Una montagna alta 44.000 miliardi di dollari. A tanto ammonta il debito pubblico mondiale, ovvero quello contratto dagli Stati, nel 2017. Se a questo aggiungiamo il debito privato dei cittadini, delle famiglie e delle imprese, si raggiunge la cifra di quasi 200.000 miliardi di dollari. Il pianeta Terra può dirsi in bancarotta. Con l'avvento del modello neoliberale, la finanziarizzazione del capitalismo ha investito l'economia, la società, l'ecosistema e l'intera vita delle persone, con la necessità di mettere a valore l'intera esistenza. Per raggiungere tale obiettivo la trappola del debito è particolarmente funzionale sia in termini economici, sia come nuova narrazione della storia e del disciplinamento della società. La trappola del debito porta con sé la forza egemonica di una visione compiuta del mondo, ma anche la tragica realtà di un impoverimento di massa scientificamente praticato. Demistificarne la narrazione, mettendo in campo il ripudio del debito, e praticare con le lotte sociali la definanziarizzazione della società, attraverso la riappropriazione sociale della ricchezza collettivamente prodotta, sono le strade che dobbiamo iniziare a percorrere.
Il nostro futuro si giocherà in Africa. Il mondo la osserva con un'attenzione nuova. È il baricentro demografico del pianeta: lì si concentrerà la crescita della popolazione in questo secolo, mentre la denatalità avanza altrove. Un'altra sfida riguarda le materie prime, in particolare materiali strategici nella transizione verso un'economia sostenibile: molti dei minerali e metalli rari indispensabili per i pannelli solari o le auto elettriche vengono estratti in Africa. Del continente gli italiani conoscono solo una narrazione pauperistica e catastrofista. L'Africa è descritta come l'origine della «bomba migratoria» che si abbatterà su di noi. Viene compianta come la vittima di tutti gli appetiti imperialisti e neocoloniali: quelli occidentali o la nuova invasione da parte della Cina. Fa notizia solo come luogo di sciagure e sofferenze: conflitti, siccità e carestie, sfruttamento e saccheggio di risorse, profughi che muoiono attraversando il Mediterraneo. Dagli anni Settanta, quando si spensero le prime speranze di rinascita nell'epoca dell'indipendenza post-coloniale, l'Occidente ha mescolato la sindrome della pietà, i complessi di colpa e una «cultura degli aiuti umanitari» destinata a creare dipendenza e corruzione. Contro gli stereotipi s'impone una nuova narrazione. Ce la chiedono autorevoli personalità africane, che si riprendono il diritto di raccontare l'Africa così com'è davvero, senza piangersi addosso, ribellandosi ai luoghi comuni occidentali. L'Africa non è una nazione, è un continente immenso con diversità enormi, dal Cairo a Johannesburg, da Addis Abeba a Lagos. Non è solo sofferenza e fuga, come dimostra la sua straordinaria vitalità culturale. A New York, Londra e Parigi siamo invasi da romanzi, musica, film, pittura e mode creati da nuove generazioni di artisti africani. La diaspora brilla per le eccellenze: negli Stati Uniti i recenti immigrati dall'Africa hanno dato vita a una delle comunità etniche di maggior successo. Esiste un protagonismo africano. Sbagliamo quando descriviamo il continente soltanto come «oggetto» di manovre altrui (America, Cina, Russia, Europa). Senza ricadere nelle illusioni dell'Afro-ottimismo che già si sono accese e spente nei decenni passati, questo saggio è una provocazione contro la pigrizia intellettuale e un antidoto contro le lobby che usano l'Africa per i propri scopi. Il nostro sguardo deve cambiare perché lo sguardo degli africani su se stessi sta cambiando. Fallito il modello degli aiuti, fallite le dittature e gli statalismi, mentre c'è chi tenta di importarvi il «modello asiatico», noi europei dobbiamo uscire dalla nostra passività. Quasi un ventennio fa, Federico Rampini fece scoprire agli italiani un'Asia nuova, in vorticoso cambiamento, con Il secolo cinese e L'impero di Cindia. Oggi affronta con lo stesso approccio spregiudicato il Grande Sud globale, guidandoci nella sua riscoperta senza paraocchi, da testimone in presa diretta, attraverso reportage di viaggio e dando la voce a personaggi che fanno la storia.
L'esperienza della pandemia ci ha rivelato un mondo sconosciuto, diverso da quello che credevamo possibile. In questo nuovo mondo ci siamo sentiti parte di una società planetaria, sempre più unita e interconnessa, ma al tempo stesso frastagliata, minacciata dal disastro ecologico, percorsa da diseguaglianze che continuano a inasprirsi. È da questo senso di smarrimento percettivo che muove Judith Butler, per riflettere sulla nostra condizione di interdipendenza e ripensare i concetti che guidano il nostro agire etico e politico. Se non possiamo più dubitare che la nostra esistenza sia legata all'ambiente che ci circonda, a venir meno è allora l'idea liberale dell'individuo chiuso in se stesso, fondata sull'interesse personale e sulla proprietà privata. È la vita umana a essere messa a nudo, una vita colta nel suo intreccio inestricabile con tutte le altre forme viventi e con il pianeta, nell'urgenza, ormai ineludibile, di lottare contro la distruzione ambientale e di ricreare insieme un mondo abitabile.
L'astronoma Ipazia, vissuta ad Alessandria nel V secolo d.C., teorizzò in modo inaudito per l'epoca che la Terra non è il centro dell'universo ma un pianeta che gira intorno al Sole. E divenne ben presto vittima dei fanatici cristiani. «Oggi» scrive Dacia Maraini «a quasi duemila anni di distanza ci sono ancora donne che soffrono come lei per la semplice ragione che hanno pensato con la propria testa, che hanno voluto studiare, indagare e opporsi al totalitarismo.» Sono donne maltrattate, insultate, minacciate, che spesso hanno denunciato la violenza domestica, ma non sono state credute. Donne sole e abbandonate. Donne che lottano per i loro diritti in tutto il mondo, dal Medio Oriente all'Occidente. Anche dove ci sembra di poter dire che la civiltà ha raggiunto la sua età più matura. In queste pagine, la scrittrice che ha dato vita nei suoi romanzi a indimenticabili protagoniste letterarie (una per tutte: Marianna Ucrìa) dà voce alle donne senza nome di ogni Paese in lotta per la dignità. Mettendo nero su bianco un vero e proprio manifesto al femminile, una denuncia appassionata che racconta le schiavitù che sopravvivono e i muri ancora da abbattere, le libertà negate e la ribellione necessaria. Un appello coinvolgente sul destino femminile contro ogni stereotipo e violenza.
I classici antichi sono diventati soggetti di cui aver paura. Non era facile prevedere che un giorno qualcuno avrebbe messo in guardia i giovani dalla lettura delle opere greche e romane, cospargendole di avvisi di pericolo o addirittura escludendone direttamente alcune dal canone; gli stessi che avrebbero accusato i classici di aver contaminato la nostra cultura con il razzismo, il sessismo, il suprematismo bianco, arrivando al punto di auspicare addirittura l'abolizione del loro insegnamento. Invece è accaduto. Si tratta di un fenomeno recente, ma soprattutto nuovo, inatteso, le cui motivazioni non possono essere ignorate: e come tutte le cose nuove e inattese, ha fatto sì che fosse necessario tornare a riflettere sullo stesso problema - che cosa sono i classici per noi? - da un nuovo punto di vista. Maurizio Bettini ci esorta dunque a tenere vivo il dialogo e a fuggire i pericoli insiti nella sua interruzione. Perché è proprio questo che avviene, quando si manifesta la paura dei Greci e dei Romani: un'interruzione di dialogo fra noi e i classici; non solo, fra noi e la storia, fra noi e il passato.
«Siamo immersi in una cultura prestazionale che detta i suoi paradigmi nella scuola, nello sport, nel mondo del lavoro, ma dentro questi paradigmi i giovani si sentono sempre più stretti. Per questo reagiscono, anche in maniera inconsulta, e mandano segnali chiari di disagio e di rifiuto», scrive nel suo contributo Claudio Burgio. Questo libro ci fa entrare nel vivo di tre realtà nate dal desiderio di ascoltare il grido, le ferite dei ragazzi, il loro bisogno di essere accolti, guardati, chiamati per nome, abbracciati, stimati. Le storie qui raccolte documentano il dramma di tanti giovani di sentirsi "trasparenti", anonimi, e la sorpresa di essersi imbattuti in un luogo dove c'erano persone disposte ad ascoltarli e a guardarli veramente. Ed è questo che fa la differenza, afferma Anas, «tra prendersi una sbandata e perdersi per sempre». Laddove accade un incontro umano si riaccende il desiderio di mettere le mani in pasta nella realtà, di imparare un mestiere, di investire i propri talenti, di seguire i propri sogni: rinasce la speranza. «Il sogno da perseguire», scrive Daniele Mencarelli, «è dato: che ogni giovane abbia la stessa occasione. Ma ci vogliono realtà che mettano lo stesso ardore, e non meno amore, sui giovani e le loro vicissitudini spesso drammatiche. Oggi, come ieri e domani.»
Cosa abbiamo imparato dall'ultima pandemia? Ci sono insegnamenti, pratiche ed esperienze utili per il futuro? E soprattutto, cosa avremmo dovuto imparare? Con queste domande, nasceva nel 2021 il progetto Pandemie & Infodemie: un manuale per il futuro e l'idea di raccontare questa crisi grazie a un gruppo di lavoro "ibrido" formato da ricercatori, comunicatori scientifici e società civile. Sfogliare questo volume sarà un salto nel tempo in una duplice direzione: verso il passato, per ricordare quello che è stato e capire come è potuto accadere; ma soprattutto verso il futuro, per interrogarsi sulle misure da intraprendere affinché ricerca scientifica, società e politica collaborino efficacemente per affrontare le sfide dell'avvenire.
Il cattivo è ormai la figura centrale nelle narrazioni immaginative, è spesso il personaggio più sperimentale e complesso, tanto da diventare sistematicamente un modello nonostante incarni il disordine e la devianza da rifuggire. Questa pervasività della violenza del cattivo ha delle ricadute etiche sulle scelte reali? Sì, ma in maniera obliqua. Per comprendere l'odierna accelerazione della trasformazione del cattivo, si devono indagare unitamente l'arricchimento dei mezzi espressivi, che permettono di esperire l'immaginario senza le limitazioni ordinarie, e le ampliate possibilità di fruizione e scelta da parte del pubblico. Sostenuta da uno strutturato impianto teorico, l'analisi di Salvatore Patriarca esplora il male come scelta e la violenza come conseguenza in un percorso che si snoda attraverso filosofia, cinema e televisione, passando dai malvagi "classici", da Giuda a Vito Corleone, per arrivare ai moderni Joker, Dexter e Walter White di Breaking Bad.
Quello dell'amicizia è un tema fondamentale: riguarda ciascuno di noi. L'amicizia è infatti un vitale rapporto con il prossimo, capace di innescare un dialogo che ci trasforma reciprocamente. È una miracolosa fonte di gioia ma anche un equilibrio fragile, da tutelare. La relazione non esclude la solitudine, che anzi si trova al cuore dell'amicizia. I rapporti amicali non sono poi tutti uguali: mutano nel tempo, a seconda delle diverse età della vita, del genere, dei caratteri, delle condizioni esterne, familiari, sociali e storiche. L'amicizia, non ultimo, ha risonanze in psichiatria, tanto più in una situazione post-pandemica, ed è alla base della cura. Grandi pensatori, poeti e scrittori accompagnano Eugenio Borgna in questa riflessione a tutto campo sul sentimento di amicizia: Friedrich Nietzsche, Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Thomas Mann e Antonia Pozzi, fra gli altri, prestano le loro parole per coglierne meglio il senso e il valore.
Un tempo premiare il merito - misterioso amalgama di talento e impegno - pareva la via maestra per combattere la disuguaglianza, antidoto perfetto contro il nepotismo e i privilegi di classe. Oggi, al contrario, tanti intellettuali, studiosi e politici pensano che sia fonte di discriminazione, selezione, umiliazione dei deboli, e ingaggiano una stupefacente battaglia contro il merito. Nella vita di tutti i giorni non abbiamo alcun problema a scegliere il cuoco più bravo, il chirurgo più esperto, la scuola migliore per i nostri figli, o ad ammirare l'artista più originale, il calciatore che segna più goal, la scienziata che fa una grande scoperta. Perché, non appena si parla di studenti e studentesse, tutto cambia? Perché la parola "merito" nel mondo della scuola e dell'università scatena ogni sorta di paure, accuse, luoghi comuni, pregiudizi? E se invece proprio il talento fosse il più egualitario dei doni, visto che può posarsi su una reggia come su un tugurio? In questo suo nuovo libro, Ricolfi ripercorre la storia delle idee sul merito, dagli ideali che hanno ispirato la Costituzione, passando attraverso le teorie filosofiche e i romanzi distopici del Novecento, fino alla recente e deleteria confusione tra merito e meritocrazia. E mostra quanto retrograda, infondata e lontana dal comune sentire sia la battaglia contro il merito. Sostenere i capaci e meritevoli - a partire dalle ragazze e dai ragazzi dei ceti popolari - è il gesto rivoluzionario che può rimettere in moto l'ascensore sociale. Un gesto che era in cima ai pensieri dei Padri costituenti, ma che finora nessuna forza politica ha avuto il coraggio di far proprio.