Forse il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell'agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi. "Nei primi anni del secolo con Federica Montevecchi abbiamo pensato di scrivere questo libro con un obiettivo che si presentava ambizioso. Eravamo profondamente colpiti dal degrado del linguaggio politico in quel periodo che per brevità, e con una certa facilità polemica, chiamavamo il tempo di Berlusconi e che era anche il tempo nostro. In politica si parlava a vanvera, le parole non avevano più peso, soprattutto quelle del governo: se si poteva dire solo quello che conveniva, quale significato poteva avere un impegno per O futuro? Ci proponevamo, con Federica, di analizzare i motivi di questo degrado e, se possibile, di indicare una via di uscita. Il nostro punto di partenza sembrava semplice: perché le parole della politica apparivano prive di senso?". Così scrive Vittorio Foa introducendo questo volume in cui, ciascuno dei due autori compone una riflessione sul senso delle parole della politica.
Nell'ordinamento giuridico italiano, seppure in ritardo rispetto ad altri contesti europei, è stato introdotto da tempo il principio che la comunicazione delle istituzioni pubbliche non ha lo scopo di ricercare in modo indiretto il consenso per i singoli o per i gruppi politici, ma quello di avvicinare il cittadino alle istituzioni pianificando vere e proprie campagne informative. L'agire "in pubblico" risulta infatti il metodo per mantenere viva la distinzione tra poteri istituzionali e "poteri" privati, e per garantire che l'esercizio dei diritti civili e politici - nelle diverse forme di partecipazione singola e associata - continui ad avere senso, anche nelle modificate forme che le tecnologie hanno permesso di fare emergere. La volontà non solo di informare, ma di mettere in comunicazione i soggetti dell'ordinamento, crea e assicura il confronto tra gli organi costituzionali all'interno dell'evoluzione della forma di governo, nonché il confronto tra questi e i cittadini, così da dare un senso rinnovato alla stessa nozione di forma di Stato. La circolazione delle informazioni diviene così un obiettivo da perseguire, formalmente e informalmente, per sostenere il modello di democrazia pluralista affermatosi in Italia nel secondo dopoguerra.
Quale relazione intercorre tra lo stile politico informale di Berlusconi, l'impraticabile ideale della mamma in carriera, il sogno di una famiglia omosessuale, il trionfo dell'estetica pornografica, il giovanilismo oppressivo delle vecchie classi dirigenti? La mentalità neototalitaria è un fenomeno culturale d'ampia portata che investe le dimensioni confinanti della politica, del marketing e della comunicazione contemporanea. Riguarda fasce sempre più vaste di soggetti e gruppi sociali che s'impegnano a rinnegare la loro posizione di privilegio e supremazia rispetto a coloro che stanno "dall'altra parte", distanti, se non addirittura marginali o decisamente sottomessi. Il nuovo totalitarismo penetra negli interstizi, si annida nelle nicchie, da nuovo senso agli "scarti"; perché l'importante non è eliminare il nemico ma assumerne il punto di vista occupando il suo spazio vitale, negando il primato della sua inferiorità (o superiorità) e con esso il diritto a essere ciò che è.
In che modo si conosce ciò che si crede di conoscere? Si è abituati a pensare che la realtà può essere "scoperta". Al contrario, il costruttivismo sostiene che ciò che viene chiamato realtà è un'interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l'esperienza. La realtà non verrebbe quindi scoperta, ma "inventata". In questo volume si discute dell'utilità e della necessità di sostituire la tradizionale concezione della conoscenza come rappresentazione di una realtà esterna al soggetto con una epistemologia che interpreta la relazione fra conoscenza e realtà nei termini della relazione di "adatto" nel nuovo senso delle scienze evolutive.
Nei suoi sessant'anni di vita la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha percorso un lunghissimo cammino. Ma nello stesso tempo - come del resto possiamo constatare ogni giorno - le ferite che i suoi valori subiscono sono immense e terribili. Questo quadro in chiaroscuro è il punto di partenza per un tentativo di riflessione su una delle problematiche più importanti della vicenda morale dell'umanità. Tentativo raccolto in questo volume, che anziché celebrazioni o lamentazioni propone un dibattito serio, persino aspro, mettendo sotto la lente della riflessione di ventuno studiosi di ogni parte del mondo, di ogni provenienza etica e religiosa, cultura e pensiero politico, lo stato dei progressi (ma anche delle complessità) dei principi irrinunciabili racchiusi in quella famosissima Dichiarazione. Lo stesso successo che si conseguì nello scriverla e diffonderla è infatti la spinta propulsiva che ha ormai convinto moltissimi a considerarla un fondamentale patrimonio comune dell'umanità: un aiuto per sfuggire al relativismo e all'indifferentismo, e per far sì che sia ancora possibile trasformare il terrore diffuso di uno scontro di civiltà in un saggio e fecondo incontro.
Questo libro ci parla di Politica a 360 gradi grazie agli interventi dei maggiori studiosi nel campo delle scienze umane. A coordinare il tutto il Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni.
Per oltre un secolo, tra Otto e Novecento, anche in Italia, i partiti hanno svolto una funzione importante nel dare forma alla partecipazione politica, in quanto snodo nevralgico tra la società e le istituzioni (parlamentari e locali). Quell'epoca storica e con essa la parabola del partito politico sono ormai vicende che è possibile riconsiderare nella loro complessità. È quanto ci si propone in questo libro, volto a delineare dapprima le radici delle tradizioni politiche nell'Italia risorgimentale e postunitaria e quindi le trasformazioni avvenute nella società di massa del Novecento, in particolare nei due dopoguerra, negli anni del regime fascista e quindi della democrazia repubblicana.
IL LIBRO
Classico del pensiero liberale contemporaneo, a cavallo tra il pamphlet e il saggio di sociologia culturale, questo libro rappresenta forse la più penetrante critica agli intellettuali occidentali di sinistra che sia mai stata scritta. Raymond Aron da un lato ricostruisce gli argomenti di cui una certa intellighenzia si è nutrita nella sua polemica contro la «democrazia capitalista » e ne mostra tutti i punti deboli; dall’altro analizza le cause di questo atteggiamento mediante un esame delle diverse figure di intellettuale e delle funzioni sociali da esse soddisfatte, offrendo una spiegazione delle ragioni che spingono uomini intelligenti ad adottare idee stupide.
Nelle prime due parti del libro, l’Autore prende di petto soprattutto i «miti» politici (sinistra, rivoluzione, proletariato) e quella forma di idolatria della storia attraverso cui i maîtres à penser «progressisti» (Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Maurice Merleau-Ponty…) hanno giustificato il totalitarismo sovietico e i suoi crimini. L’ultima parte è dedicata a una riflessione, sempre di grande attualità, sul ruolo degli intellettuali e sul rapporto tra questi e la politica.
L'AUTORE
RAYMOND ARON (1905-1983) è stato uno dei maggiori sociologi e politologi del XX secolo. Durante l’occupazione nazista della Francia fu direttore di «La France Libre»; successivamente collaborò a riviste e quotidiani, svolgendo una prestigiosa attività di commentatore politico. Docente alla Sorbona, nel secondo dopoguerra è stato uno dei punti di riferimento del pensiero neoliberale. Tra le numerose opere edite in italiano ricordiamo: Saggio sulla destra. Il conservatorismo nelle società industriali (2006), Introduzione alla filosofia politica. Democrazia e rivoluzione (2005), Il Ventesimo secolo. Guerre e società industriale (2003).
Il 4 novembre 110 milioni di americani sceglieranno il successore di George W. Bush. La maratona per la Casa Bianca, dopo quasi due anni di campagna elettorale, avrà finalmente un vincitore. Prevarranno la freschezza e la voglia di cambiamento di Barack Obama, quarantasettenne senatore dell’Illinois, o il riformismo e l’esperienza del veterano del Vietnam, il settantaduenne conservatore John McCain?
La loro è certamente una sfida fra generazioni e stili diversi, ma è soprattutto uno scontro fra due modi di percepire l’America. McCain e Obama parlano con linguaggi differenti ai mille volti e agli infiniti angoli della nazione. Si rivolgono a un’America spaventata dalla situazione economica, alle prese con l’insicurezza prodotta dallo scoppio della bolla immobiliare, ma ancora solida nel suo ottimismo e bramosa di voltare pagina e di lasciarsi alle spalle i giorni bui del dopo 11 settembre.
I due candidati vogliono apparire come personaggi lontani dai cliché ideologici, estranei al vecchio schema destra-sinistra, repubblicani contro democratici. Tuttavia il loro sforzo non è pienamente riuscito. John McCain è pur sempre un conservatore allergico all’intrusione del governo nelle vicende economiche, custode (senza lo zelo messianico di Bush) dei valori tradizionali, e fiero del ruolo svolto dalla nazione sullo scacchiere internazionale. Obama è invece per molti tratti un democratico della vecchia scuola «tassa e spendi», progressista quasi nel senso europeo del termine su alcune questioni, pragmatico su altre; forse persino un «falco» in politica estera.
John Samples e Alberto Simoni scrutano fra le pieghe dei programmi elettorali, spiegano regole e meccanismi delle elezioni, raccontano il gioco «sporco» delle lobbies e la battaglia delle associazioni di volontariato, confrontano ideali e interessi, pesano capitali e strategie ma soprattutto guardano in faccia gli americani di questo inizio millennio, quella società civile che è l’autentica ricchezza dell’America.