Il primo volume di "Arcana Mundi", pubblicato nel 1997 a cura di Georg Luck, raccoglieva i testi classici sulla Magia, i Miracoli e la Demonologia. Questo secondo volume riguarda in primo luogo la Divinazione. Alle sue origini stava quel fenomeno immenso che fu l'oracolo di Delfi, cuore della vita religiosa e sociale greca. A Delfì, Apollo parlava attraverso la voce folle e precisa della Pizia: quanta parte di quella voce - si chiedevano gli antichi - apparteneva al dio e quanta parte alle divinità ctonie e a Dioniso, che a Delfi era sepolto? I Greci e i Romani fissavano costantemente il cielo: il dio parlava in tutti i modi - nel fruscio delle foglie di una quercia, negli uccelli, nei sogni, nelle sorti, nei polli sacri, nelle acque, nei brividi, negli starnuti, nel fuoco, nell'incenso, nella farina, nei cristalli -, così che, intorno all'irradiazione del sacro, si formava una scienza meticolosa, che lo sguardo di uno spirito ironico poteva trasformare in una farsa divertentissima. La seconda parte del libro riguarda l'Astrologia antica, che trovò la sua sistemazione in Egitto. La mente devota fissava gli astri, e a partire da loro studiava i rapporti fra le diverse parti dell'universo, fino alle vite, ai destini e alle psicologie umane. "Chi potrebbe conoscere le cose celesti" diceva Manilio "se non per concessione celeste, e chi giungere alla scoperta di Dio, se non colui che è parte del divino?" Anche l'Alchimia cercava di portare il microcosmo in stretta relazione con il macrocosmo: tentava di trasformare in oro i metalli più vili, di creare un elisir della giovinezza e un homunculus; e queste ricerche erano accompagnate da una purificazione dell'anima, "Non realizzerai mai l'Uno, se tu stesso non diventi l'Uno" diceva una massima. Con straordinaria competenza e chiarezza, che rende il suo volume accessibile a tutti, Georg Luck ricostruisce, in "Arcana Mundi", la vita segreta e profonda del mondo antico.
Il "Cantico dei cantici" è uno dei grandi misteri dell'Antico Testamento. Non sappiamo se sia un canto d'amore, quale appare a chi legge, o se abbia un significato simbolico, che allude all'amore tra Dio e Israele; né sappiamo quando sia stato scritto, se nel V o nel I sec. a.C. Certo, Israele lo comprese nel canone dei libri divinamente ispirati, e più tardi i cristiani lo accolsero tra i libri dell'Antico Testamento. Ma il "Cantito dei cantici" deve la sua immensa fortuna proprio a Origene, che gli dedicò attorno al 245 le due "Omelie" presentate in questo volume, che ci sono giunte nella traduzione latina di san Girolamo.
Verso la fine del primo secolo, un cristiano, che era stato relegato nella piccola isola di Patmos, fu tratto "in spirito" nel regno di Dio. Come Isaia, Giovanni varcò le porte dei cieli, che si aprirono davanti a lui con un mortale fragore di cardini. Non fu un sogno, né un lampo: ma una visione folgorante che si impresse nei suoi sguardi, colmò il suo cuore e venne trascritta nelle pagine di un piccolo libro dolce come il miele, amaro come l'assenzio.
Mentre leggiamo "l'Apocalisse", avvertiamo una tensione, un impeto, una passione, che hanno qualcosa di cannibalesco: furore di possedere e ingoiare dei libri e di proiettarli in un altro spazio di carta. Le immagini strappate a Isaia e a Ezechiele sembrano aggredirci negli occhi. Così questo libro, che non nasce da un'esperienza visionaria, è diventato il più grande testo visionario dell'Occidente. La letteratura ha appreso "dal1'Apocalisse" che vedere è, in primo luogo, una visione di libri. Il futuro si approssima. Tutti i presentimenti ci minacciano e stanno per diventare presenti. "Il tempo è vicino" L'ora della prova si abbatterà fra poco sul mondo intero: una drammatica imminenza, come non si era mai intesa in un'opera umana, incombe su ogni segno. Avvertiamo sulla carta la presenza dell'evento che sta per erompere davanti ai nostri occhi: le immagini ci sembrano frammenti di futuro, aeroliti di futuro, che una mano ha strappato all'ignoto del tempo.
Come i profeti biblici, Giovanni voleva che le parole della profezia fossero osservate e messe in pratica. Così fu aperto, chiaro, violento, per proclamare l'essenza del suo messaggio: l'avvento di Cristo, l'imminenza di eventi tremendi. Ma, col gesto opposto, nascose la sua rivelazione dietro un velo di enigmi. Contava sul mistero, sull'equivoco, sulla polivalenza dei significati. Sapeva che, per quanto gli interpreti traforassero il suo testo, vi sarebbe rimasto molto o moltissimo di insondabile. Sapeva che i libri chiari e aperti muoiono appena nati. Soltanto i libri scritti con la calligrafia cifrata dei cieli, solo i libri che nessuno può dissigillare completamente, continuano a infuocare per secoli i pensieri degli uomini.
In questo ampio commento "dell'Apocalisse", che può essere letto con passione da tutti, Edmondo Lupieri ha cercato di penetrarne il mistero. La sua interpretazione, fondata su una conoscenza minuziosissima della letteratura giudaica apocalittica e di Qumran, sorprenderà per la sua novità e la sua verisimiglianza.
Indice - Sommario
Premessa
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Abbreviazioni delle opere citate
TESTO E TRADUZIONE
- Sigla
- Apocalisse di Giovanni
COMMENTO
Indice dei passi e degli autori citati
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Può ancora esistere, oggi, uno spazio culturale ufficiale per "l'Apocalisse"? Se vi è un testo colmo di angeli e diavoli, di mostri e di cataclismi, di visioni celesti e ultraterrene, di viaggi spirituali in un cosmo geocentrico e pregalileiano, tale testo è proprio quello del veggente di Patmo. Non soltanto, poi, esso pare così ancorato alle categorie mentali del mondo antico, ma non vi è brano del Nuovo Testamento che sia così ricco di minacce e di scene di guerra, con il sangue degli uccisi che giunge sino alle froge dei cavalli e dove la misericordia sembra aver ceduto il passo alla spada. Anche gli stessi premi per gli eletti, infine, soprattutto quel famoso regno millenario di Cristo con i risorti sulla terra, creano problemi a chiese radicate e strutturate in questo mondo. I motivi di disagio nelle chiese cristiane di fronte al "libro delle profezie" di Giovanni, quindi, sono stati e sono numerosi e diffusi. A ripercorrere la storia dell'interpretazione del testo, pare che nelle gerarchie ecclesiali si sia sentito il bisogno di neutralizzarlo, prima ancora di permetterne l'ascolto o la lettura da parte di persone ritenute impreparate. Di converso, l'uso non controllato "dell'Apocalisse" ha sempre accompagnato fenomeni di effervescenza religiosa, spesso sfociati in attività politiche o sociali anticonformistiche, talora concluse davvero nel sangue o nel fuoco. Eppure il fascino del libro permane. La sua lingua dalla cadenza arcaica e strana, le sue immagini che si susseguono come onde di un mare mosso da venti lontani, l'incomprensibilità stessa di certe sue frasi sono altrettanti motivi di attrazione. La lettura o l'ascolto quotidiano della Bibbia sono divenuti un'abitudine di pochi, ma il mistero "dell'Apocalisse", a conclusione del Libro per eccellenza, sta, come in attesa di lettori, anche in quest'ultimo scorcio del secondo millennio cristiano.
"L'Apocalisse" è un testo controverso, difficile da maneggiare: una sorta di esplosivo che costituisce sempre un rischio per l'incauto manipolatore. Anche la critica moderna, nata dalle battaglie illuministiche, ha infine generato teorie interpretative contrapposte e inconciliabili, che a tratti ricalcano le antiche opposte interpretazioni ecclesiastiche. Il fatto è tanto evidente che, negli studi biblici contemporanei, l'esegesi "dell'Apocalisse" è divenuta uno degli obiettivi eletti per gli assalti della critica cosiddetta "postmoderna". Nata dal convincimento che la scienza di tipo positivistico abbia fallito i propri scopi in ogni ramo dello scibile umano, giacché i risultati di ogni indagine sedicente scientifica altro non sarebbero che le proiezioni soggettive del ricercatore, la critica "postmoderna" appare come un'entità multiforme e difficile da analizzare. Essa ha tuttavia spinto ai limiti estremi un processo di relativizzazione di ogni altra forma di ricerca, creando una sorta di nuova apocalisse culturale: non a torto il "postmoderno" è stato paragonato a una specie di mostro che procede inghiottendo ogni altra espressione del patrimonio culturale preesistente, facendosi beffe della ragione e preparandosi alla sublime e definitiva voluttà di inghiottire sé stesso. Coerenza infatti esige che i criteri usati nella demolizione della scienza moderna siano applicati anche ai metodi "postmoderni", non meno soggettivi e relativi di quelli sedicenti razionali e scientifici: la qual cosa dovrebbe condurre al silenzio.
2. In tale temperie culturale, che scopi può prefiggersi un'edizione commentata "dell''Apocalisse"? Abbandoniamo subito le velleità di una lettura che pretenda di spiegare assolutamente tutto. Nella fattispecie "dell'Apocalisse", le letture in cui tutto viene fatto quadrare non quadrano affatto, ma derivano di solito dalla precomprensione del commentatore, mosso da esigenze teologiche o da convincimenti personali che spesso raggiungono livelli monomaniacali.
Questo vuole essere un commento aperto, che proporrà soluzioni nuove e spero convincenti, ma che cercherà sempre di mostrare i nodi interpretativi, rifuggendo dalla tentazione di risolverli tagliandoli. Lo scopo principale del mio lavoro consiste nel condurre il lettore il più vicino possibile a quello che oggi riteniamo fosse il modo di pensare di un giudeo seguace di Gesù nel I secolo d.C. A questo è dedicata l'Introduzione. Il mondo è quello di Gesù di Nazaret, Giovanni Battista, Paolo di Tarso; ma è anche lo stesso di molti altri, a cominciare dagli esseni ultraosservanti di Qumran per finire con Giuseppe, che divenne lo storico ufficiale dei Flavi, cioè proprio di quei generali romani che questo mondo incominciarono a distruggere. Né si trattava di una realtà monolitica o chiusa in sé stessa, ma ricca di permeabilità culturali a tratti sconcertanti. Lo mostra la vicenda di Giuseppe Flavio. Quasi un simbolo appare Berenice, ebrea e "regina" dei giudei, sorella e amante di Agrippa II (ultimo dei piccoli re giudei riconosciuti dai Romani), che divenne amante anche di Tito, sino a seguirlo sul Palatino e a rischiare di divenire imperatrice.
Il testo greco riproduce con poche varianti la più recente delle edizioni critiche "dell'Apocalisse" e la più usata negli studi. In senso proprio, sarebbe onesto dire che non possediamo una vera edizione critica di alcun libro del Nuovo Testamento. Quello che noi abbiamo è un'armonia, ricostruita oggi, fra i testi di diverse edizioni antiche, la cui storia possiamo ipoteticamente tracciare a ritroso fino a un periodo compreso fra il II e il IV secolo d.C. Si tratta di un testo teorico, che nessun antico ha mai avuto fra le mani e che corrisponde a quello che noi pensiamo possa essere stato scritto dall'autore, sulla base dei manoscritti che ci sono giunti. Che siano giunti tali manoscritti, e non altri con testi certamente diversi, è un fatto del tutto casuale, dipendente da motivi esterni: ad esempio il non essere andati distrutti in un incendio o l'essersi trovati in un luogo asciutto. Possiamo comunque considerarlo un buon punto di partenza, non dissimile da quello delle altre opere antiche, quasi tutte ricostruite a tavolino in epoca moderna o contemporanea. Eventuali strepitose scoperte di manoscritti (l'improbabile è già accaduto un paio di volte in questo secolo, a Qumran e a Nag Hammadi) ci porterebbero probabilmente altre varianti, sulla cui validità sarebbe difficile decidere; certamente molte differenze emergerebbero nell'aspetto esteriore del testo.
Il padre era Filippo II, come precettore ebbe Aristotele. Sbaragliò Dario e divenne re della Persia, ma non si accontentò. Le sue spedizioni si spinsero nel cuore dell'Asia fino a raggiungere i confini del mondo conosciuto: sognava di creare un impero universale dove potessero convivere civiltà greca e orientale. Il libro curato da un'équipe di studiosi diretta da Mariantonia Liborio, comprende testi latini, da Leone Arciprete a Gualtiero di Chatillon, francesi, da Alexandre de Paris a Villon, inglesi, spagnoli e tedeschi.
"Arcana Mundi", la grande raccolta curata da Georg Luck, comprende testi da Omero sino al V secolo dopo Cristo, dedicati a tutto ciò che era segreto nel mondo greco-romano. Il primo volume raccoglie scritti dedicati alla Magia, ai Miracoli e alla Demonologia; il secondo testi sulla Divinazione, l'Astrologia e l'Alchimia. Due idee principali erano attive: da un lato, quella che vedeva l'universo come un immenso complesso di rapporti, per cui qualsiasi fenomeno in una parte del mondo agiva su un altro fenomeno, non importa quanto remoto: dall'altro, il desiderio di acquistare potere, sia sugli uomini sia sugli dèi. Attorno alla magia c'era scienza, venerazione, terrore, gioco, truffa, imbroglio, esercitazione retorica. Se ne occupò la filosofìa, che specie col neoplatonismo studiò i misteri dei dèmoni. Ne fu attratta la poesia, che con Seneca e Lucano edificò, attorno alle streghe della Tessaglia, una specie di smisurata teologia della tenebra.
Con ricchissima documentazione e limpida scorrevolezza, il libro di Luck permette a qualsiasi lettore, anche a chi non sappia nulla di antichità classica, di seguire la storia dell'Arcano. Si comincia da Circe che trasforma gli uomini in bestie, e da Odisseo, che compie nell'Ade i suoi riti da negromante. E poi quanti prodigi e incantesimi: Medea strega un gigante di bronzo: Simeta cerca di attrarre un uomo che la fugge: le maghe d'Orazio uccidono un bambino per preparare una pozione amorosa: la luna discende schiumando sulla terra: un'operazione magica ridà a un ragazzo la potenza sessuale: Lucio diventa asino: nel santuario di Asclepio, a Epidauro, avvengono sogni, visioni e guarigioni miracolose: gli dèi mandano messaggi: i dèmoni e i morti rivelano il futuro: Atossa evoca l'ombra di Dario: Scorate ascolta la voce profetica: ogni notte cavalli e uomini continuano a combattere a Maratona: qualcuno esorcizza un demone che possiede un malato con parole egiziane ed ebraiche: un pugile combatte per amore con un eroe-demone: un sacerdote evoca il dio di Piotino... Tutto il mondo greco-romano è presente -tragico, demoniaco e divertentissimo - in questa raccolta incomparabile.
Indice - Sommario
Introduzione generale - La ricerca recente sulla magia antica
Indicazioni bibliografiche
TESTI E TRADUZIONI
Parte Prima - MAGIA
- Introduzione
- Omero, Odissea X 203-347
- Teofrasto, Caratteri 16 (La superstizione)
- Apollonio Rodio, Argonautiche IV 1635-90
- Teocrito, Idilli 2. (Le incantatrici)
- Catone, L'agricoltura 160
- Varrone, L'agricoltura I 2, 27
- Marcello Empirico (?), I medicamenti XV II
- Orazio, Epodi 5
- Orazio, Satire I 8
- Virgilio, Ecloghe 8, 64-109
- Virgilio, Eneide IV 450-705
- Seneca, Ercole sul monte Eta 449-72
- Seneca, Medea a) 6-2.6 b) 670-842.
- Petronio, Satyricon 130, 7-131, 5
- Tacito, Annali II 69, 3
- Iscrizioni Latine (ILS II 1, 3001 = CIL XI 2, 4639)
- Tavolette di Maledizione (DT 286 B)
- Papiri Greci Magici 4, 297-408
- Papiri Greci Magici 4,154-242
- Papiri Greci Magici 3,, 591-609
- Papiri Greci Magici 4,1496-546
- Papiri Greci Magici 5,1-25
- Papiri Greci Magici 13, 242-4; 261-5; 277-81; 290-6
- Papiri Greci Magici 12, 121-43
- Papiri Greci Magici a) 15, 61-71 b) 12, 238-40; 244-6
- Papiri Greci Magici 4, 2943-66
- Papiri Greci Magici 4, 3086-124
- Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana a} IV 44 b) VIII 7, 9-10
- Luciano, Gli amanti del falso 14-7
- Apuleio, Apologia a) 25-7 b) 42-3
- Apuleio, Metamorfosi III 21-8
- Plotino, Enneadi IV 4, 40-4
- Porfirio, Vita di Plotino 10
- Giamblico, I misteri degli Egiziani IV 2, 183-4
- Eusebio, Preparazione al Vangelo IV I, 6-9
- Plotino, Enneadi II 9,14
- Porfirio, Lettera ad Anebo 46-9
- Giamblico, I misteri degli Egiziani I 9, 29-32
- Giamblico, I misteri degli Egiziani II 2, 95-8
- Eunapio, Vite dei filosofi e dei sofisti V 2, 1-7
- Eunapio, Vite dei filosofi e dei sofisti a) VI II, 6-10 b) VII I, I-3 c) VII 2, I d) VII 2, 6-3, 3
Parte Seconda - MIRACOLI
- Introduzione
- Iscrizioni Greche (SIG3 1168, 1-10 - IG IV 951-2)
- Apuleio, Florida 19
- Iscrizioni Greche (SIG3 1170 = IG IV 955)
- Elio Aristide, Orazioni 48, 30-5 (Secondo discorso sacro)
- Elio Aristide, Orazioni 48, 74-8 (Secondo discorso sacro)
- Luciano, Gli amanti del falso 10-3
- Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana VII 38-9
- Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana IV 45
- Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana III 38
- Eunapio, Vite dei filosofi e dei sofisti VI 6, 5-8, 3
Parte Terza - DEMONOLOGIA
- Introduzione
- Omero, Odissea XI 12-224
- Esiodo, Le opere e i giorni 109-88
- Eschilo, Persiani 607-99
- Platone, Apologia di Socrate a) 33c-e b) 39c-40b
- Pausania, Guida della Grecia I 32, 3-5
- Pausania, Guida della Grecia X 28, 1-29, 1
- Papiri Greci Magici 4, 3007-86
- Seneca, Edipo 530-626
- Lucano, La guerra civile VI 413-830
- Plutarco, Il tramonto degli oracoli 16-8, 418e-419e
- Plutarco, Il tramonto degli oracoli 9-11, 414e-415d
- Plutarco, Il tramonto degli oracoli 15, 418c-d
- Plutarco, Iside e Osiride 26-7, 361a-e
- Plutarco, Consolazione ad Apollonio 14, 109a-d
- Pausania, Guida della Grecia VI 6, 7-11
- Apuleio, Metamorfosi II 21-30
- Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana IV 20
- Porfirio, Vita di Plotino 10
- Giamblico, I misteri degli Egiziani I 20, 61-3
- Giamblico, I misteri degli Egiziani II 1, 67-2., 69 Eusebio, - Preparazione al Vangelo IV 5, 1-3
- Eliodoro, Etiopiche VI 14-5
COMMENTO
- Magia
- Miracoli
- Demonologia
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale "LA RICERCA RECENTE SULLA MAGIA ANTICA"
Si può dire che la magia antica preannunci la scienza e la tecnologia moderna. Se accogliamo la tesi di James Frazer secondo la quale l'umanità, nel corso della sua evoluzione, sarebbe passata attraverso i tre stadi della magia, della religione e della scienza, ne consegue che tra magia e scienza dovrebbe esserci qualcosa in comune. Entrambe formulano leggi: nel caso della scienza queste leggi risultano esatte, mentre nel caso della magia, dal moderno punto di vista, risultano in larga misura false. E stato osservato che sul piano psicologico c'è un rapporto di affinità tra la magia antica e la tecnologia moderna. Nel mondo moderno molte persone usano la tecnologia loro disponibile senza conoscere effettivamente in che modo e perché essa operi. Nel loro atteggiamento di fiducia ingenua queste persone sono paragonabili agli uomini antichi, che confidavano in una magia che si presumeva operante a tutti gli effetti.
Nel suo articolo "In Search of the Occult: un Annotateci Anthology", C.R. Phillips III offre molte osservazioni preziose sull'edizione inglese di "Arcana Mundi". Come fondamento generale egli adotta la visione della magia che è stata propria degli antropologi inglesi del diciannovesimo secolo. Secondo Edward Taylor, per esempio, la magia era o cattiva religione o cattiva scienza: cattiva religione perché non si era evoluta nella direzione del Cristianesimo; cattiva scienza perché non si era sviluppata nella direzione
della tecnologia moderna. In tali direzioni avrebbe invece dovuto evolversi la magia, come rileva Phillips, dal momento che le teorie di Darwin, trasferite dalla zoologia alla storia della civiltà, prevedono un'evoluzione di questo tipo.
Phillips cita E. Leach: "Dapprima la scienza fu definita come la conoscenza e l'azione che si fonda sulla "corretta" valutazione del rapporto causa-effetto; a sua volta la determinazione di ciò che è corretto risultava individuata dai sillogismi della logica aristotelica e dal determinismo meccanicistico della fisica di Newton. Il resto fu superstizione. Dalla superstizione fu poi distinta la religione: la definizione minima di religione fu diversa da studioso a studioso...; il resto fu magia. Successivamente la magia fu distinta da alcuni in magia bianca (buona) e magia nera (cattiva). La magia nera, ribattezzata stregoneria, fu poi distinta dall'arte magica e così via".
E del tutto evidente che distinzioni di questo genere erano possibili solo se si partiva da certezze consolidate e da una conseguente posizione di superiorità. Se si sa qual'è la vera religione, allora si può anche definire la magia, poiché essa è diversa. Se si sa che cosa può fare la scienza vera, si è anche capaci di individuare la pseudo-scienza, poiché essa è diversa. Questa conoscenza soggettiva, come rileva Phillips, non è di per sé sufficiente: noi abbiamo anche bisogno di sapere che siamo una forte maggioranza e che, se necessario, possiamo imporre le nostre convinzioni. Nel mondo antico, naturalmente, la stragrande maggioranza credeva nella magia.
E più difficile precisare in che cosa la magia differisca dalla religione. La magia antica attinse abbondantemente dalla religione, con tutta probabilità da culti e da riti che non sono ben testimoniati. Si ha l'impressione che la magia sia cresciuta, come un fungo, su un substrato religioso: essa faceva uso di cerimonie religiose, di appellativi divini e di elementi tipicamente liturgici. La magia è sempre stata maestra di ambiguità poiché, operando in una zona di penombra, sfrutta deliberatamente le tradizioni religiose con la pretesa di ottenere risultati migliori.
Alcuni criteri che sono stati proposti per distinguere la magia dalla religione possono essere presi come direttive generali: la magia manipola, la religione chiede con umiltà; la magia impiega i suoi strumenti per scopi precisi, la religione mette in risalto gli scopi in sé stessi; la magia si concentra sui bisogni privati, la religione sulle necessità della comunità; le operazioni magiche tendono a essere private e segrete (spesso si svolgono di notte), mentre i riti religiosi hanno luogo all'aperto, di norma durante il giorno, e sono accessibili a tutti; la magia è caratterizzata dal particolare rapporto che si instaura tra chi pratica la magia e il suo cliente, la religione da quello che si instaura tra un fondatore, guida o profeta, e i suoi seguaci. Le preghiere agli dèi celesti sono normalmente pronunciate a voce alta, mentre le formule magiche indirizzate a un demone o a una divinità del mondo sotterraneo erano recitate, a quanto pare, o in silenzio o con un suono sibilato, il susurrus magicus.
Una valutazione equilibrata è quella offerta da R. Arbesmann: "Mentre nella preghiera l'uomo cerca di indurre un essere superiore a soddisfare i suoi desideri con la persuasione, chi recita una formula magica tenta di costringere quell'entità superiore o di forzare l'esito nella direzione dei suoi propri scopi attraverso le parole precise della sua formula, alla quale attribuisce un potere innato e infallibile. Mentre nel primo caso la risposta all'invocazione dell'uomo dipende dalla volontà dell'essere superiore, nel secondo si ritiene che il vincolo che la formula magica crea nell'essere superiore sia incondizionato e tale da produrre automaticamente l'esito desiderato". Ma con cautela Arbesmann aggiunge:
"A dire il vero, in molti atti rituali i due atteggiamenti coesistono e spesso si compenetrano così a fondo l'uno nell'altro che diventa difficile, per non dire impossibile, stabilire quale dei due atteggiamenti sia presente o prevalente. E anche vero che dei due modi di comportamento quello che assume chi recita la formula magica è più grossolano. Questo non giustifica però la conclusione che la formula magica sia più antica della preghiera e che la preghiera altro non sia se non uno sviluppo della formula magica... ".
Prendendo l'avvio dal primo versetto della Genesi, la trattazione si amplia sino ad abbracciare tutta l'opera, in una esegesi appassionata e appassionante che introduce al mistero della creazione.
Le Vite che Plutarco ha dedicato a Lisandro e a Silla non sono meno straordinarie di quelle di Demetrio e di Antonio, che la Fondazione Valla ha pubblicato due anni or sono, nell'edizione critica a cura di Mario Manfredini. Lisandro è il generale volpe, che anticipa la frase famosa di Machiavelli: "dove non arriva la pelle di leone, bisogna cucirvi sopra quella della volpe". Plutarco è affascinato dalla sua cautela e dalla sua astuzia: non ama l'orgoglio eccessivo, l'alterigia, il culto di sé, che lo colgono nella vecchiaia, quando viene accecato dalla hybris: ironizza sulle sue tarde macchinazioni, quando tenta di avere dalla sua, con l'inganno, il soccorso di Apollo; e nulla lo commuove quanto il momento in cui gli Spartani e gli alleati decidono di radere al suolo Atene. Un Focese intona per caso dei versi di Euripide, e tutti sono presi dalla compassione, e comprendono quanto sia assurdo distruggere una città che ha dato i natali a uomini così meravigliosi.
Per Plutarco, Silla è un groviglio di contraddizioni, come Antonio e Alcibiade. Nessun carattere gli sembra più incoerente. Quest'uomo devoto ai segni divini e che ostenta la protezione del cielo, viola i santuari degli dei; quest'uomo che ama la vita lieta, che si circonda di mimi e di buffoni e coltiva i motti di spirito, finisce la sua esistenza come uno dei più sinistri e tenebrosi tiranni dell'umanità - proscrivendo, assassinando, massacrando -, e il timorato Plutarco racconta con atroce impassibilità i suoi ultimi anni di sangue e di abominazione. Siila muore infestato dai vermi, putrefacendosi - e questa morte sembra un contrappasso agli orrori della sua vita.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole genealogiche
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Lisandro
La vita di Silla
Confronto fra Lisandro e Siila
Scolî
COMMENTO
La vita di Lisandro
La vita di Silla
Confronto fra Lisandro e Silla
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
I. La "Vita di Lisandro". Quella di Lisandro è senza dubbio una biografia poco unitaria, perché contiene testimonianze e apprezzamenti sull'operato del protagonista singolarmente contraddittori. Sulla base di dati oggettivi, Plutarco da una valutazione quasi sempre positiva delle imprese compiute da Lisandro: se, per un verso, presenta la vittoria da lui conseguita a Nozio nel 407/6 quale evento di portata limitata, reso celebre solo dal fatto che segnò la fine della carriera politico-militare di Alcibiade (5,4), per un altro verso non esita a esaltare quella di Egospotami del settembre del 405, una battaglia ritenuta "opera degli dei" (11,13). Allora l'abilità strategica di un solo uomo, di Lisandro, pose finalmente termine all'annosa guerra del Peloponneso; un conflitto che aveva suscitato molti scontri, continui capovolgimenti di situazioni, e causato la perdita di così numerosi eserciti come non si era mai verificato in passato (11,11-2.). Plutarco giudica con approvazione soprattutto la popolarità acquisita da Lisandro fra tutti i Greci, inclusi quelli delle isole egee e dell'Asia Minore, che vedevano con favore i mutamenti da lui operati. Questi plaudivano al fatto che egli aveva restituito l'isola agli Egineti e riportato in patria i Meli e gli Scionei, dopo averli liberati dagli Ateniesi (14,4). A tale proposito lo scrittore riferisce, sull'autorità di Duride di Samo, che in onore di Lisandro, primo fra gli Elleni, le città (della Ionia) eressero altari quasi fosse un dio, fecero sacrifici, intonarono peani e i Sami decretarono nell'agosto del 404 di mutare in Lisandrie il nome delle feste di Era, che si celebravano presso di loro (18,5-6).
Nel corso della Vita, Plutarco elogia Lisandro: lo apprezza perché fu sempre rispettoso, come pochi, dei costumi della patria e si mostrò superiore a qualunque piacere, se si esclude quello che le nobili imprese procurano a chi le compie con onore e successo (2-,i). Anche l'ambizione e la brama di superare gli altri non erano connaturate in lui; derivavano piuttosto dalla sua educazione laconica. Per indole era portato, invece, a essere ossequioso verso i potenti più di quanto non fosse nelle abitudini spartane e tollerava di buon grado il peso opprimente della loro autorità, qualora gli fosse sembrato necessario: dote questa di perizia politica -conclude Plutarco (2-,4) - ritenuta da alcuni di certo non secondaria. Nato povero, sopportò sempre con dignità la miseria, non lasciandosi mai allettare né corrompere dal denaro. Benché dopo la guerra del Peloponneso avesse riversato in Sparta grandi quantità d'oro e d'argento, contribuendo così a privarla di quell'ammirazione di cui andava fiera per il sommo disprezzo delle ricchezze, non tenne per sé neppure una dracma. E la morte, che rivelò appieno la povertà di Lisandro, rese ancora più fulgida la fama della sua virtù: delle tante sostanze acquisite, del prestigio raggiunto, dell'ossequio tributategli dalle città e da Ciro il Giovane, egli non approfittò minimamente per ingrandire e arricchire la propria casa.
Tuttavia, in ossequio a un principio altrove enunciato, Plutarco non omette di enumerare i difetti e gli aspetti negativi del carattere del suo "eroe". Lisandro innalzava a importanti incarichi, a onori, a comandi militari quanti erano già suoi amici ed erano a lui legati da vincoli di ospitalità, rendendosi anche complice di ingiustizie e malefatte, pur di soddisfare la loro ambizione (5,6). Abolì i governi democratici o di qualsiasi altro tipo, inviando dappertutto armosti e istituendo commissioni formate da un collegio di dieci individui di provata fede oligarchica. Così operando, non faceva distinzione fra città nemiche e città alleate di Sparta, avendo come fine solo quello di procacciarsi un potere personale. Nella scelta dei magistrati non badava né alla loro nobiltà né al loro censo: favoriva nelle cariche chi era a lui devoto, conferendogli l'autorità di premiare o di punire ad arbitrio. Assistendo di persona a numerosi massacri e aiutando gli amici a sbarazzarsi degli avversari, non fornì certo ai Greci un esempio edificante dell'egemonia spartana (13,5-7). Nel settembre del 404 privò gli Ateniesi della libertà, consegnando la loro città nelle mani dei Trenta Tiranni; inoltre si rese forse corresponsabile dell'uccisione di Alcibiade. Lisandro era intollerante, incapace di portare il giogo impostogli in patria e insofferente dei comandi altrui (2-0,8). Era caustico nell'eloquio e incuteva timore a quanti lo contraddicevano. Agli Argivi, che una volta discutevano su questioni relative al loro territorio e sostenevano di avere ragioni più valide di quelle dei Lacedemoni, Lisandro, mostrando la spada, disse: "Chi impugna questa possiede gli argomenti migliori in materia di confini". Furente contro l'ingrato Agesilao, la cui ascesa al trono aveva favorito, decise di attuare senza ulteriori rinvii un progetto volto a capovolgere e a innovare la costituzione di Sparta. Meditò di togliere potere alle due case regnanti, agli Euripontidi e agli Agiadi, rendendo la monarchia accessibile non solo a tutti gli Eraclidi, ma anche a tutti gli Spartiati. In tal modo, il trono non sarebbe stato più appannaggio dei soli discendenti di Eracle, ma di quanti per virtù fossero ritenuti simili a questo eroe, innalzato agli onori divini per i suoi meriti. Ovviamente Lisandro sperava che, se il regno fosse stato assegnato in questa maniera, sarebbe toccato a lui.
Quando debbono consultare un'opera d'insieme, gli appassionati dilettanti di mitologia greca sono abituati a leggere "Gli dei e gli eroi" della Grecia di Karl Kerényi o "I miti greci" di Robert Graves. Sarebbe meglio che risalissero molto più indietro nel tempo: a un manuale di autore ignoto, la "Biblioteca" dello pseudo-Apollodoro, redatto tra il II e il III secolo dopo Cristo, che la Fondazione Lorenzo Valla pubblica nella traduzione di Maria Grazia Ciani e con l'introduzione e il commento di Paolo Scarpi. L'ignoto autore credeva ancora negli dei. Come un nuovo Esiodo, si sforzava di raccogliere tutte le tradizioni religiose greche e di sistemarle in un'architettura coerente, portando fino a noi l'ultimo messaggio della classicità declinante. Il lettore moderno vi ritrova, come in un'enciclopedia, tutti i miti greci; Urano e Zeus, Persefone e i Giganti, Meleagro e gli Argonauti, Glauco ed Eracle, Teseo e Odissee. Vi ritrova, soprattutto, una ricchezza straordinaria diversioni parallele o secondarie o locali, che hanno talvolta un interesse più appassionato delle tradizioni maggiori, contribuendo a disegnare quell'intreccio molteplice e risonante di voci, che è per noi la mitologia greca. Il testo dello pseudo-Apollodoro è completato dal ricchissimo commento di Paolo Scarpi: commento che è un secondo manuale, e getta sul testo antico la luce interpretativa degli studiosi moderni di mitologia classica.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Epitome
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Epitome
Appendice I
Appendice II
Indice mitologico
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Dalla lettura continua del testo conosciuto come la "Biblioteca" di Apollodoro emerge un grande e complesso paesaggio mitografico: non è stato facile, per quanto necessario, vincere la tentazione di offrire a titolo introduttivo un lungo discorso che indagasse ed esplorasse gli anfratti della mitologia greca se non, addirittura, della mitologia in generale. Le piccole dimensioni di questo "libriccino", come lo chiama Fozio, non sono commisurabili ai problemi di natura storico-religiosa e antropologica che il tessuto narrativo lascia trasparire in filigrana. Ma le dimensioni assunte dalla bibliografia relativa alle problematiche della mitologia greca, moltiplicatasi a dismisura negli ultimi decenni, avrebbero reso in ogni caso ardua l'impresa e sarebbe stato impossibile offrire un panorama completo. Cosi la bibliografia è stata ridotta all'essenziale, confidando sul fatto che ogni ulteriore informazione è ricostruibile sia attraverso le indicazioni fornite nel commento sia ricorrendo alla rassegna dell'"Année Philologique " (Paris).
Considerato per lo più un repertorio mitografico a cui attingere, la "Biblioteca" è stata per così dire condannata da Frazer a diventare un fossile, sia pure insostituibile; un museo in cui sono state conservate "senza un tocco di immaginazione o una scintilla di entusiasmo le lunghe serie di favole e di leggende che ispirarono le immortali produzioni della poesia e le splendide creazioni dell'arte greca".
Nonostante questo inappellabile giudizio, una lettura non frammentaria del testo lascia invece intravedere come la "Biblioteca" non sia banalmente un'opera di erudizione. E forse un'opera di volgarizzazione del patrimonio culturale greco, certamente è una intenzionale sistemazione e ricostruzione del tradizionale paesaggio mitico, che cerca di definire l'universo umano. E queste dovevano essere le intenzioni dell'autore, se è autentico l'epigramma con cui si apriva il testo letto da Fozio, sebbene non riportato dai manoscritti.
Non si tratta dunque di una condensazione erudita del materiale mitologico prodotto dalla civiltà greca, variamente raccolto da fonti diverse, di cui irregolarmente l'autore rende conto, e ordinato secondo un superficiale schema genealogico. Di fronte a una tradizione che ignorava ogni ortodossia, sprovvista di un clero specializzato che avesse proceduto a definirla, e che aveva affidato ai poeti il ruolo di "teologi", la "Biblioteca" si presenta, dopo la "Teogonia" di Esiodo, quale prima opera sistematica. Il registro genealogico su cui è costruito il racconto riprende lo stesso principio di legittimazione che costituiva il fondamento della cultura greca e che conduceva a definire lo statuto umano. E quella cultura, la paideia di cui si fa portatore l'autore nell'epigramma trasmesso da Fozio, che appare alla fine intenzionalmente sopravvalutata, forse per compensare la perdita dell'identità determinatasi con il predominio di Roma. L'autore, senza dubbio arcaizzante, non nomina mai Roma, ne quando parla di Enea o di Antenore, e nemmeno quando descrive l'itinerario occidentale di Eracle. Lo sforzo di recuperare la tradizione mitica è tanto più evidente quanto più appaiono fuori luogo espressioni che possono essere riconducibili a una penetrazione del vocabolario cristiano, come in II 5,12. [124] e 7,7 [157], ma che possono egualmente essere un riflesso della lingua dell'epoca. Quindi sembra del pari frutto di una caduta d'attenzione il solo caso in cui compare la "provvidenza" (II 7,4 [147]), e lo stesso forse si può dire per "mago" (II 8,3[174]). La "Biblioteca" si rivela in ultima istanza portatrice dell'ultimo messaggio della classicità declinante, soffocata dall'imperialismo romano e dalle spinte disgregatrici dei numerosi movimenti esoterici e filosofico-religiosi. Questi movimenti erano protesi alla ricerca di una identità extraumana e al superamento della stessa condizione umana per guadagnare un caeleste habitaculum; erano fortemente sessuofobi e antisomatici, in aperta opposizione con il principio della generazione, da cui era caratterizzata l'antica religiosità olimpica.
Così la "Biblioteca" raccoglie e ordina il sapere mitico, rivivendo nostalgicamente quell'antica liturgia della parola per diffonderla, non diversamente da quanto stava compiendo il mondo giudeo-cristiano. Attraverso l'intreccio e la combinazione di tre registri narrativi, descrittivo, mirice-fondante e favolistico, che intersecano l'ossatura genealogica, essa si propone di "giustificare le strutture e il funzionamento dell'universo nella sua genesi e nella sua dimensione spazio-temporale", divenendo il libro mitologico per eccellenza ma anche per certi aspetti, come riconosceva Frazer, una sorta di "Genesi" pagana.
"Il poema degli astri (Astronomica)" è uno dei capolavori sconosciuti della letteratura latina. Del suo autore sappiamo soltanto che fu contemporaneo di Augusto e di Ovidio. Manilio voleva conoscere, e far conoscere a tutti, il segreto dell'universo. Aveva un precedente: Lucrezio, del quale cercò di rovesciare l'impresa. L'universo non era un aggregato di atomi, come credevano gli epicurei. Non era dominio del caso: ma un'immensa architettura divina, un mirabile organismo provvidenziale. Il cuore di questa ispirazione divina erano gli astri; e tutto l'universo era un solo intreccio di rapporti, che conducevano dalla palpitazione delle stelle e delle comete fino alla vita della terra e ai diversi destini umani. Così il poeta degli astri si convertiva in un trattatista astrologico.
Manilio è uno squisito poeta alessandrino, che disegna tarsie elegantissime, dove il ricordo di Virgilio e delle figure mitologiche si intreccia con i tappeti fiammeggianti del cielo. Questa edizione critica degli Astronomica, curata da Enrico Flores, propone un testo nuovo rispetto a quelli di Housman e di Goold. La traduzione di Riccardo Scarcia rende mirabilmente il respiro cosmico e letterario dell'opera latina. Il commento, a cura di Simonetta Feraboli e Riccardo Scarcia, ricostruisce la cultura astronomica e astrologica di Manilio, e i complicati processi della sua arte letteraria.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Nota sulla cosmologia di Manilio
Nota al testo
Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Indice della terminologia tecnica
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La mancata inclusione degli "Astronomica" nello scrinium delle letture consigliate è una delle ragioni della circolazione dell'opera nelle zone periferiche della società intellettuale ed entro gli ambiti più privati degli interessi specialistici. Non sarà certamente un caso se Quintiliano stesso, nel menzionare due poeti didascalici campioni delle ultime generazioni repubblicane, citerà soltanto Lucrezio ed Emilio Macro, e se sono solo Lucrezio ed Emilio Macro - non Manilio - a comparire quali rappresentanti della categoria nel Chronicon di Girolamo per il tramite del de poetis del quintilianeo Svetonio (anche se Macro, in Svetonio, poteva forse comparire nell'altra sua veste di poeta elegiaco). E mancata, in altre parole, a Manilio l'attenzione dello studio delle classi di scuola e una consequenziale lettura dei suoi versi che mirasse alla comprensione della personalità e del carattere artistico dell'autore, quale quella che connota non solo il progresso della bibliografia critica, come accade per i maggiori, ma anche l'elementare aggregarsi di informazioni di tipo personale, che, risalendo da qualche contenuto dell'opera al privato dell'autore, consentano la modesta costituzione, se non di una vita chiarificatrice, almeno di un accessus all'opera di ragionevole dimensione ed esaustività: il legame tra esegesi preventiva del testo e lo stabilirsi di una sorta di vulgata di ordine biografico, che valga da cenno in-troduttivo alla pratica acquisizione dell'opera poetica che interessa e di cui si sta appunto per incominciare l'assimilazione materiale, è infatti cosa troppo nota perché se ne debbano ancora chiarire coordinate culturali e necessità storica.
Pesa inoltre, in un modo o nell'altro, su buona parte della letteratura dei primi decenni dell'età imperiale l'incertezza sociale dei tempi che la produssero e il carattere un poco provvisorio anch'esso dell'istituzione politica (il principato) cui essa era legata, nonché gli alti e bassi della lotta politica con l'ascesa o il crollo di gruppi dirigenti e delle relative clientele: non è improprio supporre, pertanto, che la precoce riduzione ai margini della distribuzione libraria degli Astronomica come noi li conosciamo possa essere addebitata anche al tramonto repentino di una figura politicamente e culturalmente imponente quale quella del Germanico guerriero e letterato (19 d.C.), e che il lavoro in sé si sia preservato - accanto a pochi frutti ben individuabili quale genus pratico della medesima età gaiana e tiberiana, come i densi libri morali di Valerio Massimo o il compendio storico di Velleio Patercolo o la sezione de medicina dell'enciclopedia di Cornelio Gelso - proprio in grazia del suo apparente carattere di forte specializzazione scientifica, degno comunque di essere consultato a livello di professionalità alquanto riposte e di dignità servile, come quelle attinenti alla divinazione astrale e al calcolo pratico degli oroscopi: destino affine a quello della letteratura oneirocritica o finanche botanica, veterinaria e dei ricettar! di culinaria. Fruizione discreta, anche fruttuosa di guadagni d'ogni genere, ma che dei preliminari di una uita Mattili contenente dati anagrafici e dettagli sui mores di lui poteva benissimo fare a meno. Così potrà credersi senza fatica che tutte le riproposte editoriali successive degli "Astronomica", che hanno rappresentato gli anelli della trasmissione dell'opera nei secoli, fino ai tempi di quella editoria aristocratica del tardo antico che riproponeva altre imprese - quali le rinnovate emendationes di Persio o di Tito Livio - come ben più comprensibili bandiere della tradizione "pagana" da opporre alla supposta degradazione del presente, e che in un modo o nell'altro rappresenta la zona archetipica dei nostri recuperi della letteratura latina attraverso il Medioevo, non potranno prescindere dal valore d'uso fortemente strumentale conferito all'opera, come si diceva, assai per tempo.
Carattere apparente, dico, perché non ci dovrebbero essere dubbi, per il lettore moderno, che Manilio non è egli stesso un professionista autentico degli argomenti di cui canta e che ha scelto il tema che ha scelto sia per concessa licenza corporativa quiàlibet audendi, sia perché per condizionamento ambientale e storico egli (come generazione) appartiene ancora a un "regime ideologico" - per cosi dire - che concede legittimità all'ambizione dell'inuentio: regime irrimediabilmente scaduto con la fine dell'avventura dinastica giulio-claudia, quindi con il rafforzamento istituzionale del principato da parte dei Flavi e la parallela più marcata distinzione - per le diverse categorie sociali - dei rispettivi compiti produttivi, e con la svolta autoritaria e garantista di Traiano, una pietra tombale sul sistema compromissorio della diarchia Senato-Imperator, infine con la scomparsa dell'aemulatio nei riguardi della Grecità artistica e scientifica a favore di una autonoma gestione della variabilità interna dei contenuti dell'arte poetica e delle scienze, nonché dello sviluppo di una polyeideia tutta romana. Non c'è, d'altro canto, ragione alcuna - anche nel mondo classico - che un matematico o un medico o un architetto, o appunto un astronomo, "autentici" scrivano in poesia per informare dei risultati dei propri studi e per fare il punto sullo stato d'avanzamento tecnico delle loro rispettive professioni.
Con il decimo e undecimo libro delle "Confessioni", che la Fondazione Lorenzo Valla presenta nella traduzione di Gioacchino Chiarini e nel commento di Aimé Solignac e di Marta Cristiani, il racconto della vita di Agostino è ormai terminato. Agostino affronta l'altro tema della sua confessio: la memoria, il tempo, l'universo, il mistero di Dio, in pagine di vertiginosa e angosciosa interrogazione filosofica. Chi ama Dio, ama le sue opere visibili: "quando amo il mio Dio, amo una certa luce e una certa voce e un certo profumo...". Quindi Agostino si avanza nelle "distese e nei vasti palazzi della memoria": lì stanno le immagini nate dalla percezione delle cose, i pensieri nati dai sensi. Ci sono immagini che si presentano immediatamente, altre che si fanno desiderare più a lungo, come se le dovessimo cavar fuori da ripostigli segreti: altre ancora irrompono in massa e balzano in prima fila con l'aria di dire: "Non siamo noi, per caso?". Altre ancora sopraggiungono docilmente e in bell'ordine come uno le chiama. La memoria è il vero miracolo della vita inferiore, "mentre gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le vaste correnti dei fiumi". "Grande è la potenza della memoria, qualcosa di terrificante, mio Dio, la sua profonda e infinita complessità; e tutto questo è la mente, tutto questo sono io. Cosa sono io dunque, mio Dio?"
Le riflessioni sul tempo segnano l'inizio della meditazione sulla realtà divina, che è l'oggetto degli ultimi tre libri. "Non c'è stato un tempo in cui Tu non abbia fatto qualcosa, perché il tempo stesso è opera Tua. E non c'è tempo che Ti sia coeterno, poiché Tu permani; e se il tempo permanesse, non sarebbe più il tempo."
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro X
Libro XI
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro X
Libro XI