«La protagonista del racconto è un oggetto e la sua identità consiste soltanto nell'essere un materiale. Non capisce concetti come la consistenza, la temperatura o lo scorrere del tempo. Per questo guarda gli uomini e si stupisce della voce, di ciò che è leggero, della capacità creativa, ma anche delle lacrime, degli abbracci, della vergogna, di tutto ciò che chiamiamo "emozioni". Di che materia sono fatti gli uomini? Di voce. Siamo parola, musica e canto».
Due brevi testi di Antoine de Saint-Exupéry, il grande narratore e avitore francese autore del bestseller Il piccolo principe. Avevano poco da dirsi, ma spesso li si vedeva camminare a lavoro ultimato, mentre guardavano in silenzio i fiori, il giardino, il cielo e gli alberi.
Una palestra comunale, decine di cadaveri che saturano l'aria di un "orribile tanfo putrido". Siamo a Gwangju, in Corea del Sud, nel maggio 1980: dopo il colpo di Stato di Chun Doo-hwan, in tutto il paese vige la legge marziale. Quando i militari hanno aperto il fuoco su un corteo di protesta è iniziata l'insurrezione, seguita da brutali rappresaglie; "Atti umani" è il coro polifonico dei vivi e dei morti di una carneficina mai veramente narrata in Occidente. Conosciamo il quindicenne Dong-ho, alla ricerca di un amico scomparso; Eun-sook, la redattrice che ha assaggiato il "rullo inchiostratore" della censura e i "sette schiaffi" di un interrogatorio; l'anonimo prigioniero che ha avuto la sfortuna di sopravvivere; la giovane operaia calpestata a sangue da un poliziotto in borghese. Dopo il massacro, ancora anni di carcere, sevizie, delazioni, dinieghi; al volgere del millennio stentate aperture, parziali ammissioni, tardive commemorazioni. Han Kang, con il terso, spietato lirismo della sua scrittura, scruta tante vite dilaniate, racconta oggi l'indicibile, le laceranti dissonanze di un passato che si voleva cancellato.
Nell'impulso irrefrenabile che ci spinge talora a strapparci alla nostra sedentarietà e a partire verso una meta ignota non c'è quasi mai nulla di razionale; sono piuttosto le nostre antenne a suggerirci su quali sentieri potrà placarsi, forse, l'irrequietezza che ci consuma. Lo sa bene Vasilij Golovanov, che ha elevato la prassi del «viaggio insensato», oltre che a esercizio spirituale, a vero e proprio genere letterario. Le sue «derive» ci conducono verso destinazioni improbabili, e non importa che si tratti della sorgente quasi invisibile dello sterminato Volga o del suo delta nel Mar Caspio - uno dei «luoghi più volatili della Storia», dove ogni ondata migratoria ha lasciato, come su una lavagna, una traccia di civilizzazione inesorabilmente rimossa da quella successiva. Dalle steppe dove la Russia europea si smarrisce nei meandri dell'Asia centrale fino alla mitica località di Chevengur, scaturita dall'immaginazione di Platonov, passando per la tenuta aristocratica di Prjamuchino, culla dell'anarchico Michail Bakunin - di cui ripercorre, in modo a dir poco strepitoso, le tragicomiche vicende -, Golovanov esplora il complesso rapporto di filiazione tra lingua e territorio, spazio geografico e luogo metafisico. Nella convinzione che solo inoltrandoci in questi labirinti potremo davvero comprendere la letteratura russa, altrimenti destinata a restare per noi indecifrabile al pari di un'iscrizione cuneiforme.
Il libro contiene 42 illustrazioni dei principali personaggi e degli eventi fondamentali del capolavoro manzoniano corredate ognuna da una pagina con tre livelli di lettura: "brano del testo" che si riferisce all'illustrazione, "considerazioni implicite ed esplicite" che Manzoni vuol comunicare al lettore, "breve sintesi degli eventi del romanzo" come filo conduttore che unisce tutta la storia.
"Roma! Nome pieno di mistero. Dal momento che codesto nome si levò sulle nazioni, nessuna voce l'ha mai pronunziato senz'odio o senza amore, e non si sa se maggiore sia stato l'ardore dell'odio, o la passione dell'amore. Mentre la vanità dello spirito moderno si vanta di conciliar tutto, l'odio e l'amore di Roma continuano la loro lotta, più aspra che mai. L'odio fa scorrere il sangue; l'amore è inesauribile; e la lotta finirà soltanto alle soglie dell'eternità, col trionfo dell'amore. Fino a quel momento l'odio apparirà vittorioso; tuttavia esso è vinto. La sconfitta dell'odio sta nel suo persistere, nel perseguire invano quella vittoria della morte che lo libererà da se stesso. Roma vivrà; i nemici non saranno affatto alleviati dal peso della sua gloria."
L'11 febbraio 2013, Guido Baldini, quarantenne professore di Storia moderna in un'Università parigina, apprende come tutti delle dimissioni di papa Ratzinger. Baldini scrive per giornali e blog e come tanti si trova a commentare, con articoli e apparizioni televisive, quella notizia inedita e clamorosa. Ciò che ancora non può sapere è che, il 12 marzo, proprio lui verrà eletto papa dal conclave. Con una scusa sarà convocato in Vaticano da monsignor Carafa, che veglia sullo svolgimento del conclave e lo condurrà fino alla Cappella Sistina, dove Baldini verrà informato dell'incredibile avvenimento.
Camilleri è un maestro del racconto. Si presta sia alla misura minima della novella che a quella del romanzo breve. E, nella raccolta La paura di Montalbano (uscita in prima edizione, per Mondadori, nel 2002), alterna «ritmi» brevi e «ritmi» lunghi. Concerta il tutto nella forma compattamente ritmica di un libro di grande felicità narrativa e di sicuro diletto. Fa da preludio Giorno di febbre. Vi abita un Montalbano febbricitante, impegnato nella vana ricerca di un termometro. È quasi una comica. Eppure il commissario, che assiste a uno scippo e al ferimento di una bambina, ha modo di fiutare, nel segreto di un barbone che si prodiga a dare soccorso, l'inabissamento di un giallo. La ricerca investigativa irrompe nel romanzo breve Ferito a morte. Montalbano si incarica di dare di sé un ritratto a contrasto, un attestato di esistenza in vita in qualità di personaggio nel ruolo di sbirro: lui «è» in quanto esistono i delinquenti. Un colpo di pistola ha ucciso, nudo nel suo letto, uno spurcissimo strozzino, che tiene in casa come serva una nipote diciottenne e ha come esattore un pregiudicato. Entra in scena un altro morto ammazzato. Si tratta del fattorino Dindò, personaggio di lunare innocenza. Per risolvere il caso, Montalbano si atteggia a regista cinematografico. Prova e riprova sul set le ricostruzioni possibili. Si insinua veloce, nella trama del libro, Un cappello pieno di pioggia. Ed è un imprevedibile cappello, quello del titolo, che consente allo sbigottito Montalbano, in trasferta a Roma, di favorire la cattura di uno spacciatore. Il quarto segreto vede in azione un Montalbano inedito che segretamente collabora con i carabinieri; e, senza la sua squadra, ma con l'aiuto esclusivo di un Catarella «affelicitato», porta a termine l'indagine sulla morte di un misterioso muratore e sulle attività di un costruttore mafioso. Segue, con La paura di Montalbano, l'ultimo «movimento» corto. Nella luminosità gelida di una passeggiata in montagna, accade a Montalbano di salvare una donna sospesa su uno «sbalanco». E di rispondere mentalmente alla provocazione di Livia, che lo accusa di non spingersi oltre le «prove» nelle sue investigazioni, proibendosi di scendere negli «abissi dell'animo». Montalbano confessa di avere «scanto». Sapeva che, «raggiunto il fondo di uno qualsiasi di questi strapiombi, ci avrebbe immancabilmente trovato uno specchio». Conclude il libro Meglio lo scuro. Dapprima Montalbano è riluttante. Non vuole affrontare il caso. Gli sembra di dover entrare in un romanzo d'appendice da smorfiare in romanzo poliziesco. C'è una confessione in punto di morte: un veleno che non è veleno; un omicidio che non è omicidio. La storia è datata 1950. Le persone implicate sono già morte, o prossime a morire. Alla fine il commissario non si sottrae. Purtroppo la verità che scopre è diventata superflua. Anzi, la sua «luce» può risultare inutilmente ustionante.
Tutti gli scritti di Kafka sono attraversati dalla presenza del Nemico. Ma il suo nome si dichiarò soltanto alla fine, nei tre lunghi racconti di animali - Ricerche di un cane, Josefine la cantante o il popolo dei topi, La tana - che hanno scandito gli ultimi mesi della sua vita, chiudendola come un sigillo. Non si trattava di un tribunale ubiquo e ferreo, come nel Processo, né di un'autorità avvolgente, che poteva attirare a sé e al tempo stesso condannare, come nel Castello. Ma di animali dispersi e brulicanti, sopra e sotto la superficie della terra. Erano diventati gli unici interlocutori di colui che narrava. Come se Kafka fosse voluto scendere in uno strato più largo di ciò che è, là dove gli uomini possono essere una presenza superflua. A quel luogo - separato dal mondo ma da sempre già presente - e al suo ideatore è dedicato questo libro, che è insieme la via più diretta e labirintica per raggiungerlo.
Davidù è cresciuto a Palermo in una famiglia di pugili, accudito dalla madre e dai nonni paterni, allevato e allenato dallo zio Umbertino, un uomo irruente, eccessivo ma di una umanità profondissima. Per il nipote vuole il titolo che lui stesso ha sfiorato e il padre di Davidù non ha raggiunto perché morto troppo presto. In questo romanzo di formazione, crescita e caduta, il pugilato è metafora della vita e i pugni, dati e ricevuti, fanno sempre male e scrivono cinquant'anni di storia: dalla guerra in Africa combattuta da nonno Rosario alle bombe che sventrano la città durante la seconda guerra mondiale, fino a quelle delle stragi mafiose del '92 che ne cambiano il volto per sempre. Come se a Palermo, sporca feroce bellissima, il tempo fosse immobile e le sirene - della polizia o degli attacchi aerei - l'unica colonna sonora possibile. Dentro la Storia scivolano le storie dei tanti che formano il mondo affettivo di Davidù: il gigantesco Umbertino e la sua spalla il Maestro Franco, giovani spavaldi e orgogliosi degli anni Cinquanta; la nonna Provvidenza, portatrice di un senso civico fatto di saggezza antica; il taciturno nonno Rosario e il suo segreto risalente alla prigionia africana. E poi i coetanei che formano l'esperienza e la crescita: Nina, l'amore infinito; Gerruso il goffo, l'amicizia; i tanti ragazzi di strada e i loro codici brutali. Fino alla scena dell'ultimo incontro di boxe, che chiude il quadro di una città e di una formazione. Così in terra, pubblicato per la prima volta nel 2012, è un racconto epico e corale, dalla costruzione complessa e insieme leggera come la danza del pugile sul ring, capace di muovere al sorriso così come al pianto, alternando comico e tragico, crudo realismo e tenerezza, in una scrittura di vetro, dolce, tagliente e carnale.
Una moglie infedele, un giovane amante, un marito ignaro. Sembrerebbe il solito ritornello dell'amore inquieto. Eppure, con questi elementi apparentemente banali, Stefan Zweig riesce non soltanto a fornirci un preciso quadro d'epoca in cui la fine analisi psicologica dei personaggi costituisce un elemento essenziale, ma ci dà anche un saggio di quella che è la sua qualità migliore: la capacità tutta moderna di costruire storie imprevedibili e di grande tensione narrativa. Quasi anticipando il thriller dei nostri giorni, l'autore dispiega una trama incalzante che preme sul lettore e lo coinvolge emotivamente, pagina dopo pagina, e ogni pagina ha il suo peso e la sua funzione, fino al colpo di scena finale che svela il mistero dei protagonisti e illumina in virtù dei semplici meccanismi narrativi del racconto, il senso delle loro passioni e dei loro conflitti spirituali.
«Lei è stata la dismisura in tutto, ma la vita è anche mancare qualcosa, non riuscire in qualcosa, non colmare la misura fino all'orlo». Annalena Tonelli, capelli al vento, sfreccia in bicicletta all'alba per le strade di Forlì: corre dai bisognosi, dagli ultimi. Lo farà per tutta la vita. Fino a fondare una missione in Africa, a rinunciare a tutto, fino a venire uccisa perché donna, bianca, senza un uomo a fianco, e senza paura. Annalena Benini la conosce da sempre questa storia, fa parte della sua famiglia. Ma adesso qualcosa è successo e quel nome identico al suo la insegue come una domanda, come un pungolo: può arrivare a capire tutto di quella donna così estrema, libera, coraggiosa? C'è un mistero che resta. Un viaggio personalissimo e profondo dentro il cuore della forza femminile, tra dedizione e potere, grandezza e senso del limite, talento e vocazione. Due donne con lo stesso nome, due vite lontanissime. Annalena Tonelli aspira all'assoluto, Annalena Benini davanti all'assoluto vacilla. Come tutti noi. Ma con sguardo disincantato, estremamente contemporaneo, si confronta con quella figura magnetica e schiva che incarna la fragilità e la potenza di tutte le donne, e che di continuo le dice: e tu? Da una polmonite anche un po' comica fino alla scelta più estrema: in entrambi i casi si tratta di scosse. Annalena Tonelli è una ragazza degli anni Sessanta col futuro in mano: bella, il pensiero affilato e veloce, la prima fra gli amici a ballare il twist, borse di studio a Boston e New York, poi la laurea in Giurisprudenza. Ma a diciannove anni ha già incontrato la sua vocazione, «perché non è possibile amare i poveri, senza desiderare di essere come loro». Così allena il suo corpo a dormire quattro ore per notte, a vivere di pochissimo, elimina per sempre la vanità dalla sua vita. Non vuole che nessuno si innamori di lei, perché lei arde già di amore per gli ultimi della Terra. E questo sentimento bruciante la spinge lontano da Forlì, a coltivare il fiore dell'umanità nei deserti più aridi. Illuminata dall'amore per Dio e dall'umanesimo di Simone Weil, Etty Hillesum, Virginia Woolf: esprime il massimo della libertà nel massimo dell'umiltà. Annalena Tonelli ha esercitato, con la vita e con gli scritti, un pensiero altissimo e dirompente, con il quale Annalena Benini si confronta e si scontra. Questo libro è un viaggio moderno e accidentato, ricco di domande e confessioni, nel tentativo di guardare, dal basso, con piena coscienza dei propri limiti, e non senza autoironia, la scala che sale fino all'assoluto. Arrivando alla scoperta entusiasmante e complessa che il pensiero più libero e coraggioso del Novecento è un pensiero femminile.