primo libro occupasse originariamente due rotoli di circa sette metri ciascuno, corrispondenti in questo caso ai due logoi suddetti. Il "primo logos" (così lo chiama lo stesso Erodoto) è dedicato alla Lidia, con al centro il suo ultimo re. Erodoto riassume in brevi frasi introduttive le notizie essenziali su Creso, "colui che io so essere stato il primo ad aver fatto torto ai Greci", per giustificare il punto di partenza della sua ricerca: la "causa", per cui Greci e barbari si fecero guerra, è dopo tutto un proposito deliberatamente espresso dall'autore nella frase iniziale dell'opera. Erodoto passa quindi ad un breve prologo sui re lidi anteriori a Creso: i re autoctoni ed eraclidi sino a Candaule, ed i primi quattro Mermnadi (tre dei quali ebbero per primi rapporti ostiti con i Greci d'Asia minore); il quinto è Creso, il cui regno termina con la caduta di Sardi nelle mani di Ciro (546 a.C.). In questo prologo, che essenzialmente presenta una lista cronologica di regni, alcuni eventi bellici con aneddoti e le prime offerte lidie al tempio di Delfi, spiccano due racconti famosi: la storia di Candaule e Gige e la favola di Arione. Dal cap. 26 al cap. 94 il tema principale è il regno di Creso. Formalmente fedele all'impegno dichiarato, Erodoto apre con una breve rassegna delle ostilità e dei progetti espansionistici di Creso verso la costa ionica e le isole adiacenti; in seguito, però, non si parla più di questi rapporti ostili: anzi, il re lidio emerge come un benefattore filelleno in stretti rapporti con Delfi, che cerca l'alleanza dei Greci contro il pericolo persiano: c'è un divario evidente fra proemio e primo logos. Prima di passare alle vicende storiche del conflitto lidio-persiano, Erodoto inserisce due altri famosi brani novellistici: il dialogo di Creso e di Solone sulla felicità umana con le storie anch'esse ben note di Tello d'Atene e degli argivi Cleobi e Bitone, e la tragica storia di Atys e Adrasto. La morale di questi racconti, chiaramente premonitoria, deve tratteggiare la figura tragica di Creso, che dall'arroganza ingiustificata passa alla perplessità e al dolore. Si perviene quindi al tema principale: la minaccia persiana ed il ricorso di Creso all'appoggio dei Greci, dei loro oracoli, lautamente ricompensati con ricche offerte, e delle loro milizie. Creso vorrebbe l'appoggio delle due città-stato più importanti, Atene e Sparta. Ciò giustifica l'inserimento di due coppie di digressioni: una, più breve, sugli Ateniesi discendenti dei Pelasgi e sui Dori del Peloponneso discendenti di Elleno, ed una su Atene al tempo di Pisistrato e su Sparta intorno alla metà del sesto secolo. Solo Sparta a quel tempo era in grado di promettere l'appoggio richiesto; Creso, quindi, incoraggiato dall'oracolo delfico e dalle promesse spartane, traversa con le sue truppe il fiume Halys ed invade la Cappadocia. Dopo una battaglia non decisiva, Creso si ritira, Ciro invade la Lidia, sgomina l'esercito di Creso nella piana dell'Ermo ed assedia Sardi. Creso chiede allora l'aiuto che gli Spartani avevano promesso, ma gli Spartani proprio in quel periodo sono impegnati in un guerra contro Argo per il possesso della Tireatide: Sardi cade in mano ai Persiani dopo appena quattordici giorni di assedio, Creso è fatto prigioniero, posto sul rogo e poi graziato, cominciando così la sua carriera di consigliere del re persiano. Con ulteriori notizie sulle offerte di Creso agli oracoli greci e due capitoli storico-etnografici sulla Lidia, si conclude il "primo logos" di Erodoto.
Già attribuita al «tre volte grande» («trismegistos», appunto) Ermes - il dio della scrittura, dell'astrologia e dell'alchimia che risulta dall'associazione, presente sin da Erodoto, della divinità greca con l'egizio Thoth - essa è ritenuta antica quanto se non più di Mose, e interpretata come prefigurazione del Cristianesimo. In realtà, la redazione dei testi sembra risalire ai secoli fra il I e il IV della nostra èra, mentre una parte, l'Asclepius - un trattato di magia che riporta le pratiche dei sacerdoti egizi - circola già nel Medioevo occidentale nella traduzione latina ritenuta di Apuleio. Ma nel 1460 l'originale greco giunge nelle mani di Cosimo de' Medici, che ordina subito a Marsilio Ficino di dimenticare Platone e dedicarsi al Corpus. Ficino completa l'opera nell'aprile del 1463 e riceve come compenso una villa a Careggi. Nel Seicento, la paternità e la vetustà dell'opera sono infine demolite, a colpi di filologia, da Isaac Casaubon. Per secoli, però, la sua influenza è fondamentale: da Pico della Mirandola a Hieronymus Bosch, da Pieter Bruegel a John Milton, da Giordano Bruno a Isaac Newton, e più tardi ancora sino a William Blake, artisti e intellettuali coltivano l'ermetismo. Ermete trova il suo posto persino sul pavimento del Duomo di Siena. Ed è certo difficile resistere al fascino della sua rivelazione segreta, nella quale teologia e cosmologia si mescolano allo studio dell'uomo e alla dottrina dell'anima, dove demonologia e astrologia si fondono.
Gian Luca Potestà e Marco Rizzi, entrambi docenti all'Università Cattolica di Milano e specialisti dell'antichità classica, cercano di spiegare come nasce il mito dell'Anticristo, questa poderosa figura di antagonista che da quasi due millenni domina la nostra cultura. E lo fanno offrendo questa antologia dei testi antichi (dal II al IV secolo) che hanno parlato dell'anticristo e sottolineando come inizialmente il termine non indicasse l'Antimessia, ma genericamente chi si opponeva a Gesù Cristo. Questo volume sarà seguito da un secondo, dedicato al periodo tra il V e il XII secolo, e da un terzo, per il periodo dal XIII al XV secolo.
"È bello tramontare dal mondo a Dio, perché in lui io possa sorgere" scrive Ignazio di Antiochia ai Romani, avviandosi verso il martirio nelle fauci delle belve. E la testimonianza ultima della sequela di Cristo. "Seguendo Gesù" indica, infatti, i documenti che vengono dopo i Vangeli; ma allude anche al seguire Cristo che i suoi discepoli più antichi si raccomandano l'un l'altro. In questo primo dei due volumi che la Fondazione Valla dedica alla letteratura cristiana delle origini troviamo allora alcuni degli scritti che risalgono agli anni fra il 70 d.C. e i primi due decenni del II secolo, lo stesso periodo in cui furono composte la maggior parte delle opere che poi entrarono nel canone del Nuovo Testamento. Rappresentano una generazione successiva a quella dei testimoni oculari del Cristo, ma certo a qualcuno di questi autori sarà capitato di incontrare e ascoltare un discepolo diretto di Gesù. Le sue parole risuonano in essi per essere state apprese per via orale o grazie a brevi raccolte per noi perdute, anche se già alcuni vangeli erano stati composti. Il termine "cristiano" non è ancora comune, eppure il messaggio di Gesù è già radicato: a Roma, a Corinto, in Asia Minore. Impregnato spesso di giudaismo, talvolta debitore nei confronti della tradizione greco-romana, o cristianesimo prende corpo e vigore fra contrapposizioni, conflitti, e ricomposizioni. Le comunità si organizzano, meditano e discutono la Buona Novella e i modi migliori per seguirla.