Molte ipotesi sono state fatte sul culto dei martiri nella Chiesa cristiana primitiva, e sugli "Atti e Passioni", raccolti in questo volume. Sappiamo con certezza che questi acta martyrum presuppongono un'opera di redazione, che poggiava sia sulla consultazione degli archivi sia su quella dei testimoni oculari. Quando il redattore greco o latino - spesso uno scrittore di grandi qualità letterarie - aveva ultimato il proprio lavoro, il documento era riconosciuto come ufficiale dalla Chiesa e depositato nei suoi archivi. Lo si impiegava nella celebrazione dell'anniversario, sul luogo stesso del martirio. Oggi riconosciamo in questi "Atti e Passioni dei Martiri" alcuni dei grandi testi, in cui l'antichità - sia pagana che cristiana, persecutori e vittime - ci parla con voce più diretta e commovente. La passione del martire è una continuazione della passione di Cristo: Dio è sempre presente nella storia, e " mantiene le sue promesse in ogni tempo, come testimonianza per i non credenti, come grazia per i credenti ". Gli Atti e le Passioni sono elaborate opere letterarie, dove gli orrori e le crudeltà e gli strazi di gusto elisabettiano, le visioni oniriche che anticipano il martirio, la fedeltà, la fiducia, le estasi e il fanatismo dei credenti, la strana tolleranza dei persecutori, un grandioso senso teatrale e spettacolare, radiosi anticipi celesti si fondono in forme sovente perfette. Questo volume, curato da un gruppo di studiosi olandesi allievi di Christine Mohrmann, raccoglie tutti i testi più significativi: il "Martirio di san Policarpo", il "Martirio dei santi Carpo, Papilo e Agatonice", il "Martirio di san Giustino", gli "Atti dei Martiri di Lione", gli "Atti dei Martiri di Scili", la "Passione di Perpetua e Felicita", il Martirio di san Pionio, gli "Atti di Cipriano", gli "Atti di Massimiliano", gli "Atti di Filea", il "Testamento dei quaranta Martiri", la "Passione di Agnese".
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia generale
TESTI E TRADUZIONI
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Acta Martyrum Scilitanorum
- Passio Perpetuae et Felicitatis
- Martyrium Pionii
- Acta Cypriani
- Acta Maximiliani
- Acta Phileae
- Testamentum XL Martyrum
- Peristephanon Hymnus XIV - Passio Agnetis
COMMENTO
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Acta Martyrum Scilitanorum
- Passio Perpetuae et Felicitatis
- Martyrium Pionii
- Acta Cypriani
- Acta Maximiliani
- Acta Phileae
- Testamentum XL Martyrum
- Peristephanon Hymnus XIV - Passio Agnetis
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. Questioni di terminologia
L'antichità cristiana ci ha trasmesso una serie di scritti di carattere assai particolare, comunemente denominati acta martyrum: gli atti dei martiri. Si tratta di resoconti di processi e di esecuzioni, inflitti a uno o più cristiani in ragione della loro fede in Cristo. Il termine acta, qui, non va inteso nel senso tecnico di procedimento verbale di una sessione giudiziaria, che condanna i cristiani. In nessun caso si tratta di un documento ufficiale proveniente dalla magistratura imperiale: tutt'al più, di uno scritto nel quale tale documento è stato utilizzato. Ma, poiché negli scritti in questione uno degli elementi importanti è il processo, il confronto col giudice terreno, davanti al quale il confessore pronuncia la sua testimonianza, il termine acta non è del tutto improprio. Del resto, fuori del gergo burocratico il termine latino acta sta anche a designare azioni coraggiose, gesta, e di qui può applicarsi senza difficoltà al comportamento eroico del martire, che sopporta azione giudiziaria, torture e morte in nome della sua fede. Quindi l'espressione acta martyrum, purché non la si prenda in un'accezione strettamente burocratica, ma in senso lato, a comprendere tutta la serie di afflizioni che il fedele di Cristo deve subire nel suo confrontarsi col potere temporale, è giustificabile, e non proviamo imbarazzo a utilizzarla. Si trova a volte, aggiungiamo, il termine gesta, che nella sua accezione e nel suo impiego coincide perfettamente con acta.
Esiste anche, per designare gli scritti relativi al martirio, il termine passiones, in uso fin dal principio della latinità cristiana nell'accezione di "passioni dei martiri"': lo si trova ad esempio in un canone del concilio d'Ippona del 393, il quale stabilisce che a fianco delle scritture canoniche si debbono anche leggere in chiesa le passiones martyrum. E evidente che in questo termine è sottolineata, da una parte, l'idea di sofferenza, e che, d'altra parte, è messo in evidenza il carattere narrativo: si tratta di una narrazione di lotte e di dolori, culminanti nella morte. La distinzione rispetto ad acta non è, a rigore di termini, che una distinzione di punto di vista. Ma l'impiego del termine passio s'impone là dove l'elemento narrativo è preponderante, come in quello scritto che, parzialmente redatto dalla sua propria mano, riferisce gli avvenimenti ai quali partecipava Perpetua durante i giorni di prigionia. Tuttavia, come si è detto, la parola acta come termine generico è da raccomandarsi, e ce ne serviremo regolarmente nelle pagine che seguono.
2. Influssi pagani all'origine degli acta martyrum?
Che cosa ha portato i cristiani a comporre gli acta dei loro martiri? La domanda ha suscitato risposte svariate, ciascuna delle quali merita la nostra attenzione. La prima di esse vi scorge forti connessioni pagane e affonda le sue radici nella pregiudiziale sin-cretistica che, all'inizio di questo secolo, permeava gli studi sulle origini del cristianesimo. Si dava grande importanza ai frammenti di papiro, scoperti in Egitto, che trattavano di processi e di morti subiti da alessandrini per mano delle autorità romane. I frammenti riflettevano il conflitto che non cessava di turbare i rapporti tra alessandrini e romani, poiché Alessandria, città ellenica per eccellenza e centro di cultura, non poteva che rassegnarsi difficilmente alla preponderanza politica dei latini, gente ai suoi occhi sprovvista di cultura. Durante i primi due secoli della nostra era questo conflitto si accendeva ad ogni istante; veniva complicato, a volte, da tratti di antisemitismo, fenomeno endemico ad Alessandria, che ospitava un gran numero di ebrei. Vi furono sommosse, processi a Roma, chiamate di testimonianza dinanzi agli imperatori, recriminazioni nei loro confronti, accuse di lesa maestà e, spesso, vi fu la pena capitale. I nostri papiri presentano gli alessandrini nel loro conflitto con lo stato romano quali protagonisti della cultura ellenica, difensori dei valori della patria, veri martiri, morti d'una morte gloriosa. Per stabilire la parentela con gli atti dei martiri cristiani, l'erudizione moderna si basava sull'aspetto giudiziario: i dibattiti fra giudici e accusati erano messi in luce, e si inventò il termine di acta martyrum paganorum, atti dei martiri pagani. Si cercava anche di stabilire rapporti fra questi acta e gli exitus virorum illustrium, le descrizioni della fine di personaggi eminenti vittime di imperatori tirannici, che, a quanto dice Plinio il Giovane, erano di mano di letterati del suo tempo. E sotto l'influsso delle tendenze sincretistiche del principio del secolo si pervenne alla tesi che gli acta martyrum christìanorum erano scritti di mano cristiana, imparentati a questi exitus virorum illustrium e, soprattutto, modellati su questi acta martyrum paganorum.
La tesi è insostenibile, poiché i punti di contatto che collegherebbero gli acta dei martiri pagani a quelli dei martiri cristiani fanno difetto. Indubbiamente, l'ammirazione dinanzi alla morte eroica di pagani non mancava da parte cristiana. Cosi, Clemente d'Alessandria e Tertulliano presentano, quale esempio per i loro correligionari, patrioti come Muzio Scevola e Attilio Regolo, filosofi intrepidi come Eraclito di Efeso, Socrate e Zenone d'Elea, donne coraggiose come Didone e Lucrezia. Ma non vi è alcuna menzione, nemmeno in Clemente, loro compatriota e, parzialmente, loro contemporaneo, né dei "martiri" alessandrini ne delle loro testimonianze davanti alle autorità, che dovrebbero essere i modelli delle testimonianze cristiane. Sembra proprio che la storia dei nostri alessandrini fosse troppo oscura per attirare l'attenzione cristiana. E non è immaginabile che ciò che era oscuro persino ad Alessandria potesse spingere i cristiani d'Asia Minore, d'Africa, di Spagna alla redazione degli atti dei loro martiri.
Dopo i primi due volumi, dedicati all'Attica, alla Corinzia e all'Argolide, la Guida della Grecia giunge al terzo volume, incentrato su Sparta. I capitoli iniziali possono deluderci. Pausania non ama la storia, e questo scorcio di storia laconica, diviso tra le due famiglie reali, sembra di un infimo compilatore. Ma, appena comincia a descrivere luoghi - un folto di querce o una spiaggia di ciottoli -, Pausania si trasforma: si rivolge al lettore, dicendo: "arriverai presso un tempio" o "vicinissimo ai sepolcri vedrai una stele" - ed ecco che una città quasi completamente scomparsa come Sparta risorge nitidamente davanti ai nostri occhi. In apparenza, Pausania è antilaconico: ma, in realtà, Sparta incarna quanto lo affascina di più: l'arcaico, il sacro, il crudele. Tutto ciò che egli racconta sulle gare violente degli efebi spartani, o sulle vecchie statue di legno, come quelle che Oreste e Ifigenia avrebbero trafugato dalla Tauride, ha un'intensità straordinaria. Tra le più belle pagine del libro c'è la minuziosa descrizione del trono di Batticle nel thesaurus di Amicle: questa vetta sperduta della scultura arcaica greca, attorno alla quale Pausania intreccia le sue storie mitiche. E il rapido scorcio su Achille, che dopo la morte sposa Elena nell'Isola Bianca: simbolo della candida e profonda venerazione che Pausania ha sempre nutrito per gli eroi.
Indice - Sommario
Nota introduttiva al Libro III
di Mario Torelli e Domenico Musti
Bibliografia
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
a cura di Domenico Musti
Sigla
Libro III: La Laconia
COMMENTO
a cura di Domenico Musti e Mario Torelli
Libro III: La Laconia
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La Laconia, argomento del III libro della "Guida della Grecia", è presentata da Pausania in tre fondamentali sezioni: l'area della Laconia vera e propria, centrata su Sparta, ma articolata in più itinerari (A-F), e l'area degli Eleuterolaconi, suddivisa per ovvie ragioni geografiche nelle due grandi penisole del Parnone e del Taigeto, che vengono entrambe visitate con propri itinerari (G-H e I). Da ciò discende la ripartizione dell'intero libro attorno ai seguenti nuclei di itinerari, la cui descrizione è preceduta dal poderoso insieme di capitoli (1-10,5) relativi alla storia della Laconia e di Sparta:
a) itinerario che reca a Sparta partendo dall'ingresso in Laconia dall'Argolide al passo delle Erme, con i siti di Carie, Sellasia e Tornace (10,6-11,1);
b) la città di Sparta (11,1-18,5);
e) itinerario per Amicle (18,6-19,6);
d) itinerario per Terapne e di lì per il Taigeto e la pianura centrale della Laconia con i siti di Terapne, Phoibaion, Fari, Brisee, Euora, Therai, Lapiteo, Dereo e Arplea (19,7-20,7);
e) itinerario per l'Arcadia, con i siti di Pellana e Belemina (20,8-21,3);
f) itinerario per Gizio, con i siti di Crocee ed Egie (21,4-5);
g) area degli Eleuterolaconi e primo itinerario della penisola del Parnone, con la parte marittima da Gizio ad Acrie, comprendente i siti di Gizio, l'isola di Cranae, il Migonion, Trinaso, Elo e Acrie e la parte montana da Acrie verso Gerontre e di li verso i siti di Palea Kome, Mario, Glippia e Selinunte (21,6-
22,8);
h) secondo itinerario, tutto costiero, della penisola del Parnone, da Acrie a Brasie, toccando i siti di Asopo, Paraciparissie, Hyperteleaton, la penisola di Onou Gnathos ("Mascella d'asino"), Boiai, Etide, Afrodisiade, Side, l'isola di Citerà, con l'omonima città e il porto di Scandea, Ninfeo, Epidelio, Epidauro Limera, Zarace, Cifanta e Brasie (22,9-24,5);
i) periplo della penisola del Taigeto, da Gizio ad Alagonia ai confini con la Messenia, toccando Las, Ipsi, Pirrico, Teutrone, il porto Achilleo, Psamatunte, il santuario di Posidone al capo Tenaro, Cenepoli, Tiride, Ippola, Messa, Etilo, Talame, Pefno, Leuttra, Cardamile, Gerenia e Alagonia (24,6-26,11).
A) Pausania riprende il cammino là dove aveva concluso il libro II, al triplice confine delle Erme, e la discesa in Laconia tocca il bosco di querce e il santuario ctonio di Zeus Skoritas, che da nome alla località, sede anche di un culto di Eracle legato al ricordo degli Ippocoontidi, mito che sta alla base del "ritorno degli Eraclidi"; prendendo poi la "terza strada sulla destra" si giunge a Carie, sito per noi di incerta identificazione, ma di notevole fama nell'antichità grazie al santuario di Artemide Karyatis e alle feste annuali con le celebri danze delle fanciulle spartane, mentre sulla via del ritorno si toccano le rovine di Sellasia, luogo della nota battaglia del 222 a.C. circa. Proseguendo il cammino verso Sparta, poco prima di toccarla, si arriva a Tornace, anche questo sito non sicuramente identificato e sede di un altro celebre santuario, quello di Apollo Pythaeus, che si lega nel culto e nella storia - soprattutto per il dono prezioso di Creso - all'ancor più noto Apollo di Amicle.
B) Giunto da Tornace a Sparta, Pausania organizza la visita della capitale della Laconia, "a forma di ruota", come afferma Polibio, con il consueto sistema che prevede prima il giro dell'agora, quindi otto ulteriori itinerari: tre partono dall'agora (l'Afetaide, l'" altra strada" e la "via verso occidente"), tre invece innervano la raggiera del tessuto urbano di Sparta (il Dromos, la "via dal Dromos a oriente" e la "via dal Chitone alle porte"), ma, a differenza dei precedenti, partono da un luogo diverso dall'agora. Il settimo itinerario infine concerne l'acropoli, mentre, partendo forse ancora una volta dall'agora e seguendo una strada ancor oggi ben individuabile che passa attraverso la porta settentrionale delle mura tardoantiche, l'ottavo percorso si dirige "verso l'Alpio", ossia verso nord-est. Ma vediamo analiticamente questi nove percorsi urbani.
1) L'agora. Pausania vede certamente un'agora interamente rifatta in epoca romana, al cui centro non a caso troneggiano i due templi di Cesare e di Augusto. Secondo la ricostruzione che se ne propone nella discussione analitica delle note al testo, l'agora va riconosciuta nel luogo dove ancor oggi è visibile la cosiddetta "stoa romana", in realtà terrazzamento monumentale atto a sostenere gli edifici pubblici, che nel testo di Pausania sembrano essere suddivisi in tre lati chiusi nel quarto dalla sostruzione: un lato (orientale?) conterrebbe tutti gli edifici politici del nuovo assetto ellenistico-romano, il bouleuterion della gerusia e gli uffici degli efori, dei nomofilaci, e dei Bidiei, un lato (settentrionale?) il "portico dei Persiani", e un lato (occidentale?) i vecchi edifici di culto e politici, il Choros e i santuari di Gea, di Zeus e Atena Agoraioi, di Posidone Asphalios, di Apollo, di Era e delle Moire; attorno a quest'ultimo santuario è riconoscibile un vero e proprio pritaneo, con un complesso di antichi luoghi sacri e pubblici - le tombe eroiche di Oreste e di Epimenide, gli "antichi uffici degli efori", i culti di Estia e di Zeus e Atena Xenioi -, assieme a statue aggiunte in età molto più tarda, il colosso del "Demos degli Spar-tiati", l'immagine del leggendario "buon re" Polidoro e la statua di Ermes Agoraios.
Questo volume e i quattro successivi sostituiscono la prima, grande edizione commentata delle "Confessioni" di Agostino. Ad essa hanno collaborato i maggiori studiosi francesi e italiani della sua opera: Jacques Fontaine, che ha scritto l'introduzione generale; Patrice Cambronne, Goulven Madec, Jean Pépin, Aimé Solignac, che hanno scritto parte dei commenti; Manlio Simonetti, che ha curato il testo, l'apparato biblico, e commentato l'ultimo libro; Gioacchino Chiarini, autore della bellissima traduzione; mentre gli altri commenti sono stati affidati a Marta Cristiani, Luigi F. Pizzolato e Paolo Siniscalco; e José Guirau ha allestito la bibliografia generale.
Se l'Occidente deve una metà del suo cuore all'Odissea, certo l'altra metà è riempita da questo libro tessuto in parti eguali di luce e di tenebra. Quale libro immenso! Lode e celebrazione di Dio; storia di una vita, di un'anima, di due culture; sublime testo filosofico e metafisico; saggio sulla memoria, sul tempo, sulla Bibbia; e tutto questo materiale disparato è disposto nelle linee di un'architettura rigorosa e complessa come le chiese che, per dodici secoli, sorsero sulla base di una testimonianza così appassionata. Petrarca adorava le "Confessioni", "questo libro gocciolante di lacrime". Come noi, ne amava la stupenda retorica: il gioco delle ripetizioni, dei ritornelli, dei parallelismi, delle opposizioni, l'inquietante stregoneria verbale, l'ansia dolcissima e drammatica delle interrogative, la mollezza a volte quasi estenuata - la quale suscitava, in lui che scriveva, e suscita in noi, che stiamo leggendo, lo stesso contagio e la stessa commozione.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Nota al testo
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro I
Libro II
Libro III
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro I
Libro II
Libro III
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
Prologo
Il lettore del nostro secolo è tanto più sconcertato dalle "Confessioni" dal momento che le apre con una simpatia nutrita di illusioni molteplici. La discendenza dell'opera, ricca e diversa, può dargli l'impressione che gli basti risalire un certo filone delle letterature moderne per accostarsi con familiarità a un antenato comune di Jean-Jacques Rousseau, Alfred de Musset e André Gide; o anche, tra molti altri, di Michel de Montaigne, Ulric Guttinguer e Marcel Proust. Da questo punto di vista, è sufficiente il solo titolo dell'opera a risvegliare nel lettore echi ingannevoli. Non dimentico del dibattito tra Voltaire e Pascal sugli Essais di Montaigne, il lettore può accingersi a misurare con curiosità se anche chi scrisse le "Confessioni" meritasse già il giudizio di Pascal sullo "sciocco progetto, che egli ebbe di dipingersi", o la rettifica sarcastica di Voltaire, che lo riteneva da parte sua un "progetto affascinante". La memoria, intrisa di biografie e di autobiografie, può anche scoprire nella figura del vescovo d'Ippona un antenato di Nathanael, ubbidiente all'ultimo precetto delle Nourritures terrestres: "creato da tè... ah! il più insostituibile degli esseri". A meno che l'evocazione dell'adolescenza di Agostino non gli lasci sperare, sulle vicissitudini del giovane africano a Cartagine, dettagli piccanti come i ricordi del giovane Rousseau sulle sue avventure veneziane. Esistono infatti Confessioni e Confessioni. Qui non troveremo ne confidenze scabrose, ne l'apologia appassionata di un uomo di lettere assetato di giustificazioni, e neppure un'autobiografia intesa nel senso che i moderni (i quali del resto lo hanno inventato) danno al termine. Le Confessioni di Agostino sono prive di compiacimenti: sono lontane sia dal "culto di sé stesso", sia da un progetto letterario gratuito. Anzi esse sono solo parzialmente "autobiografichc"; quanto basta perché un'esperienza vissuta e individuale fornisca precisa materia e precisa illustrazione a una lode pubblica di Dio che fu misericordioso nei confronti del peccatore Agostino.
Le ultime parole fanno comprendere che non si entra in queste "Confessioni" con la tranquillità con cui si affrontano le confidenze troppo umane di un memorialista o di un romanziere moderno. L'universo interiore di Agostino e le forme del suo discorso possono, a prima vista, sembrarci ugualmente sorprendenti, o addirittura estranei. Non solo per il sentimento di estraneità ispirato dal racconto di ogni esperienza mistica, nel senso che diamo ancora a questa parola pensando a Teresa d'Avita o a Giovanni della Croce. Ma l'estremismo concertato della sensibilità religiosa di Agostino e della sua espressione non ci disturba meno di quanto ci imbarazzi, in alcune pagine, l'agilità sottile della sua ragione alle prese con le contraddizioni più delicate dell'animo umano. Le risonanze filosofiche e bibliche, sapientemente accordate o contrastate, sono difficili da cogliere a prima vista per un lettore che abbia scarsa familiarità con il tardo platonismo e spesso una familiarità appena maggiore con il Nuovo e soprattutto con l'Antico Testamento. Anche se iniziato discretamente alla complessità di una simile cultura classica e cristiana, il lettore talvolta faticherà nel seguire i meandri del pensiero di Agostino: si pensi alle pagine dove, sotto il riflesso cangiante e volutamente disparato delle metafore e delle astrazioni, si tesse un linguaggio adeguato con attenzione a esprimere il proprio oggetto: in questo linguaggio le perifrasi e le riprese si seguono a stento, come in un discorso esoterico.
Non è però meno vero che, a questo proposito, noi non siamo più prevenuti, come lo erano i nostri predecessori, dall'ossessione del "genio luminoso". Di fronte a uno stile talvolta più barocco che classico, l'apertura del gusto moderno ci mette al riparo da molti pregiudizi anche recenti, scusabili in lettori del secolo scorso che non avevano ancora letto A rebours, ne conosciuto i deliri verbali della poesia dopo Rimbaud. Nonostante qualche difficoltà formale, il lettore di buona volontà non può declinare l'invito al viaggio nell'universo interiore di Agostino. Se accetta di compierlo può constatare che, a prezzo di uno sforzo minimo di attenzione, "tutto lì parla all'anima, in segreto, la sua dolce lingua natale". Anche per il lettore di oggi le Confessioni conservano fascini immediati: il calore umano, la freschezza dell'anima, le sfumature delicate e multiple di un sentimento religioso e poetico in accordo con quello del salmista, ma anche la convinzione, la passione dell'assoluto e la penetrazione metafisica, l'accanimento paziente nel comprendere le ambiguità umane, la rivendicazione incessante dei diritti della ragione e del libero arbitrio (anche di fronte a un Assoluto personale che precorre sempre le decisioni dell'uomo). Le Confessioni non smettono di testimoniare con foga quella che chiamiamo, dopo i filosofi del diciottesimo secolo, la "caccia alla felicità". Agostino si appassiona a ciò che noi chiamiamo la ricerca del senso: senso dell'esistenza umana, del male e della morte, della colpa, e dell'equilibrio perduto e ritrovato. Come noi, diffida dei sistemi, esercitando nei loro confronti una critica esigente; vive tragicamente la tentazione dello scetticismo disperato; e, anche quando pensa di aver trovato, continua con passione a cercare di comprendere le debolezze dell'uomo, i limiti della ragione e le oscurità del nostro destino. Non c'è bisogno che il lettore sia un credente per trovare nelle "Confessioni" quel "nutrimento di verità" che Agostino si dichiara capace di trarre dalla poesia classica, anche da quella più lontana dal cristianesimo. Quand'anche non condivida le sue convinzioni religiose e filosofiche, il lettore di oggi non può non ammirare le qualità invidiabili di questa personalità così attraente: l'onestà intellettuale; il coraggio di continuare a cercare sempre; soprattutto, forse, il gusto di vivere nel fervore del cuore e dello spirito.
In questo senso cercheremo di indicare la via al lettore, prima che egli la percorra in compagnia di guide migliori. Esiste sulle "Confessioni", tanto più su Agostino, una bibliografia sempre rigogliosa, più considerevole che sulle altre grandi opere dell'antichità classica. Eccellenti e recenti edizioni, soprattutto in francese e in italiano, possiedono introduzioni la cui ampiezza è pari al valore. Actum ne agas: ci guarderemo dal ripeterle. Cercheremo anche di non sciupare le note preparate in questi volumi da specialisti eminenti sui particolari del testo e dei suoi problemi. Bisogna innanzitutto che il lettore si impegni di buon grado e prenda coscienza delle affinità tra Agostino e un uomo d'oggi.
Nato a Cividale tra il 720 e il 730, Paolo Diacono ebbe rapporti con la corte dei duchi friulani e poi con quella regia di Pavia. Studiò il greco, insegnò il latino: aveva un'ottima cultura classica, sia letteraria che storiografica. A Pavia si dedicò agli studi sacri, diventò monaco a Montecassino; e infine visse alla corte di Carlo Magno, che consigliò e per il quale scrisse. La sua "Storia dei Longobardi" è uno dei capolavori della storiografia d'ogni tempo. Nelle oscure popolazioni discese dal Nord, alle quali deve la sua origine. Paolo Diacono scorge una forza potenziale, quasi priva di contenuto, che si adatta alla tradizione romana, e la rinnova dall'interno. La sua fedeltà alla propria gente si concilia, in equilibrio perfetto, con l'amore per la storia romana e cristiana, la cultura e la lingua che ha appreso. Pochi altri libri realizzano così meravigliosamente l'ideale di una storiografia totale. La "Storia dei Longobardi" è, in primo luogo, una storia della natura europea: stupendi scorci geografici, paesaggi visti e immaginati, diluvi, incendi, notizie meteorologiche, prodigi. Su questo sfondo, si accampa la storia di un'emigrazione barbarica, un flusso furibondo di genti, episodi di passione e di ferocia, raccontati da uno scrittore posseduto da un forte senso del mito. L'ingenuità di un cronista medievale, l'intuizione acutissima dello storico politico, la fede del cristiano si fondono, nelle sue pagine, con il genio del grande narratore, che racchiude in un episodio minimo il senso della storia universale. La traduzione di Lidia Capo riproduce mirabilmente la mescolanza di cultura e di rozzezza, che è propria dello stile di Paolo Diacono. L'ampio e meticoloso commento lascia affiorare, attorno alla storia tragica dei Longobardi, l'ampio respiro della storia d'Europa e di Bisanzio. Il volume è completato da una suggestiva rassegna di immagini, che rivelano i vertici dell'arte longobarda.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Nota al testo
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Indice dei nomi di persona e di luogo
Indice delle fonti citate nell'introduzione e nel commento
Prefazione / Introduzione
Nell'Europa rivoluzionata dalle invasioni germaniche, nell'inaudita realtà di regni guidati da popoli "barbari", venuti a rompere e sostituire l'unità e la tradizione dell'impero di Roma, maturò presto il bisogno di integrare il passato e il presente in una prospettiva storica che riuscisse a conciliare vecchio e nuovo e a rendere accettabile culturalmente quello che era inevitabile sul piano politico. Si trattò di un vero e proprio tentativo di interpretazione e di riconversione delle tradizioni storiche germaniche nel linguaggio e negli schemi della storiografia mediterranea: un'opera compiuta ovviamente da Romani, e non da letterati o storici "puri", bensì da personaggi in qualche modo vicini al potere, disposti ad accettare la presenza e il predominio dei Germani. La prima fase della storiografia europea dopo la dissoluzione dell'impero in occidente - quella rappresentata da Cassiodoro, da Gregorio di Tours, da Isidoro di Siviglia - nacque appunto dalla volontà di collaborazione dell'elemento romano con lo strato politico germanico e dal suo conseguente sforzo di romanizzare, cioè rendere comprensibili per il pubblico romano perché omogenee alla sua cultura, le vicende e le tradizioni, in sé molto diverse, dei singoli popoli germanici: un'operazione compiuta partendo dalla storia, perché è la storia che, in un mondo dominato dall'intervento umano e dalla memoria scritta come quello romano, distingue e definisce gli uomini, e soprattutto li redime dalla barbarie. Per questo Gregorio di Tours ha tanto cercato nelle vicende dei Franchi la comparsa dei re - primo embrione di uno stato - ed ha esaltato nell'opera di Clodoveo (quintessenza di grande barbarie) le linee di forza di un futuro civile. E per questo Cassiodoro ha manipolato le tradizioni dei Goti, combinandole con quelle di altri popoli da più tempo noti al mondo classico, compiendo un lavoro di adeguamento ed equiparazione culturale (in realtà trasformazione), che egli stesso ha definito con assoluta precisione e consapevolezza: "Originem Gothicam historiam fecit esse Romanam".
Questa collaborazione dei Romani, che aveva in fondo lo scopo di adattare a sé le novità, mantenendole sotto il proprio controllo, ebbe un successo variabile (solo in Francia poté dare frutti duraturi), ma l'ingresso dei popoli germanici nella "storia romana", come protagonisti, era ormai una conquista definitiva. Nel VII-VIII secolo nell'ambito del regno franco, nella prima metà dell'VIII nell'Inghilterra anglosassone, nel VII e VIII nell'Italia longobarda altri scrittori si posero di fronte allo stesso problema, l'inserimento dei nuovi popoli e regni nella storia "civile". Nonostante il tempo intercorso e nonostante il fatto che fossero, stavolta, Germani (meno, forse, il cosiddetto Fredegario), anche questi scrittori utilizzarono gli schemi della storiografia romano-cristiana. Si trattò dunque di una vittoria della cultura latina: la storia che viene scritta (e ovunque, meno che in Inghilterra, la storia sarà ancora a lungo scritta solo in latino) non è concepibile che attraverso le strutture portanti - tempo, spazio, scansioni di regni e pontificati, forme di organizzazione stabile - datele dalla cultura antica, integrata e riveduta dalla Chiesa.
Ma la vittoria non fu completa, perché dietro queste opere non esisteva più la stessa cultura di prima. Il mondo romano non era più una realtà concreta e la sua capacità di unificare e di uniformare era ormai affidata solo alla Chiesa, che non era in grado di esercitarla ovunque con la stessa intensità. Gli storici quindi, anche quelli forniti di migliore scuola, non avevano più i mezzi per integrare passato e presente in una prospettiva realmente romana; potevano al massimo utilizzare l'immagine che della storia romana si erano creati sulla base delle proprie esperienze e della propria cultura: un'immagine, ovviamente, che con l'effettiva realtà romana poteva avere pochissimo in comune e che in ogni caso era sempre un'interpretazione. E la distanza con la fase storiografica di Cassiodoro era ancora maggiore, perché gli storici della seconda ondata - e soprattutto i più colti e consapevoli, come Beda e Paolo Diacono - non volevano affatto trasformare la propria realtà in senso romano, ma solo darle una leggibilità e una dignità storica, grazie a certi parametri ricavati dalla cultura antica. "L'historia Romana" non significava dunque più adeguamento dei nuovi popoli ai valori e alle forme culturali del mondo classico, bensì impiego, per scrivere la loro originale vicenda, del "reticolo latino", cioè delle coordinate di spazio, tempo e relazioni. Perciò, nonostante la forma latina che le accomuna, il carattere autonomo, germanico, è essenziale nelle opere del VII-VIII secolo: esse sono anzi un primo bilancio che i Germani stessi ricavano dal loro incontro con la grande storia.
Ma nemmeno questo germanesimo è più allo stato puro, un inalterato principio di spiegazione e rappresentazione, sebbene sotto una veste altrui. Al contrario anch'esso è storico: ha subito un processo di crescita e di modificazione a contatto con un mondo estraneo. I nostri testi non sono più la testimonianza di un primo passo nell'incontro tra popoli diversi, bensì il frutto di percorsi storici ormai lunghi, compiuti con apporti variabili degli uni e degli altri: documenti preziosi della travagliata costruzione di un mondo nuovo, che crea e rielabora sulla base delle esperienze di culture differenti, in utile anche se non sempre facile confronto.
E questa vicenda, particolare per ogni paese, che gli autori hanno alle spalle: essa li forma, determina in senso materiale e spirituale il loro rapporto con il proprio passato e con la cultura latina, influisce sulla loro coscienza di sé e sulla loro visione del mondo. Essi riflettono così la qualità e il senso di queste vicende, gli equilibri raggiunti o falliti, gli specifici problemi delle singole realtà, offrendo una sintesi culturale che è un prodotto e uno specchio della loro storia.
Di questi testi "L'Historia Langobardorum" di Paolo Diacono è probabilmente il più complesso: quello che nasce da più intricate motivazioni e da più irrisolte difficoltà, logico riflesso di una storia mai arrivata a sciogliere i nodi essenziali alla sua stessa sopravvivenza.
Con il quinto volume, la grande raccolta del Cristo, a cura di Claudio Leonardi, Antonio Orbe e Manlio Simonetti, trova il suo culmine e la sua fine, in questi testi che dal XIII conducono al XIV e al XV secolo. Qui si ripete e si acuisce il contrasto tra linguaggio metafisico e mistico. Da un lato, l'intelligenza indaga la natura di Dio, concepito come Essere: il discorso su Dio diventa una scienza - la teologia. Ma già Tommaso d'Aquino è consapevole della crisi della teologia: se - come raccontano i suoi biografi - voleva bruciare i suoi scritti, considerandoli senza valore per conoscere realmente Dio. Giovanni Duns Scoto giunge alle più sottili conseguenze dialettiche, mentre un metafisico come Guglielmo Ockham demolisce la metafisica.
D'altra parte la mistica rinnova il tentativo di raggiungere l'unione con Dio, e di cogliere l'eterno nel presente. Ora essa tende ad esprimersi direttamente attraverso documenti autobiografici. Con Francesco, il volto dell'uomo rivela il volto stesso di Dio. Con Meister Eckhart l'esperienza mistica costruisce una teologia che le corrisponde: «la nascita di Dio, nudo e senza veli», avviene nell'anima di ogni uomo. Intorno a lui, il coro della grande mistica femminile: Geltrude di Helfta, che vede Dio faccia contro faccia, cuore contro cuore, corpo contro corpo; Angela da Foligno, la più rozza e intensa testimonianza del tempo, che grida nella chiesa perché Cristo l'ha abbandonata; mentre Giuliana di Norwich rivela che «tutto è bene, tutto sarà bene», annunciando la fine del regno del peccato.
Con la sua drammatica forza luminosa, inebriata di Dio e del mondo, Ildegarde di Bingen vede la Trinità: «una specie di fuoco luminosissimo, illimitato, inestinguibile, tutto vivo, tutto vita: in sé aveva una fiamma azzurra, che bruciava ardentemente». Ildegarde ci rivela che tutte le parole che, in questi cinque volumi, abbiamo letto sul Cristo, sono anche parole pronunciate sul cosmo: perché nel cosmo - «questo grandissimo strumento a forma di uovo» - «si manifestano le cose invisibili ed eterne».
Sotto il titolo Il Cristo la Fondazione Valla raccoglie quanto gli uomini hanno sognato, fantasticato, discusso e pensato intorno alla figura del Cristo, dagli albori del Cristianesimo sino alla fine del Medioevo. L'antologia - un progetto editoriale senza precedenti, che colma una secolare lacuna della cultura occidentale - documenta, in cinque volumi indipendenti, dieci secoli di vita cristiana e di riflessione cristologica. I testi antologizzati provengono dalle fonti più disparate: trattati teologici, meditazioni spirituali, pagine mistiche, discussioni polemiche, atti dei concili, scritti ortodossi ed eterodossi spesso rari, sconosciuti o inediti.
Le diverse sezioni individuano correnti di pensiero, problematiche o singoli autori. Ciascuna sezione è dotata di una propria introduzione e di una bibliografia specifica. Ogni volume comprende inoltre un'introduzione e una bibliografia generali, un dettagliato commento e un ricco apparato di indici.
Capolavoro di un genere letterario molto amato nell'antichità, la Guida della Grecia viene riproposta in Italia dopo centocinquant'anni di oblio, in una nuova edizione critica arricchita da un commento sia archeologico sia storico-religioso, e corredata di numerose cartine.
Cercare "l'antica madre", ossia inseguire di monumento in monumento le tracce di quello splendore che la Grecia aveva conosciuto in età arcaica, classica ed ellenistica: questo era lo scopo del viaggio che Pausania, originario dell'Asia Minore, intraprese intorno al 150 d.C. (dall'Attica sino alla Focide, attraverso il Peloponneso); e non diverso è l'approccio di ogni viaggiatore moderno che si accosti al mondo greco. Questa è la ragione del fascino della Guida della Grecia per chiunque progetti di muovere alla ricerca della Grecia perduta, con un viaggio reale o immaginario, affidandosi alla scrittura evocativa di Pausania.
Capolavoro di un genere letterario molto amato nell'antichità, la Guida della Grecia viene riproposta in Italia dopo centocinquant'anni di oblio, in una nuova edizione critica arricchita da un commento sia archeologico sia storico-religioso, e corredata di numerose cartine.
Il quarto libro della Guida ha un carattere che sembra distinguerlo da tutti gli altri. Da un lato, la storia della Messenia è, più di ogni altra, storia sacra: gli dei non sono mai stati così presenti nei fatti: l'arte degli uomini è se mai quella di correggere appena il destino; e, dall'altro, in nessun libro di Pausania la storia assume un carattere così fantastico e romanzesco.
Niente di più tremendo della guerra tra Spartani e Messenii agli albori della storia greca, come la racconta Pausania. Massacri, distruzioni, rovine, segni sinistri, annunci divini accompagnano la sconfitta della Messenia. Quale lutto intorno alla sua caduta, per tre secoli, sotto il giogo di Sparta. Il quarto libro della "Guida della Grecia", che segue di poco la pubblicazione del terzo, dedicato alla Laconia, ha un carattere che sembra distinguerlo da tutti gli altri. Da un lato, la storia della Messenia è, più di ogni altra, storia sacra: gli dei non sono mai stati così presenti nei fatti: l'arte degli uomini è se mai quella di correggere appena il destino; e, dall'altro, in nessun libro di Pausania la storia assume un aspetto così fantastico e romanzesco.
E probabile che i lettori moderni preferiscano la seconda parte del libro. Alla fine del lunghissimo dominio di Sparta, i Messenii ritornano in patria. Il passato riaffiora: i Messenii, che conservano la lingua e i costumi dei padri, celebrano sacrifici, recitano preghiere, costruiscono case e templi, invitano gli eroi a tornare ad abitare con loro, in un'atmosfera carica di attesa ed emozione religiosa. Nessun tema potrebbe essere più caro a Pausania, che sente così profondamente la fedeltà storica.
Indice - Sommario
Nota introduttiva al Libro IV
di Mario Torelli e Domenico Musti Bibliografia
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
a cura di Domenico Musti
Sigla
Libro IV: La Messenia
COMMENTO
a cura di Domenico Musti e Mario Torelli
Libro IV: La Messenia
INDICI
a cura di Umberto Bultrighini
Indice dei nomi propri di personaggi storici e mitici e di divinità
Indice dei nomi etnici e geografici
Indice di altri nomi propri (santuari, istituzioni, feste, monumenti, edifici, opere letterarie, ecc.)
La Vita di Antonio, scritta nel IV secolo da Atanasio, è il bestseller della letteratura cristiana: presente in centinaia di codici nelle nostre biblioteche, fu tradotta in latino, copto, etiopico, siriaco, armeno, georgiano, e ispirò un corteo di quadri e di libri, da Bosch a Grünewald fino a Flaubert.
I contemporanei, tra i quali Ovidio, vedevano in Tibullo - questo poeta dall'ingenium mite - un vicino e un fratello di Catullo e di Virgilio. I moderni lo hanno ingiustamente negletto. Ma basta prendere in mano questo libro di "Elegie", nella bellissima traduzione di Francesco Della Corte, per restare di nuovo avvinti da un incanto senza pari. Nella nuova Roma di Cesare, di Ottaviano e di Antonio, nella Roma che sta diventando una grande, tumultuosa e colorata capitale d'Oriente, ecco venirci incontro questo amabile e squisito figlio dell'antica, piccola, povera Roma repubblicana, che insegue un suo sogno arcadico, e si rifugia nella campagna di una volta, tra le pianure, i colli, i solchi arati, le viti, i buoi, i contadini devoti alla terra e agli dei, che conducono una vita immutata dai tempi di Saturnus rex. Tibullo sembra conoscere tutto: la nascita, la crescita, il tramonto, la morte di tutte le cose e di tutti i sentimenti degli uomini. Ma egli si limita a rivelarci solo un'ombra di quello che conosce e presente ; e nasconde quanto sa dietro un'eleganza malinconica, una dolcezza insinuante, una nitidezza delicata, una sublime monotonia, che rivelano a tratti, tanto più fraterna per noi, il segno di una profonda ossessione.
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
APPENDICE
Note al testo
Versificazione e metrica verbale
Indices
Addenda
Prefazione / Introduzione
Della vita di Albio Tibullo quasi nulla si conosce: né l'anno di nascita, né quello esatto di morte, né le date di pubblicazione delle sue opere, né tutte quelle notizie che ci illuminano sui fatti e le vicende degli altri poeti a lui contemporanei. Abbiamo, è vero, una "vita" riportata da alcuni codici, ma i dubbi sulla sua veridicità, recentemente sorti, sono di tal peso che ci impediscono di farne un uso indiscriminato.
Nella successione dei poeti elegiaci, Tibullo è presentato come il continuatore dell'opera di Catullo, di Licitilo Calvo e di Cornelio Gallo. Viene per solito posto innanzi a Properzio, unicamente perché morì prima di lui, anche se nacque presso a poco negli stessi anni, fra il 55 e il 50.
Il primo fatto storico, di cui si ode l'eco nelle sue elegie, è una guerra, che molto probabilmente non fu la modesta spedizione aquitanica, bensì la grande e impegnativa mobilitazione contro Antonio e Cleopatra. La situazione, che si delinea attraverso l'elegia I 10, è quella della vigilia di una guerra totale. È chiaro che Tibullo non ci va volontario, anzi ci va di mala voglia. A nostra conoscenza, solo l'occasione del "bellum Actiacum" contro Antonio e Cleopatra determinò una così massiccia chiamata di circa mezzo milione di cittadini alle armi. In tale circostanza, uno, che pure spirito militare non aveva e non mostrava alcun interesse alla vita delle armi, non poteva sottrarsi, nonostante la paura di restare sotto il ferro nemico e le implorazioni ai Lari perché lo salvassero.
Partito per la guerra, ebbe poi occasione di militare con Marco Valerio Messalla Corvino, alla cui cohors Tibullo dichiarava di appartenere; prima lo seguì nel 50 in Gallia, combattendo contro gli aquitani, e poi nel 28 in Siria. Ma una grave malattia, che lo colpì a Corfù, lo costrinse ad abbandonare la cohors di Messalla. Risanato, rientrò a Roma, dove potè assistere al trionfo di Messalla, celebrato il 25 settembre del 27.
Il contubernio con Messalla, noto come poeta bucolico in greco e "molto attento osservante della pura latinità", influì notevolmente sulla formazione poetica di Tibullo, che, pur avendo una vasta e profonda conoscenza della lingua e della letteratura greca, tuttavia nella sua pratica letteraria si ispira al più rigoroso monolinguismo, unitario e puristico, come si conveniva a uno che si vantava di discendere da un antico ceppo familiare radicato nel vetus Latium, e aveva la coscienza di far parte di un gruppo di parlanti che si atteneva costantemente all'uso della lingua patria, non accettando nulla che venisse dal di fuori se non filtrato attraverso le regole della lingua latina, escludendo ogni alternativa, anzi considerandola come deplorevole cedimento. La conservazione della purezza, proclamata e praticata da quella piccola élite culturale che caratterizzò, durante l'ultima repubblica, una prosa latina davvero esemplare, influì sulla lingua poetica di Tibullo, che si adeguò ai modelli prosastici proposti dalle scuole di grammatica e di retorica, in particolare da quella apollodorea cui aderiva l'amico Valgio. Lo aveva già fatto nelle "Bucoliche" Virgilio, e in grado minore Grazio negli "Epodi" e nelle "Satire"; delle quali Tibullo era candidus iudex, e ne dava, quindi, un giudizio positivo; ma l'elegia, pur più modesta dell'epica e della tragedia, era sì un genere medio, ma sempre più sostenuto della satira; e comportava l'uso esatto e appropriato delle parole e dei costrutti senza attingere a vocaboli stranieri, in primo luogo senza grecismi, per non dire poi di barbarismi e di influenze del sermo rusticus o di parlate settoriali. Nonostante la documentata presenza di Tibullo sotto le armi, le sue navigazioni e i suoi viaggi, non un elemento estraneo al puro eloquio latino è penetrato nelle sue elegie. Evitare tamquam scopulum la parola nuova o inaudita gli richiese qualche limitazione; dovette perciò rinunciare a indicare oggetti senza tradizione letteraria; e neppure tentò di dare una maggiore precisione espressiva a concetti che già si avevano; scartò ogni tecnicismo: in lui le parole onnicomprensive sono più frequenti di quelle specifiche.
La sua conclamata eleganza indica la caratteristica formale della sua opera, che non presenta mai, o quasi mai, espressioni di particolare e raffinata bellezza, il che suonerebbe come una nota fuori rigo nel pentagramma tibulliano; ma in compenso non cade mai nel piatto e nel volgare e offre una naturale e signorile spontaneità, priva di quell'erudizione di accatto che costituiva un pericolo, cui andava incontro la pedissequa imitazione degli alessandrini.
Terminati i viaggi e le spedizioni militari, dividendo la sua vita fra la città e la campagna, Tibullo strinse amicizia con Grazio, che gli dedicò due suoi componimenti, il carme I 33, pubblicato nel 23, e l'epistola I 4, pubblicata nel 20. Di una decina d'anni più anziano. Grazio aveva molto apprezzato il giudizio del suo giovane amico sui "Sermones", cioè sul primo e secondo libro delle "Satire". Dopo che le prime elegie, scritte alla spicciolata, furono, nel 26 circa, pubblicate nella raccolta del libro di Delia, Tibullo non era più uno sconosciuto nel mondo delle lettere. Grazio lo vedeva con simpatia: e, non comprendendone l'atteggiamento di innamorato infelice, gli indirizzò un'ode che è una consolatio. È giusto che Tibullo si dolga di Glicera, ma il dolore non deve essere smodato; se non può dimenticare la sua donna, se non riesce a scacciarne il ricordo, se Glicera è passata ad un altro amore, non è il caso di scrivere elegie eccessivamente piagnucolose:
Albio, tu non macerarti oltre misura nel ricordo
dell'implacabile Glicera; non insistere
con flebili elegie, perché uno più giovane di tè,
infrante le promesse, abbia avuto la meglio.