Voi che rimanete, amate la vita, custoditela,
rendetela preziosa nel nome del Signore.
Verranno tempi bui in cui i valori di questa vita saranno calpestati,
ma ci sarete voi per il mondo, e la luce dell’uomo
potrà sempre brillare…
(san Francesco da “L’uomo dei sogni”)
La commissione di uno spettacolo sulla vita di san Francesco entra nel percorso di vita di un artista, lo costringe a un esame profondo su di sé, la sua vita, il tempo che stiamo vivendo.
Luca Mauceri prima racconta la sua storia di musicista, di attore e di uomo alla luce dell’incontro con Francesco, poi indossa la vita del Santo di Assisi. E nel testo teatrale conduce il ‘suo’ Francesco a dialogare con ciascuno di noi.
Con il bisogno d’amore che portiamo dentro. E che vorremmo liberare.
Luca Mauceri. Per chi lo segue a teatro è un attore che sa anche comporre e suonare. Per chi predilige i suoi concerti è un musicista con il dono della recitazione. Luca Mauceri è l’uno e l’altro, e ancora di più: un artista capace di imboccare tutte le strade che lo portino a trasmettere la sua passione per la vita.
Nato nel 1975 a Frosinone, ha studiato e vissuto a Roma prima di trasferirsi a Bologna, dove attualmente vive. Da molti anni percorre un personale sentiero di ricerca attraverso musica e teatro. Ha recitato da protagonista in numerosi spettacoli, ha partecipato a festival internazionali prestigiosi, è stato l’attore di punta del teatro di Guido Ceronetti, lavora stabilmente con il regista siciliano Vincenzo Pirrotta, ha pubblicato nove album tra musiche originali e colonne sonore.
“L’uomo dei sogni” è la prima opera di drammaturgia che ha scritto e interpretato.
Di Luca Ronconi (1933-2015), uno dei grandi intellettuali del secondo Novecento, è nota la proverbiale riservatezza. Qui, a differenza dei molti libri su di lui, è Ronconi stesso a parlare di sé. Ascoltiamo dunque sulla pagina la voce del regista, che - raggiunti i sessant'anni - ripercorre la propria esistenza, non inseguendo gli aneddoti o i capricci della memoria, ma cercando di arrivare alla scoperta del senso della vita. Si vedono così scorrere l'infanzia, negli anni della guerra, in un collegio svizzero, la Roma dell'apprendistato all'Accademia d'arte drammatica (che è anche quella della "Dolce vita"), il passaggio da attore a regista, il trionfo europeo dell'"Orlando furioso", la direzione del Settore Teatro della Biennale di Venezia, tra Grotowski e Wilson, l'esperienza politica e culturale del Laboratorio di Prato, nella Toscana "rossa", l'approdo alla direzione di un teatro stabile, con il senso di responsabilità che questo comporta e la volontà di istituire una scuola per attori. Tutto è raccontato in maniera piana e accompagnato da un corredo fotografico - sia nel testo, un centinaio di foto per buona parte inedite, sia in un inserto a colori - e da note di servizio, messe a punto da Giovanni Agosti, che sciolgono le allusioni, identificano i personaggi, mettono a tema le linee di fuga e costituiscono un viatico per comprendere chi, più di ogni altro regista, è andato alla ricerca delle proprie ragioni espressive. Il manoscritto, raccolto da Maria Grazia Gregori, è stato ritrovato nell'archivio di Ronconi, ereditato da Roberta Carlotto e oggi depositato presso l'Archivio di Stato di Perugia.
Come sappiamo dalle sue strepitose lettere, nonché dalla leggenda che circonda la sua carriera di attore, Groucho Marx era Groucho in ogni sua manifestazione, e la comicità che irradiava sullo schermo si nutriva delle ricche assurdità della sua vita. Così, un'autobiografia di Groucho non poteva certo somigliare alle tediose elencazioni di travolgenti successi che spesso costituiscono le vite delle star. E alla fine, usciremo da questo libro storditi e felici come dopo aver visto uno dei suoi migliori film.
«Chiamatemi Tiresia. Per dirla alla maniera dello scrittore Melville, quello di 'Moby Dick'. Oppure Tiresia sono, per dirla alla maniera di qualcun altro. Zeus mi diede la possibilità di vivere sette esistenze e questa è una delle sette. Non posso dirvi quale. Qualcuno di voi di certo avrà visto il mio personaggio su questo stesso palco negli anni passati, ma si trattava di attori che mi interpretavano. Oggi sono venuto di persona perché voglio raccontarvi tutto quello che mi è accaduto nel corso dei secoli e per cercare di mettere un punto fermo nella mia trasposizione da persona a personaggio. Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi, sono stato regista teatrale, televisivo, radiofonico, ho scritto più di cento libri, tradotti in tante lingue e di discreto successo. L'invenzione più felice è stata quella di un commissario. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant'anni, ho sentito l'urgenza di riuscire a capire cosa sia l'eternità e solo venendo qui posso intuirla. Solo su queste pietre eterne». La "Conversazione su Tiresia" scritta e interpretata da Andrea Camilleri è stata messa in scena per la prima volta al Teatro Greco di Siracusa i giugno 2018 nell'ambito delle rappresentazioni classiche realizzate dall'Istituto Nazionale del Dramma Antico.
Questa incredibile storia inizia sul molo di un porto americano, con un giovane immigrato ebreo tedesco che respira a pieni polmoni l'entusiasmo dello sbarco. È il seme da cui nascerà il grande albero di una saga familiare ed economica capace di cambiare il mondo. Acuto e razionale, Henry Lehman si trasferisce nel Sud degli Stati Uniti, dove apre un negozio di stoffe. Ma il cotone degli schiavi è solo il primo banco di prova per l'astuzia commerciale targata Lehman Brothers (perché nel frattempo Henry si è fatto raggiungere dai fratelli Emanuel e Mayer). Con il tempo, al cotone si sostituiscono il caffè, lo zucchero, il carbone, e soprattutto la nuova frontiera di un'industria ferroviaria tutta da finanziare; ai padri subentrano i figli e i nipoti, in un mosaico di umanità diverse, assortite, contraddittorie. Spiazzante e pirotecnico, "Qualcosa sui Lehman" è un libro in cui non c'è più spazio per le tradizionali differenze fra generi: il romanzo si amalgama al saggio, l'epica al teatro, con continue incursioni nel cinema, nelle canzoni, e perfino nelle formule matematiche e nei fumetti. Una forma letteraria che, sfidando in un corpo a corpo artistico XIX e XX secolo, apre di fatto uno squarcio sul futuro.
La scrittura frammentaria, rapida e, nello stesso tempo, incisiva di questi libretti di sala rispecchia fedelmente gli spettacoli di Paolo Poli, il cui teatro è fatto di parodie di romanzi o di commedie dell'Ottocento e del primo Novecento. Capace di suscitare ilarità con una grazia lontana dallo snobismo, dalla pubblicità e dalla moda, egli si muove tra i capisaldi della morale Liberty (la mamma, la guerra e il sentimento), fruga tra i romanzi d'appendice, per esempio le opere di Carolina Invernizio, e porta in scena La Vispa Teresa per criticare l'ottocentesco, selvaggio «consumo di virtù». Poli avanza con disinvoltura «nel magazzino del ciarpame di casa nostra» e in quello dei suoi ricordi personali: i dischi a settantotto giri, il fez da balilla, il cinema muto, il tip-tap, l'oratorio delle monache, il teatro dei burattini e il settimanale a fumetti per ragazzi. Il segreto del suo fascino, ha scritto Natalia Ginzburg, «è proprio nella maniera nobile, civile e intelligente con cui tocca, esamina ed esprime la volgarità rimanendone pienamente immune». Perché non siamo mai tanto comici come quando ci prendiamo molto sul serio.
«Il mio amico Serge ha comprato un quadro» annuncia Marc, da solo in scena, ad apertura di sipario. «È una tela di circa un metro e sessanta per un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco, e strizzando gli occhi si possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche». Subito dopo Marc viene a sapere dallo stesso Serge che il quadro bianco a righe bianche è stato pagato duecentomila franchi: cosa che Marc giudica grottesca, poiché secondo lui è «una merda». Un terzo amico, Yvan - che ha già abbastanza guai con i preparativi del suo matrimonio -, non prende posizione, venendo accusato dagli altri due di pusillanimità e doppiezza. Così, la serata che i tre decidono di trascorrere insieme si trasforma in un regolamento di conti, in un gioco al massacro: il quadro bianco a righe bianche diventa il rivelatore da cui affiorano a poco a poco nevrosi, risentimenti e rivalità, mentre le parole si fanno sempre più velenose, sempre più acuminate, fino a ridurre in macerie la fragile impalcatura di un rapporto fondato sull'egoismo, la vanità e l'ipocrisia. Yasmina Reza, di cui conosciamo la penna affilata e lo sguardo chirurgico, tocca in questa commedia nera vette di comica crudeltà, si diverte e ci fa divertire - perché ridiamo molto, anche se sempre più a denti stretti, a mano a mano che da sotto la maschera buffa del théâtre de boulevard vediamo spuntare la malinconia.
Un'Opera dai pregi antichi e classicheggianti, frutto di incitamento a salutari e sofferte riflessioni, che permette di immergersi direttamente all'interno della scena di quello che deve esser stato il mistero della Pasione e Morte di N.S. Gesù Cristo. Tutta la seconda parte dell'opera offre una ricca carrellata di approfondimenti filologici, storici ed esegetici richiamati nel testo.
A cinquecento anni dal leggendario 31 ottobre 1517, in cui si favoleggia dell'affissione di 95 tesi contro le indulgenze papali da parte di Martin Lutero, il drammaturgo e regista Cesare Lievi ha immaginato di tornare a quella vicenda, nodale per la nostra storia, per mezzo di due gruppi di personaggi d'oggi, italiani e tedeschi. Ognuno di loro è chiamato a riattraversare i dilemmi che hanno dilaniato Lutero e lo hanno spinto ad agire. Tutti sono alle prese con la ricerca di un ricordo, vivo o morto, delle ragioni di quella grande "protesta" che spaccò l'Europa di allora.
Nel volontario esilio in campagna, nel possedimento di Boldino, Puskin scrisse le "piccole tragedie" di cui fa parte anche questo poemetto drammatico qui riletto da Erri De Luca, che afferma: «Puskin scrive la piccola tragedia in versi "L'ospite di pietra" contro se stesso... Scrive di don Juan contro se stesso. Non ne fa un fuggiasco, un clandestino, sì, a ribelle all'esilio del re».
"Indubbiamente il viaggio era un motivo dominante dell'esistenza di Gogol', che da vero Wanderer romantico ne aveva fatto la ragione stessa della propria esistenza. Autentico scrittore on the road, era in grado di scrivere in carrozza, nelle sale comuni delle locande, nelle stazioni di posta [...]. Tra l'arrivo e la partenza sulla scena gogoliana dominano la paura (L'ispettore generale), l'angoscia (Il matrimonio) e la noia (Igiocatori). L'ispettore generale è a ragione considerata la commedia incentrata sul gusto per la rappresentazione che caratterizza tutta la produzione di Gogol' [...]. Ma, al di là della componente comica, nell'Ispettore generale tutti hanno paura: il podestà, i burocrati della città, lo stesso Chlestakov. E una paura viscerale, legata a ragioni pratiche di sopravvivenza, ma è anche una paura metafisica, legata a ragioni esistenziali più profonde. [...] L'ansia dell'accoppiamento e della riproduzione pervade ovviamente tutto II matrimonio, con il suo corollario di orrore del femminile sessuato che possiamo rintracciare nell'opera gogoliana nel suo complesso [...]. Il mostro che occhieggia dietro la superficie puramente comica dei Giocatori è invece quello forse più temuto dallo scrittore, la noia." (dall'introduzione di Serena Prina)
«Ma perché, tra tutti gli uomini, proprio io dovevo fare ritorno?». Le parole di Lazzaro risuscitato sono intrise di un profondo rammarico. Il gesto di Gesù che gli ha restituito la vita non lo sollecita alla gratitudine, ma gli impone un amaro rimprovero: ritornare dalla morte significa per Lazzaro rinunciare al più grande amore della sua vita, scoperto e vissuto solo nella foschia dell’aldilà.In questo sconvolgente atto unico, Gibran rovescia una delle più commoventi pagine evangeliche e costringe a riflettere sul rapporto tra l’amore che Lazzaro ha scoperto nell’aldilà e l’«egoismo» di chi ha voluto strapparlo dal sepolcro e da un’insospettabile gioia.Attraverso questo originale cambio di prospettiva, Gibran amoreggia con la propria fine imminente e con la morte, restandone sedotto fino al finale inaspettato.
Note sull'autore
Kahlil Gibran (1883-1931), scrittore e poeta, libanese cattolico di rito maronita, emigra nel 1912 a New York dove vive fino alla morte. La maggior parte dei suoi primi scritti è in lingua araba, ma dopo il 1918 pubblica quasi esclusivamente in inglese. Ampia è la sua produzione, ma Gibran conosce la notorietà per alcune opere come Il profeta, tradotto in oltre venti lingue, Il folle e Gesù il figlio dell’uomo.