Questo libro è il ritratto di un intellettuale, che è anche uno storico dell’Europa del Novecento; oppure dovremmo dire: uno storico che è anche un intellettuale? Difficile separare i due termini nel clima culturale dell’Italia del secondo dopoguerra: quel dimenticato ventennio in cui, “animato unicamente da passione critica e impegno civile”, l’autore sceglie, movendosi tra Trieste, Roma e Milano, di intraprendere la strada dello studioso di storia, perché solo con uno studio rigoroso del passato sembra possibile rispondere alle domande che l’Europa uscita dalla catastrofe del nazismo pone alla nuova generazione.
Letta oggi, la vicenda biografica qui ricostruita – attraverso le memorie del protagonista e poi in dialogo con una storica di una generazione più giovane – sorprende per la ricchezza dei contatti, la varietà dei personaggi che la animano, la presenza di una intellighenzia internazionale impegnata a realizzare e difendere un modello di Europa cosmopolita ispirata a ideali di libertà e giustizia.
Enzo Collotti, già professore di Storia contemporanea all’Università di Firenze, è uno dei maggiori storici della Resistenza in Europa. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia (Laterza, 20082), Dizionario della Resistenza (Einaudi, 2006), Hitler e il nazismo (Giunti, 2005), Fascismo, fascismi (Sansoni, 2004)
Dal 1848 la libertà di stampa diventa una realtà acquisita prima soltanto nel piccolo regno sabaudo, poi nello stato nazionale italiano. Da quella data sarà possibile anche in Italia diffondere liberamente il proprio pensiero attraverso la stampa senza censure e restrizioni preventive dell’autorità religiosa o statale.
Ma quali sono le reazioni a questo evento della Chiesa cattolica, da sempre contraria sia ad una divulgazione che ad una pratica della lettura non controllata dalla gerarchia? Quali i comportamenti dei gesuiti, dei vescovi e della Congregazione dell’Indice, l’organo tradizionalmente deputato alla sorveglianza dei libri, pericolosi per la salute delle anime e per l’ordine sociale? Quali infine le strategie messe in campo per ristabilire il controllo e la disciplina della lettura, che era stato per secoli uno dei pilastri dell’intervento sociale della Chiesa romana e che rischia di essere vanificato dall’assenza di un reale potere coercitivo?
Il volume vuole rispondere a questi interrogativi, ricostruendo attraverso il vasto uso di fonti inedite, il dibattito sulla libertà di stampa all’interno della Chiesa e della società civile nel periodo che va dagli anni Cinquanta alla fine del secolo XIX. Tema quanto mai attuale ancora oggi, nel momento in cui la libertà di manifestazione delle idee appare costantemente minacciata da vecchi e nuovi poteri in Europa e nel mondo.
descrizione
Maria Iolanda Palazzolo insegna Storia della stampa e dell’editoria presso l’Università di Pisa. Si occupa di commercio librario e della nascita di una moderna impresa editoriale tra Sette e Novecento. Tra le sue pubblicazioni: I tre occhi dell’editore (Roma 1990), Editoria e istituzioni a Roma tra Sette e Ottocento (Roma 1995) e I Libri, il Trono, l’Altare. La censura nell’Italia della Restaurazione (Milano 2003).
autrice
Introduzione
1. La «Civiltà Cattolica» e la libertà di stampa
1. La buona censura
2. La «Civiltà Cattolica» e la congregazione dell’Indice
3. Una buona stampa?
2. I vescovi in trincea. Pastorali e cattive letture
1. Le Pastorali dei vescovi
2. I vescovi del Regno di Sardegna in prima linea
3. Aspettando l’unificazione
4. Un allarme generale
5. La Vie de Jésus di Ernest Renan
6. Dopo Pio IX
3. Il ruolo dell’Indice nelle società liberali.
1. Il caso Rouland. La congregazione si difende
2. Il dibattito interno
4. Nuove regole, un nuovo Indice
1. La preparazione della riforma. L’Officiorum ac munerum
2. Il nuovo Indice
Conclusione
Opere citate
Indice dei nomi
Il Seicento fu, nella Chiesa italiana, un secolo enfatico e splendente, di fede militante, sovraccarica e sfarzosa. A celebrare e difendere le verità della fede concorsero suore e sante mistiche, dagli slanci ascetici e dai doni sovrannaturali. A denunziare la minaccia di diavoli, eretici e infedeli si moltiplicarono fenomeni impressionanti di possessione, che agitavano donne dal corpo invaso, curate dagli esorcisti con formule a metà tra sacramentali e magiche. Ed era peraltro assai sottile l’arte di distinguere l’invasione del corpo ad opera di angeli o diavoli, la vera dalla falsa o “affettata” santità.
Il libro illustra i sistemi usati per raggiungere l’ascesi, ottenere visioni ed entrare in contatto coll’aldilà, mettendo a confronto i metodi proposti dai gesuiti, fondati sull’immaginazione figurativa, con quelli opposti, “quietisti” – a fine secolo condannati dal Sant’Uffizio – che privilegiavano la contemplazione facendo silenzio nell’anima.
Tra la fine Seicento e l’inizio del secolo successivo, lo stesso Sant’Uffizio pose un freno alle forme troppo vistose di santità e possessione, i cui sintomi si vollero più miti e disciplinati. Alla metà del Settecento, infine, la medicina cominciò a proporre nuove diagnosi dei segni prima interpretati come invasioni di spiriti ultraterreni, spostando l’accento sui disturbi cerebro-nervosi, eredi delle passioni subite dalla sensuale e corporea anima operante nelle estasi barocche.
Elena Brambilla insegna Storia moderna presso l’Università di Milano. Ha studiato storia dell’Inquisizione e della Chiesa, delle donne, delle università e delle professioni. Tra le sue pubblicazioni: La giustizia intollerante. Inquisizioni e tribunali confessionali in Europa dall’Alto Medioevo al XVIII secolo (Carocci 2006) e la cura, con M.L. Betri, di Salotti e ruolo femminile in Italia tra fine Seicento e primo Novecento (Marsilio 2004)
Tra Cinquecento e Ottocento quale era il sistema del "welfare" per gli anziani? A quanti anni si era considerati vecchi? A che età ci si ritirava dal lavoro? Come sopravvivevano gli anziani? Che ruolo avevano nella loro vita le istituzioni di assistenza? Da questo tipo di interrogativi prende origine l'indagine di Angela Groppi sui rapporti tra vecchie e giovani generazioni nella Roma dei papi. Un'indagine storica che, in un tempo in cui lo Stato sociale è sotto assedio in nome del progressivo invecchiamento della popolazione, fornisce utili spunti al ripensamento delle politiche di welfare.
Tra il XVIII e il XIX secolo nel Regno di Napoli vissero sacerdoti e alti prelati, predicatori e mendicanti, religiose terziarie e monache di clausura, visionarie, zelanti confessori, spregiudicati esorcisti che furono venerati come santi. Alcuni di loro ebbero fortune brevi o altalenanti, subirono condanne per simulazione, furono esiliati o internati; altri, dopo la morte, finirono in breve tempo nell'oblio; altri ancora furono beatificati o canonizzati. Il volume ripercorre le loro storie, scoprendone le valenze politiche, facendo emergere le strette relazioni con gli intrighi di corte, le derive fanatiche dei sovrani e i conflitti di potere che caratterizzarono l'epoca borbonica
La crisi modernista rappresentò, a cavallo tra Otto e Novecento, la fase più acuta del confronto plurisecolare del cristianesimo con il moderno, inteso soprattutto come istanza di autonoma determinazione, emancipazione da ogni prospettiva e sistema di valori compiuto e di carattere assolutistico, affermazione delle scienze legate alle metodologie sperimentali e al vaglio della critica. Il modernismo si concretizzò in un articolato tentativo di ripensare il messaggio cristiano alla luce delle esigenze della società di inizio Novecento. La sua condanna da parte di Pio X chiuse ogni spazio al dibattito teologico e culturale con numerose istanze della modernità e contribuì in modo decisivo all'atteggiamento della Chiesa cattolica verso la società nel Novecento. Sono qui pubblicati studi innovativi sulle prime censure del "prete romano" Buonaiuti, sull'elaborazione del "nuovo Sillabo". Lamentabili, sulla ricezione dell'enciclica Pascendi da parte dei vescovi d'Italia e Francia e sulle reazioni di alcuni ambienti culturali legati a Lucien Laberhonnière, sul giuramento antimodernista del 1910, sulle tensioni a Vicenza tra gli antimodernisti e il vescovo Rodolfi. Il volume ha anche un significato attuale, perché una catena di richiami al modernismo da parte delle gerarchie ecclesiastiche ha segnato la storia succesiva della Chiesa, con la sola eccezione del pontificato di Giovanni XXIII, contribuendo alla diffusione e al rafforzamento di un preciso modello di Chiesa.
Nel 1524, sette anni dopo le rivoluzionarie tesi di Lutero, il vescovo di Chieti Gian Pietro Carafa (poi papa Paolo IV) istituì la compagnia dei chierici regolari teatini in vista dei suoi progetti di rinnovamento della Chiesa. Orientati dalla guida del loro spregiudicato fondatore, i teatini si specializzarono nel controllo della corruzione del clero e nella repressione del dissenso eterodosso, consentendo al Carafa di raggiungere i vertici della gerarchia ecclesiastica e di imporre il supremo potere del Sant'Ufficio romano, la sua personale creatura, cui dedicò tutta la vita. Fu la tenace azione politica e religiosa del futuro pontefice ad avviare la lunga età della Controriforma, imprimendole una rigorosa intransigenza dottrinale e morale. Il libro propone nuovi elementi di giudizio e una nuova interpretazione sulla nascita dell'Inquisizione - la cui origine prima è da cogliere nelle deleghe ad personam che il vescovo di Chieti ottenne dai papi Clemente VII e Paolo III - e sulle modalità con cui i teatini abbandonarono le pratiche caritative tipiche degli istituti religiosi del periodo, condensate nell'esperienza della confraternita del Divino Amore da cui discendevano, per impegnarsi totalmente nella lotta contro l'eresia.
Alla fine del Quattrocento, l’Egitto e il Vicino Oriente sono a una svolta: ancora sotto il dominio mamelucco, vedono però ormai prossimo l’arrivo degli Ottomani. Le città italiane, costantemente in guerra tra loro, si muovono con cautela in questo scenario; da una parte timorose di inimicarsi il Turco, dall’altra legate agli interessi commerciali attestati tra Alessandria e Il Cairo.
Tra 1489 e 1490 un prete toscano, Michele da Figline, intraprende insieme a un compagno un pellegrinaggio che lo porta da Venezia al Cairo, dal Cairo a Gerusalemme. Lungo la strada incontra un ambasciatore fiorentino, Agnolo Della Stufa, in missione diplomatica con il suo seguito presso il sultano mamelucco. I due gruppi si uniscono per proseguire attraverso il deserto fino alla Terrasanta.
In un volgare toscano vivace e immediato, il diario di viaggio di Michele da Figline, sino a oggi inedito, racconta la storia di questa avventura, descrivendo le tappe dell’itinerario, le difficoltà incontrate, i costumi dei musulmani, e la geografia dei luoghi santi.
Marina Montesano è ricercatrice di Storia medievale presso l’Università di Genova ed è fellow di Harvard. Si occupa di storia delle culture e delle società tra medioevo e prima età moderna. Fra le sue pubblicazioni, La cristianizzazione dell’Italia nel Medioevo, Laterza 1997; “Fantasima, fantasima che nella notte vai”. La cultura magica nelle novelle toscane del Trecento, Città Nuova 2000; La lunga storia dell’inquisizione (con Franco Cardini), Città Nuova 2005.
Il filo conduttore che lega i saggi raccolti in questo volume è l’analisi della diffusione del razzismo nell’Italia degli anni Trenta, ma anche dei vuoti di memoria dell’elaborazione italiana di questo momento decisivo della nostra storia, quando la cittadinanza è stata tolta ad una parte degli italiani e contro di loro si è attuata una persecuzione basata su criteri razziali e biologici. Le leggi del 1938 si inseriscono infatti in una cultura della razza che ha profonde radici nella cultura europea ed italiana, dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti. Una cultura fondata sul razzismo biologico, sia pur mescolato a motivazioni «spirituali»: l’idea della supremazia della «razza bianca», l’ideologia coloniale, la misoginia, il darwinismo sociale, l’eugenetica. Una cultura che si fonda su un presupposto scientificamente falso, quello dell’esistenza delle razze.
A fronte di questo, la difficoltà ad avere memoria delle leggi del 1938 - emerse all’attenzione degli storici solo nel 1988, in occasione del loro cinquantesimo anniversario - ha fatto sì che la narrazione della legislazione razzista e della sua applicazione manchi tuttora quasi interamente nella riflessione degli storici dell’arte, delle scienze e della letteratura, ma soprattutto nella divulgazione e nella manualistica. Le radici di questo silenzio nascono dalla rimozione delle responsabilità, caratteristica dell’Italia del dopoguerra: una riflessione sui vuoti della nostra memoria e del nostro senso comune ci riporta oggi alla necessità di fare infine un bilancio dei danni provocati dal razzismo nella nostra cultura e nella nostra società.
Marina Beer insegna Letteratura italiana presso la Sapienza, Università di Roma.
Anna Foa insegna Storia moderna presso la Sapienza, Università di Roma.
Isabella Iannuzzi collabora con il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea della Sapienza, Università di Roma.
Il cardinalato vive nel Duecento una stagione di radicale rinnovamento: la partecipazione al governo della Chiesa, l'aumento degli incarichi curiali e legatizi, la residenza presso la Curia si accompagnano a una crescita esponenziale delle ricchezze personali. I palazzi duecenteschi dei cardinali a Roma e nel Patrimonium Petri - i luoghi deputati alla conservazione e valorizzazione di queste ricchezze - accoglievano tesori che componevano splendide collezioni. La quasi totale distruzione di queste dimore impone che, al sopralluogo e all'indagine archeologica, si affianchino lo studio delle fonti documentarie e letterarie e il confronto con ciò che resta degli omologhi palazzi medievali di ambito aristocratico e papale. Seguendo un percorso che procede dal grande al piccolo e dall'esterno all'interno -dai palazzi alle stanze delle residenze - si tenta di comprendere la natura e l'utilizzo delle camere così ricostruite e destinate a offrire rifugio ai tesori personali. La storia dei tesori cardinalizi del Duecento e dei luoghi della loro tutela apre così alla più ampia storia - ancora tutta da scrivere della tesaurizzazione privata del basso Medioevo.
Durante la Guerra Fredda nessuno avrebbe immaginato che il crollo dell’Unione Sovietica sarebbe stato scatenato da dinamiche interne, e nemmeno che sarebbe avvenuto in relativa calma, senza grandi conflitti.
Il lavoro di Stephen Kotkin mostra che la prima causa del collasso sovietico non è stata la competizione militare ma, paradossalmente, il nucleo ideale dell’ideologia comunista: il sogno di un socialismo dal volto umano capace di migliorare la vita dei cittadini senza rinunciare ai principi di giustizia e uguaglianza. Le riforme neo-liberali non sono mai state davvero messe in atto nella Russia post-sovietica, né avrebbero potuto esserlo, considerato il fardello dell’eredità sovietica in ambito istituzionale, politico, economico e sociale.
Il libro ricostruisce in modo chiaro e conciso il dramma di una superpotenza di 285 milioni di abitanti che si è sgretolata pur avendo a disposizione un immenso esercito, sostanzialmente fedele allo Stato, e uno spaventoso arsenale di armi nucleari e chimiche. E lo ha fatto evitando non solo l’Apocalisse, ma anche esplosioni di violenza potenzialmente destabilizzanti per l’intero scenario geopolitico internazionale.
Stephen Kotkin insegna Storia moderna e contemporanea all’Università di Princeton, dove ha diretto dal 1996 al 2009 il Program in Russian and Eurasian Studies. È considerato uno dei più autorevoli studiosi di storia dell’Unione Sovietica.