Mentre la pallida luce dell'alba si diffondeva sulla Manica, un corpo d'invasione composto da centotrentamila unità si apprestava a sbarcare sulle coste della Normandia. Era il 6 giugno 1944, il D-Day, "il giorno più lungo", che avrebbe cambiato il corso della seconda guerra mondiale e della storia del Novecento. "È suonata l'ora per la quale siamo nati" proclamava il "New York Times", l'ora che lasciava intravedere l'inizio della fine della Germania nazista. Ma per i soldati stivati nei mezzi da sbarco, paralizzati dal freddo e dalla paura, che a migliaia sarebbero caduti sulle spiagge presto divenute celebri di Omaha e Utah, l'assalto alla Fortezza Europa era solo all'inizio. Sarebbe trascorso un altro anno prima che nella Berlino circondata dall'Armata rossa il cadavere di Hitler bruciasse in uno squallido cortile. Un anno di combattimenti atroci, di battaglie epocali e di luoghi destinati a rimanere per sempre nella memoria e nella coscienza dell'Occidente: il porto di Cherbourg, la valle del Rodano, i boschi delle Ardenne, le lanche del Reno, la foresta di Hürtgen. La strada verso il cuore del Terzo Reich sarebbe stata ancora lunga e lastricata di incomprensioni, dissidi strategici, rivalità personali oltreché di innumerevoli vite spezzate. Un lungo cammino che avrebbe confermato, ancora una volta, che la guerra non è mai lineare, ma è un'impresa caotica, disordinata, fatta di errori e di slanci, di successi e di rovesci.
Dongo, 27 aprile 1945, è una mattina livida e piovosa, quando Mussolini e i gerarchi in fuga vengono fermati dai partigiani della 52' brigata Garibaldi, sulla litoranea del lago di Como. Nella lunga autocolonna che accompagna il Duce e gli epigoni del fascismo di Salò viene trovata un'ingente quantità di beni preziosi, banconote di ogni taglio, oro, gioielli, titoli di Stato, valuta straniera, in gran parte provenienti dai fondi segreti dei ministeri della Repubblica sociale. Un ricco bottino che da quel giorno tutti conosceranno come il "tesoro di Dongo". Chi si è impossessato di quell'oro, destinato alle autorità del nuovo Stato italiano? Chi lo ha trasferito alla federazione comunista di Como? Chi se n'è impadronito in seguito? E chi ha fatto scomparire il "capitano Neri" e la partigiana "Gianna", combattenti garibaldini che ne avevano compilato l'inventario? Nella primavera del 1957 ha finalmente inizio, presso la Corte d'assise di Padova, il processo che dovrebbe fare luce su questi interrogativi. Un procedimento che suscita tante attese, ma che viene rinviato dopo quarantatré udienze per il suicidio di un giudice popolare e che non verrà mai più ripreso, perché "scomodo". Dalle carte disponibili emergono infatti con chiarezza le responsabilità politiche degli eventi che si sono consumati in quei lontani giorni del 1945.
"Io non combatto per la mia patria, combatto per mia madre, per rivedere il suo viso." A settant'anni dalla Liberazione, queste parole del diario partigiano inedito di Angelo Del Boca gettano nuova luce sulla storia, il dramma e le ragioni dei molti giovani nati tra le due guerre che, ricattati e mandati allo sbaraglio dalla Repubblica sociale, scelsero la montagna come estremo gesto di fedeltà ai più profondi valori umani e affettivi, contro la retorica fascista del credere-obbedire-combattere, gli orrori della guerra civile e la barbarie dell'occupazione tedesca. Aspirante scrittore che affonda lo sguardo in sé stesso e in ciò che lo circonda, il diciannovenne Del Boca annota scrupolosamente ogni fase delle peripezie del giovane alpino rimpatriato nell'estate del 1944 dall'addestramento militare in Germania nelle file della divisione Monterosa, schierata nell'appennino ligure-emiliano come forza antiguerriglia: la scelta della libertà e la fuga, l'impatto traumatico con la diffidenza e il disprezzo del capo di una formazione garibaldina, l'arrivo a Bobbio (Piacenza) e l'inserimento nella 7a brigata alpini Aosta del comandante Italo. Il diario parla di marce, pioggia, neve, fame, freddo, sonno, paura, vergogna, e di nostalgia di casa, di ricordi d'infanzia, di foto, occhi e sorrisi di ragazze che accendono la fantasia e il desiderio, di qualche bacio rubato, di una irresistibile e pervasiva sete di amore e normalità.
Angelo Del Boca è nato a Novara il 23 maggio del 1925. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Del Boca fu costretto ad arruolarsi e spedito in Germania per un corso di addestramento. Ritornato in Italia nell’estate del 1944, decide di disertare e di unirsi alla resistenza. Durante il periodo in cui militò nei partigiani, conobbe Maria Teresa Maestri, una crocerossina dei partigiani che nel 1947 sarebbe divenuta sua moglie. In seguito alla Liberazione Del Boca si è dedicato alla scrittura, pubblicando la raccolta di racconti “Dentro mi è nato l’uomo”. Contemporaneamente lavora come giornalista, divenendo in breve Redattore Capo, a Novara, del settimanale socialista Il Lavoratore. Dopo questa prima esperienza giornalistica passa alla redazione de La Gazzetta del Popolo, dove lavora come inviato speciale, e poi a Il Giorno. Nel 1981, quando sulla scena politica italiana irruppe la figura di Bettino Craxi, Del Boca decise di lasciare la redazione de Il Giorno e anche il partito socialista. Del Boca è autore di numerosi volumi, molti dei quali raccontano e denunciano le atrocità perpetuate dal fascismo durante il processo di colonizzazione in Africa. Fu il primo a raccontare le azioni del fascismo in Libia e in Etiopia, dove le truppe italiane ricorsero a bombardamenti aerei su centri abitati, all'impiego di armi chimiche e alla creazione di campi di concentramento. A causa delle sue affermazioni è stato molto contestato dalla parte conservatrice della stampa e dalle associazioni dei reduci di guerra. Angelo Del Boca attualmente vive a Torino, dove dirige la rivista di storia contemporanea I sentieri della ricerca.
Dall'estate del 1943 alla primavera del 1945, mentre la Wehrmacht arretra dal Sud al Nord Italia e il nuovo fronte della resistenza prende corpo, il Terzo Reich scatena la violenza delle sue truppe sulla popolazione civile. Uomini, donne e bambini diventano nemici da annientare, bersagli scelti di corpi speciali. Di quelle stragi Carlo Gentile si è occupato da studioso e da perito nei processi che in alcuni casi - come Sant'Anna di Stazzema - sono ancora storia viva. Frutto di anni di ricerca nei principali archivi internazionali compreso il noto "armadio della vergogna" - il suo lavoro ripercorre la storia delle vittime e ci offre un ritratto inedito dei carnefici, spesso militari molto giovani ma fortemente ideologizzati. Già pubblicato in Germania, dove è stato accolto come un importante contributo al dibattito storiografico, lo studio di Gentile è la cronaca di un biennio che ha ferito l'Italia nel profondo, ma soprattutto è un quadro dettagliato, assai significativo, delle strategie di guerra tedesche nel nostro paese.
«Tiri su il suo body count o ha chiuso». Il generale Ewell incalzava senza pietà i suoi sottoposti in Vietnam con la conta dei morti. Era ossessionato. Nessuno doveva permettersi di abbassare il livello della sua divisione. 6.000 morti al mese come minimo, era l’obiettivo. Ne andava della sua reputazione di “macellaio” del Delta del Mekong. Tutto in Vietnam ruotava intorno al body count. Sulle pareti della mensa campeggiavano i punteggi settimanali di ogni soldato, in modo che tutti vedessero. E si regolassero di conseguenza. Se eri tra i primi avevi premi, licenze, casse di birra e altre piacevolezze. In caso contrario, stavi molto molto scomodo. Il sergente Roy Bumgarner pare ne abbia uccisi 1.500 da solo. E come lui, ce n’erano decine.
«Uccidi, uccidi, uccidi», urlavano le reclute per tutto l’addestramento. «Spara a tutto ciò che si muove» era l’ordine dall’alto per le missioni. Disobbedire non era contemplato. La retorica della guerra in Vietnam ha riconosciuto My Lai come l’unico crimine di guerra commesso dai soldati americani. La strage di 500 donne, anziani e bambini, tutto un villaggio, compiuta nel 1968 è definita un caso isolato, opera di mele marce.
Non è così. Basandosi su documenti riservati e sulle voci di testimoni oculari americani e vietnamiti, Turse costruisce un racconto mozzafiato e definitivo della “sporca guerra”.
Storia del nazismo significa storia del Führer, ma anche storia della Germania e del popolo tedesco, che, usciti sconfitti e umiliati dalla Grande guerra, dal 1933 precipitano in una dittatura che li avrebbe portati, in un forsennato sogno di dominio, al disastro di una guerra europea. Una chiara sintesi sulla parabola del nazionalsocialismo: dall'ascesa politica di Adolf Hitler alla guerra e alle sue drammatiche conseguenze.
Prendendo le mosse dal declinare dell'impero ottomano, il libro mostra come già sul finire dell'800 il governo metta in opera un piano demografico-sociale per insediare in Anatolia i turchi espulsi dai territori perduti dall'impero. Nel corso della prima guerra mondiale il governo ultranazionalista dei Giovani Turchi compie la scelta di turchizzare totalmente l'Anatolia e decide di deportare e sterminare la minoranza armena che viveva lì da secoli. La nuova edizione va ancora più in profondità nella ricostruzione del processo che portò al genocidio, sul quale tuttora si combatte la battaglia della memoria, con la Turchia ferma su posizioni negazioniste.
A differenza dei pogrom contro armeni, ebrei e greci ordinati tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento dall'ultimo sultano ottomano, Hamid II, lo sterminio portato a compimento durante la Prima Guerra Mondiale dal sedicente partito "progressista" e "modernista" dei Giovani Turchi fu attuato con meticolosa scientificità. Sulla base dell'ideologia nazionalista e razzista panturanista e panturchista, leader come Jemal, Enver, Talaat Pacià prima e Mustafà Kemal poi (sotto il quale la persecuzione si trascinò fino al 1922) gli ottomani trucidarono circa un milione e mezzo di armeni cristiani, colpevoli soltanto di professare un credo religioso diverso. Come i nazionalsocialisti tedeschi che consideravano gli ebrei una razza inferiore e con tale spregevole motivazione pianificarono la "Soluzione Finale", anche i Giovani Turchi trattarono gli elementi "non turchi" alla stregua di esseri "subumani". Come è noto, lo stesso premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk (espatriato recentemente negli Usa), ha più volte invitato i propri connazionali a fare i conti con il "genocidio" armeno, scatenando le ire del governo di Ankara che si rifiuta ancora oggi di ammettere il primo "olocausto" della storia contemporanea.
La notte del 24 aprile 1915 ebbe inizio il 'Grande Male', il Metz Yeghem. Sono passati cento anni dal genocidio armeno. Cento lunghi anni di silenzi colpevoli, di verità non ancora condivise. L'anniversario rappresenta un'occasione per riflettere su una vicenda controversa: la storia oggi interpella i governi per il riconoscimento del genocidio di un milione e mezzo di armeni. La condanna di un crimine simile rappresenta un atto di giustizia verso le vittime, verso la coscienza umana, verso i superstiti.
In una tiepida sera di fine estate, nel cortile di una cascina a Monte Sole, un vecchio mostra al nipote un tesoro fatto di fotografie ingiallite, mappe militari consunte, cartine geografiche, carte processuali segnate dall'uso. Testimonianze e ricordi di una storia avvenuta settant'anni fa, di cui il nonno, nella sua comunità, è diventato il custode. È la storia di una lunga estate di sangue, quella del 1944: per contrastare l'avanzata delle truppe alleate, i tedeschi rinforzano le difese lungo la linea Gotica e intanto pianificano una persecuzione spietata delle brigate partigiane. Il compito è assegnato a una divisione speciale delle SS combattenti, che viene lanciata contro i "banditi" come su un fronte di guerra: i borghi in cui si nascondono i ribelli devono essere rasi al suolo, la popolazione eliminata come complice. Nei piccoli paesi dell'Appenino fra Toscana ed Emilia - Sant'Anna di Stazzema, Bardine, Vinca, Casaglia, Marzabotto - il beffardo suono di un organetto annuncia l'arrivo dei militari della divisione assassina e dà inizio al martirio di centinaia di vecchi, donne e bambini. Il nonno ha ancora negli occhi l'orrore conosciuto nella sua infanzia, ma il suo racconto ha la lucidità di chi per decenni si è dedicato a ricostruire i fatti e individuare le responsabilità dei singoli, a seguire i processi e denunciare i silenzi e le omissioni di giudici e politici.
"Essendo fidanzata con un prigioniero di guerra tedesco ed avendo ad oggi una bambina, faccio appello a codesto Comando di voler concedere l'autorizzazione onde poterci unire in matrimonio, sebbene prigioniero." Rimasta sola a crescere la figlia nata dall'amore con un soldato tedesco, Lola Oldrini così scriveva alla Commissione alleata di controllo di Roma nel luglio del 1946. Come lei, nel periodo dell'Asse Roma-Berlino, e poi durante l'occupazione nazista, tra il 1943 e il 1945, molte donne italiane intrattennero relazioni sentimentali con militari tedeschi della Wehrmacht. Furono fidanzamenti voluti dalle famiglie d'origine, relazioni di lungo periodo sfociate in 'matrimoni misti', oppure relazioni extraconiugali e incontri fugaci ricercati per bisogno d'affetto e protezione nei giorni della solitudine della guerra. Ciò che è stato omesso è che i bambini nati da questi incontri, considerati 'figli del nemico', furono spesso oggetto di discriminazione, subirono l'abbandono delle madri, passarono l'infanzia chiusi in orfanotrofi, negli istituti di cura religiosi o nei brefotrofi gestiti dalla Croce Rossa o dall'Opera nazionale maternità e infanzia o vennero dati in adozione. Attraverso le lettere private e i diari oggi conservati nell'Archivio Segreto Vaticano e nell'Archivio delle Nazioni Unite, Michela Ponzani racconta le loro vite dimenticate, insieme a quelle delle loro madri, dei loro padri e di chi se ne prese cura, riportando alla luce storie sconosciute e sorprendenti.
La seconda guerra mondiale lascia un'Europa nel caos. Un continente devastato, città intere rase al suolo, più di 35 milioni di morti. Ma la distruzione non è solo fisica: è anche. sociale, politica, morale. Legge e ordine sono praticamente inesistenti. Istituzioni per noi oggi scontate, come governo e polizia, sono sparite o disperatamente compromesse. Non ci sono scuole né giornali. Non ci sono trasporti, né possibilità di comunicare. Non ci sono banche, ma tanto il denaro non ha più alcun valore. Non ci sono negozi, perché nessuno ha alcunché da vendere. Non c'è cibo. Non sembra essere nemmeno chiaro ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. La gente ruba tutto quel che vuole. Uomini in armi vagano per le strade minacciando chiunque intralci il cammino. Non c'è vergogna. Non c'è moralità. C'è solo sopravvivenza. Per le generazioni attuali è difficile figurarsi un mondo del genere, eppure ci sono ancora centinaia di migliaia di persone che hanno sperimentato proprio questo, e non in angoli sperduti del globo, ma nel cuore di quella che per decenni è stata considerata come una delle più stabili e sviluppate regioni della terra. "Il continente selvaggio" racconta per la prima volta il lato oscuro e sconosciuto di quegli anni. È il ritratto di un'Europa dura, sconvolgente.