Il libro, pubblicato a Tel Aviv in ebraico neI 1943, riproduce il primo corso di "filosofia della società" tenuto da Martin Buber nel 1938 presso l'Università ebraica di Gerusalemme. Buber vi espose, attraverso il serrato confronto con le idee sull'uomo affermate nel passato da alcuni filosofi, la sua antropologia filosofica: l'uomo è un ente che può costruite la propria identità solo attraverso il contatto con ciò che ha la forma di un "tu", ovvero di un altro o diverso non trasformabile in cosa od oggetto, in ciò che è utilizzato o dominato; in ogni incontro con il "tu" si profila il "Tu" eterno. Il libro costituisce sia una sintetica rassegna delle varie posizioni filosofiche sull'uomo, sia un'introduzione alla filosofia buberiana.
Pubblicato nel 1947 con il titolo ebraico Netivot be-utopia questo libro è un classico delle utopie del Novecento. Attraverso una rilettura dela tradizione socialista, anarchica e marxista, Buber propone una alternativa radicale fra lo stato, accentrato, burocratico, totalitario per vocazione, e la comunità, dialogica, decentrata, in sé già sovversiva. "Fare il possibile e desiderare l'impossibile": si condensa in queste celebri parole di Gustav Landauer il nesso tra messianismo ebraico e anarchia libertaria che Buber riprende per delineare l'utopia del domani, quella nostalgia per ciò che è giusto, da sempre promessa nella Torah. Dinanzi al pericolo di un illimitato potere planetario, una sorta di stato mondiale, viene indicato nel kibbutz, nella comune ebraica, il sentiero impervio di un socialismo anarchico e federalista che esplori e inventi gli infiniti modi in cui comunità autonome e autogestite possano dar luogo a una "comunità di comunità".
Il dialogo non è semplicemente una forma di comunicazione; è una messa in gioco dell’umanità della donna e dell’uomo, dentro quella presenza che è l’umano, nel mondo e di fronte al divino.
Martin Buber conduce il lettore dentro una riflessione modernissima sull’arte della parola che attraversa le distanze tra l’io e il tu, alla ricerca di quella tensione unica (ma non univoca), unitaria (ma che salvaguarda la dualità), che appartiene a ciascuno di noi.
E che svela noi a noi stessi, proprio mentre incontriamo l’altro.
L'autore
Martin Buber (1878-1965) è stato un filosofo e teologo ebreo nato a Vienna ed emigrato a Gerusalemme nel 1938. Ha insegnato filosofia della religione ebraica all’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno e antropologia e sociologia all’Università Ebraica di Gerusalemme. Presso le Edizioni San Paolo: Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana (19992)
e Il principio dialogico e altri saggi (a cura di Andrea Poma, 2011).
Martin Buber (1878-1965) fu uno dei maestri della svolta dialogica del pensiero filosofico del Novecento. Nell'assegnare il primato alla "relazione" rispetto al "soggetto" della tradizione e della modernità occidentali, egli interpreta la crisi dell'Occidente prospettandone la rigenerazione grazie al pensiero "dialogico". Il volume, oltre a ricostruire nell'introduzione il percorso speculativo di Buber, ne documenta le tappe attraverso passi antologici tratti dalle sue opere più significative (dai Discorsi sull'Ebraismo a Il problema dell'uomo, da L'Io e il Tu a Sentieri in utopia ai Discorsi sull'educazione). Il lettore vi troverà spunti di riflessione particolarmente attuali per fronteggiare le sfide del mondo contemporaneo, che sempre più spesso invoca il dialogo fra gli uomini come condizione della sua stessa sopravvivenza.
"Questo libro si è sviluppato nel corso di molti anni, come il frutto maturato lentamente di un lungo lavoro di ricerca e di interpretazione della grande letteratura chassidica, dei suoi insegnamenti e delle sue leggende". Con queste parole Martin Buber ci introduce agli otto saggi che compongono "Il messaggio del chassidismo", che, scritti tra il 1921 e il 1943, costituiscono il necessario complemento metodologico di quelle centinaia di storie e leggende chassidiche che il filosofo raccolse nell'arco della sua intera vita. Qui, anche attraverso una serie di paralleli che vanno da Shabbetay Tzvi a Baruch Spinoza, da Plotino a Meister Eckhart, da Jakob Frank ai profeti dell'Antico Israele, fino alla mistica sufi e al buddhismo zen, si dispiega la formulazione classica dell'interpretazione buberiana del chassidismo, la quale, intrecciandosi con le tesi del pensiero dialogico, di cui Buber fu sommo esponente, trova una sua densa sintesi nel sintagma "mistica divenuta ethos". Dei numerosi volumi dedicati da Buber alla mistica ebraica dell'Europa orientale - riconosce espressamente il filosofo - "questo è l'unico in cui esprimo in modo immediato quel messaggio che il chassidismo non volle essere ma che fu, ed è - per l'umanità".
"Religione come presenza" è il testo delle lezioni di Martin Buber tenute nel 1922 a Francoforte e qui per la prima volta tradotte, ma anche la cellula originaria della sua filosofia della religione espressa in forma compiuta, pochi mesi dopo, in "Io e tu". Seguendo il movimento dialettico con cui Buber descrive religione e religiosità, si può scrutare qui una prima formulazione del concetto di "presenza" quale a priori della stessa "relazione": presenza di Dio nel mondo (Shekinah), presenza di Dio nell'uomo, presenza dell'uomo a se stesso. È la "fedeltà al presente", in questo triplice senso, a rendere possibile attraverso lo spirito una umanità invisibile unita nella comune religiosità. Una prospettiva che permette di riaffermare, al di là del contesto storico, l'universalità della religione, presente in ogni sua scintilla.
Nel genere dell'epistolario si rivela l'intensità argomentativa dei grandi pensatori. Qui due maestri della filosofia come 'dialogo' - Rosenzweig e Buber - mettono a nudo l'intima corrispondenza come esercizio filosofico. Un esercizio all'insegna dell'amicizia e della reciproca discepolanza: aver cura delle proprie radici ed essere l'uno maestro dell'altro, nel solco della tradizione di Israele, significa anche essere condiscepoli nell'avventura di una nuova traduzione tedesca della Bibbia ebraica - che Buber dovrà continuare da solo dopo la scomparsa dell'amico. Il dialogo è talmente 'vivo' da dissolvere lo schema che concatena una missiva con la sua risposta: sfugge ai nostri occhi fino a oscurarsi il rapporto io-tu, ma pure se invisibile rivela il profondo intreccio con l'Alterità: "Perché, come potrebbero essere i gomitoli aggrovigliati l'uno all'altro, se quell'altra Mano non li avesse legati insieme per una estremità'". Le lettere si inanellano in una ideale conversazione che riproduce le pause e le accelerazioni, la condivisione e il dissenso concettuale, l'armonia e le fratture di cui si alimenta il legame dell'amicizia.
«... l'antologia di Buber resta il più bel breviario di mistica che io abbia mai letto. In una materia così difficile, Buber conserva lo sguardo preciso, quando si rifiuta di spiegare la mistica "dal punto di vista psicologico, fisiologico o patologico" ... Non vorrei proporre gradini o supremazie nella vita dello spirito, affermando che la mistica è la suprema attività spirituale dell'uomo. Lo è nel senso più semplice: non perché essa sia più nobile della filosofia o della letteratura o dell'arte - ma per il fatto che il mistico attraversa con violenza quasi demoniaca il territorio della filosofia e della letteratura, della religione, della morale e dell'estetica, lo lacera, lo spezza, ed esce al di sopra, in quel lago infinito dell'anima che egli solo conosce» (Pietro Citati).
IL LIBRO
Nella Polonia di fine Settecento il «Veggente di Lublino» e il «santo Ebreo» di Pzysha sono i maestri spirituali di correnti chassidiche contrapposte cui fanno capo due importanti comunità. Il primo è persuaso che per vedere realizzati i propri desideri si possa influire sulle potenze superiori e non disdegna il ricorso a pratiche magiche; il secondo rifiuta magie e miracoli e sostiene la necessità di un profondo rinnovamento interiore. I due saggi si dividono anche di fronte alla storia: è il tempo delle guerre napoleoniche, e per il «Veggente» il condottiero francese non è altri che il Gog del paese di Magog della profezia di Ezechiele, che anticipa la venuta del Messia, un evento che per il «santo Ebreo» può essere preparato, invece, solo nell’intimo dell’uomo, con un rivolgimento spirituale.
In un racconto dal respiro epico, in cui gli aneddoti sui rabbini e i loro discepoli, attinti dal tesoro delle leggende chassidiche, si inanellano gli uni negli altri con un’accattivante fluidità, Martin Buber tratteggia la sfida appassionata tra i contendenti, facendo affiorare anche i profondi legami fra le due tradizioni. Frutto di una lunghissima gestazione, non sorprende che il libro abbia trovato la sua ultima maturazione all’inizio della Seconda guerra mondiale, in un’atmosfera di cui l’autore ha colto l’essenza «di crisi tellurica», di «tremendo ponderarsi delle forze» e «falso messianismo d’ambo le parti».
UN BRANO
"A questo punto l’«Ebreo» non poté più trattenersi. «Rabbi!» disse con voce che per l’emozione quasi gli mancò, «che cos’è dunque questo Gog? Là fuori egli può esistere solo perché si trova qui dentro». E con la mano indicava il suo stesso petto. «Le tenebre, dalle quali egli è creato, non ci sarebbe bisogno di cercarle in nessun luogo altro che nei nostri cuori indolenti o maligni. Il nostro tradimento verso Dio ha nutrito Gog rendendolo tanto grande. Né nell’anima né nel popolo regna la forza della luce».
«Che sfacciataggine!» esclamò Simon, che dopo la prima parola dell’«Ebreo» aveva cominciato a brontolare. «Sta offendendo il Rabbi!»
Con un gesto della mano il Rabbi ristabilì di nuovo la calma. «Tu soffri troppo, Jaqov Jizchaq», disse, «non ci si deve permettere di soffrire tanto»
«Che ci posso fare Rabbi?» balbettò l'«Ebreo».
Il Rabbi prese la sua mano destra, la strinse forte tra le sue e disse: «Ne parleremo insieme quando farà giorno»."
Martin Buber (Vienna, 1878 - Gerusalemme, 1965) dedicò buona parte della sua attività allo studio e alla divulgazione della cultura dei chassidim. Tra le sue opere: L’eclissi di Dio e Immagini del bene e del male, una pregevole traduzione tedesca della Bibbia.
Raccolti in un unico volumetto, vengono pubblicati i tre discorsi sull'educazione di Martin Buber, uno dei maggiori filosofi del 900. La raccolta focalizza in temi precisi l'approccio di Buber verso "l'educativo", che abbraccia in prima istanza la figura dell'educatore.
Martin Buber mostra in queste pagine come la colpa non sia riducibile alla dimensione psicologica del senso di colpa, ma abbia altre implicazioni, ben più importanti. Per lo psicoterapeuta non si tratta allora di liberare il paziente dal senso di colpa, quanto piuttosto di aiutarlo a elaborare la propria colpa in vista di una riconciliazione con se stesso, con gli altri e con il mondo. "Colpa e sensi di colpa", introdotto da una nota della figlia di Buber, diventa così un punto di riferimento per un dialogo a più voci sul rapporto tra oggettività della colpa e soggettività del senso di colpa, tra consulenza filosofica e psicoterapia, attraverso i contributi di Gian Piero Quaglino (docente di Psicologia della formazione), Cianni Francesetti (psichiatra e psicoterapeuta della Cesto/O, Umberto Galimberti (filosofo e psicoanalista), Andrea Poma (docente di Filosofia morale), Luca Bertolino (docente di Etica applicata), Maria Bertone e Ran Lahav (consulenti filosofici).
Intorno alla metà del Settecento, Israel ben Elieser, ii Baal-schem, fondò in Ucraina occidentale un movimento mistico-popolare che diede vita a comunità nelle quali le antiche norme e consuetudini rinascevano a vita nuova grazie alla consapevolezza che qualsiasi azione, anche la più consueta, se fatta con purezza, contribuisce alla santificazione del mondo. Nelle comunità chassidiche - racconterà lo stesso Buber- "non c'è separazione tra fede e opere, fra morale e politica: un solo regno, un solo spirito, una sola realtà". Di questa tradizione Buber si scopre erede e testimone, chiamato a raccogliere un'eredità spirituale fino allora trasmessa per via orale e a darle forma scritta: la fedeltà di Buber al testo originale si fonda su una forte consonanza spirituale col movimento chassidico, consonanza che gli permette di creare un testo nuovo, di riscrivere radicalmente la narrazione tradita. Forte è perciò l'autorialità di questi testi: "le storie che avevo accolto in me dovevo raccontarle traendole da me, così come il vero pittore accoglie in sé le linee del modello e crea la figura autentica traendola dalla memoria formante"; "quanto più cresceva l'autonomia, tanto più profondamente conoscevo la fedeltà".