"Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo." La celebre frase di José Ortega y Gasset, posta da Edgar Morin a epigrafe di questo pamphlet, vale a maggior ragione per il nostro tempo. La nostra miopia nella comprensione del presente dipende da una crisi del pensiero? O da una sorta di sonnambulismo generalizzato? In questo nuovo saggio, il grande filosofo francese sottolinea la necessità di trovare una bussola per orientarsi nell'oceano dell'incertezza in cui siamo dispersi. Una bussola che ci aiuti a comprendere la storia che stiamo vivendo, dalla marea di estrema destra dilagante in Europa alla crisi economica, fino al degrado ambientale del nostro pianeta. Grazie alle riflessioni del filosofo planetario, incalzati dalle sue domande possiamo tentare di comprendere come il mondo si sta trasformando e accogliere la sfida senza precedenti che siamo chiamati ad affrontare. Dunque... svegliamoci!
La nostra cultura procede senza scrupoli alla colonizzazione spietata del mondo animale, producendo quella mentalità che fa ricorso, senza perplessità, alla vivisezione, alla caccia di tipo industriale, alla soppressione degli animali nocivi, degli insetti molesti e di quanto altro si frappone alla marcia dell'uomo verso il progresso e il benessere. Cosa è rimasto dell'universo simbolico che tanta parte ebbe nella cultura medievale? Che resta della grande metafora che rappresentava il mondo animale per gli antichi? L'animale, con la sua misura, si riavvicina all'uomo disintossicato dalla presunzione d'essere unica misura di tutte le cose, come messaggero d'una dimensione diversa da quella della legge scientifica e della convenzione quotidiana. Fuori della storia, della scienza, da ogni altra logica che ha avvilito l'uomo e l'ordine naturale, l'animale, come dicevamo, si ripresenta come il messaggero, se non di un cielo perduto, almeno d'un accordo con il mondo e con la vita, d'una salvezza possibile. Sulla scia degli antichi bestiari, Carlo Lapucci va alla ricerca delle tracce della tradizione popolare e ci propone un catalogo in cui l'animale riemerge quale interlocutore dell'uomo che lo riscopre come compagno nel viaggio della vita.
Ai tanti disegnatori, illustratori, fumettisti che l'hanno sostenuta in questi anni, Emergency ha chiesto di creare una tavola originale sul tema «Grazie Gino, continuiamo noi». La risposta è stata pronta, generosa, commovente: le 24 tavole presenti in questa raccolta sono frutto dello slancio di questi grandissimi autori, un'interpretazione libera sul tema e un inno alla ricchezza della diversità nel nome di valori comuni. Il volume raccoglie le tavole di: Giacomo Bevilacqua e Zerocalcare, Mauro Biani, Paolo Campana - Ottokin, Cecilia Campironi, Alberto Casagrande, Stefano Disegni, Camilla Falsini, Anna Formilan, Marta Gerardi, Riccardo Guasco, Gud, Roberto Hikimi Blefari, LAIKA 1954, Fabio Magnasciutti, Makkox, Gli scarabocchi di Maicol & Mirco, Manuela Marazzi, Stefano S3Keno Piccoli, Er Pinto, Francesco Poroli, Giulia Rosa, Mattia Surroz e Lorenzo Terranera.
Coltivare la terra, prendersi cura di creature viventi, stare all'aria aperta, fare un lavoro manuale, ascoltare i ritmi delle stagioni, comprendere le esigenze profonde di un fiore: gesti che ci fanno sentire bene e ci aiutano a capire meglio il nostro percorso. Sagge e silenziose compagne di viaggio, le piante hanno molte cose da insegnarci. Un manuale di vita, ricco di suggestioni e consigli di Gian Lupo Osti su come ritrovare il piacere di immergersi nella natura e rimettersi in contatto con la nostra parte più autentica. «Definisco il mio giardino, per nobilitarlo culturalmente, arcadico, ma alcuni amici dicono che da me ogni pianta è lasciata a se stessa: fa quel che vuole. Se devo definire in modo semplice il mio giardino ideale direi che questo ha come modello una radura piena di fiori in un bosco: si esce al sole dalla selva oscura e la suggestione un po' tenebrosa della foresta viene spazzata via dall'esplosione della luce, dei colori, dalla bellezza. Lo scopo del mio giardino è di riunirmi, di immergermi nella Natura».
Privati, penetranti, opachi. Grandi imprese, associazioni professionali, burocrazie, gruppi finanziari occupano posizioni strategicamente importanti dove si decidono le nuove regole per il mondo globalizzato. Oggi il potere è un gioco complesso, a più voci, sempre meno decifrabile, stabile e riconoscibile. Anche se il conflitto scatenato in Ucraina ci ha presentato il suo volto più primitivo e violento, non possiamo ignorare le grandi metamorfosi che hanno profondamente trasformato il potere e i suoi scenari negli ultimi decenni. Abbandonate le severe vesti del government, più verticale e decifrabile, a favore di quelle della governance, più orizzontale e diffusa, il potere ha assunto nuove facce, diventando di volta in volta nazionale, internazionale, pubblico, privato, hard, soft, smart, poco visibile, indiretto. Numerosi nuovi attori, non solo poteri finanziari ed economici, ma anche tecnologici e padroni dell'intelligenza artificiale, muovendosi disinvoltamente tra politica ed economia, forgiano le nuove fondamenta del nostro mondo.
«Non ho mai guardato agli eventi dal punto di vista dei governi, sempre con gli occhi dei più umili, di chi ne paga il prezzo in prima persona.» Davanti alle tragedie collettive degli ultimi mesi Michele Santoro sente il bisogno di lanciare un grido d'allarme contro l'orrore che ci lascia ormai indifferenti. In questa sconvolgente e appassionata denuncia non fa sconti e sottopone a una feroce critica tutte le grandi contraddizioni che ci hanno condotto sull'orlo del baratro: una democrazia bloccata da una politica inconcludente e impreparata, che non vede alternative se non affidarsi a tecnici e cavalieri salvifici; la parabola del populismo che ha mostrato tutti i suoi limiti nella disfatta del Movimento 5 Stelle, che pure era emerso come forza dirompente in grado di smuovere le acque di una politica insensibile ai problemi dei cittadini; un'informazione ormai megafono della propaganda, da cui è bandito non solo il dissenso ma qualsiasi interrogativo, e che si riduce a inseguire e ingigantire questioni pretestuose, senza incidere sulle sorti del paese. Un j'accuse che chiama in causa tutti, per ridare un senso alla parola «democrazia» ripartendo dalle domande giuste.
Quando, dopo la morte di Cioran, furono ritrovati i trentaquattro taccuini che per quindici anni aveva riempito con le annotazioni più disparate, si rimase sbalorditi di fronte a quell'imponente giacimento, raccolto poi in un libro, Quaderni, che leggiamo oggi come uno dei vertici della sua opera. A quel libro possiamo ora affiancare - e sarà come integrare in un mosaico numerose tessere mancanti - questa raccolta di frammenti rinvenuti nella Bibliothèque Doucet di Parigi. Risalgono alla metà degli anni Quaranta, e sono le ultime pagine che Cioran scrisse in romeno, quando già da sette anni si trovava a «muffire gloriosamente nel Quartiere Latino». E anche qui, tra schegge sulfuree, sentenze fulminanti, spietate dissezioni del proprio intimo, ci aggireremo nelle stanze più segrete di un pensiero in perpetua ebollizione - capace come sempre di trafiggere, con un colpo secco e preciso, tutto ciò che lo circonda: «L'imbecille basa la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, la finestra sul Nulla».
La parola tende il filo ininterrotto del tempo che tiene insieme la memoria dei padri e il destino dei figli. Creatura e creatrice, la parola custodisce e rivela l'assoluto che siamo. Stupenda e tremenda, potente e fragile, gloriosa e infame, benedetta e maledetta, simbolica e diabolica, la parola è pharmakon, «medicina» e «veleno»: comunica e isola, consola e affanna, salva e uccide; edifica e distrugge le città, fa cessare e scoppiare le guerre, assolve e condanna innocenti e colpevoli. Per i classici è icona dell'anima, sede del pensiero, segno distintivo dell'uomo; per la sapienza biblica inaugura la creazione e fonda lo «scandalo» cristiano dell'incarnazione. Che ne è oggi della parola? Ridotta a chiacchiera, barattata come merce qualunque, preda dell'ignoranza e dell'ipocrisia, essa ci chiede di abbassare il volume, imboccare la strada del rigore, ricongiungersi alla cosa. Agostino direbbe che «noi blateriamo ma siamo muti». Costruttori di una quotidiana Babele e sempre più votati all'incomprensione reciproca, avvertiamo il bisogno di un'ecologia linguistica che restituisca alla parola il potere di svelare la verità. A noi il duplice compito: richiamare dall'esilio le parole dei padri e creare parole per nominare il novum del nostro tempo.
Perché l'Occidente ha smarrito gli strumenti concettuali per pensare la pace e non riesce a definirla se non riducendola a un generico rifiuto delle armi o a una mera assenza di guerra? Sergio Cotta, tra i maggiori filosofi del diritto del nostro Paese, pone all'origine di questo fenomeno le teorie che, da Eraclito a Hobbes e a buona parte del pensiero contemporaneo, vedono nel conflitto l'elemento costitutivo di una visione antropologica negativa e come appiattita sulla prospettiva del fare creare distruggere. Per capire la natura della pace occorre guardare a un'altra linea di pensiero che, da Platone ad Agostino, da Leibniz a Husserl e Lévinas, invita a conoscere se stessi, alla ricerca della verità, all'incontro con l'altro. Se l'essenza originaria e universale dell'umano è relazionale, comunicativa, solidale, accogliente, allora la pace è il suo dato primario e la guerra è solo una condizione "parassita", una trasgressione rispetto alla verità della coesistenza civile.
Guardando alla storia, la pace sembra essere solo un intervallo tra un conflitto e l'altro. Perché sorprendersi, allora, quando scoppia una guerra? Non siamo più abituati a formulare un pensiero della guerra, che da un lato deve essere ragionata per mettere in campo delle strategie che le consentano di raggiungere il suo scopo, la vittoria. Dall'altro, come ogni atto umano, la guerra comunica un senso che chiede di essere compreso, un senso ogni volta particolare, ma anche generale, che si collega al destino dell'umanità che vi è coinvolta. Questo libro, nato dalle lezioni tenute da Guitton alla Scuola di guerra del Ministero della Difesa francese a partire dal 1952, aiuta a capire la logica intrinseca dello scontro armato, indagato a partire dalle sue origini. Se Guitton ha pensato la guerra, lo ha fatto non soltanto perché la conosceva bene per esperienza personale, ma perché riteneva che l'intelligenza di un cristiano dovesse applicarsi anche a essa.
Il primo Atlante è il titolo di una poesia del 1980 dove Primo Levi gioca con i nomi, le forme e i colori delle tavole geografiche che lo hanno fatto sognare da ragazzo. Ma è anche una profezia e una definizione: il decennale, minuzioso lavoro di raccolta dei suoi testi, che qui vede compimento, è stato una lunga avventura di esplorazione in territori immensi, finora cartografati solo in parte.