Cosa significa essere donna? Non alzare la voce, non ribellarsi. Obbedire al padre, al marito, alla società. Significa calma e sottomissione. Dover essere una brava bambina, poi una brava moglie e una brava madre. Eppure per qualcuna tutto questo non basta. Attraverso otto storie che spaziano dal mito alla contemporaneità, gli autori raccontano l'altra faccia della luna: e cioè come fin dagli albori dell'umanità, in saghe, leggende ed epopee letterarie, i modelli di donne forti sono sempre stati ridotti al silenzio. Ma dal nuovo racconto delle storie di Era, Medea, Daenerys, Morgana e le altre, se ci si pongono le domande giuste, possono risultare modi diversi di vivere se stesse e la propria femminilità, di leggere i meccanismi che circondano e intrappolano. Con la guida della filosofia, che ci aiuta a domandarci il significato delle cose e ci indica un comportamento nel mondo, questi ritratti femminili insegnano come trasformare le gabbie in chiavi e volgere le difficoltà in opportunità. Solo così ci si potrà finalmente permettere di esistere, e non aver paura di fiorire. Fare filosofia aiuta a piazzare punti interrogativi alla fine delle parole, come fossero esplosivi. Non più "donna", ma "donna?", non più "si fa così", ma "si fa così?". Non più "è sempre stato così", ma "è sempre stato così?". In questo modo ogni preconcetto esplode, e si aprono passaggi segreti impensabili e altrimenti invisibili.
A Prijedor, in Bosnia Erzegovina, in quella che oggi si chiama Repubblica serba di Bosnia (Rs), nella primavera-estate del 1992 succedono cose spaventose. Sembra d'essere tornati ai tempi del nazismo. Gli ultranazionalisti serbo-bosniaci vogliono sradicare i "non serbi" attraverso due strumenti: deportazione e omicidio. Vengono creati per quest'ultimo scopo tre campi di concentramento. Che ben presto diventano luoghi di uccisione di massa. Nomi tremendi: Omarska. Keraterm. Trnopolje. In quest'ultimo luogo - composto da una scuola, una casa del popolo e un prato - vengono recluse tra le quattromila e le settemila persone. È a Trnopolje, nel maggio del 1992, che è ambientata la storia raccontata da questo libro. Una storia di fantasia, ma poggiata su solide basi storiche e di testimonianza. Un libro che non è solo un romanzo ma anche un reportage di quanto accaduto troppi pochi anni fa e troppo vicino a noi, per non sapere. Prefazione di Riccardo Noury.
Con questo romanzo inizia il futuro di Jole e Sergio, figli di Augusto e Agnese De Boer, coltivatori di tabacco a Nevada, in Val Brenta. Vent'anni lei, dodici lui, dopo tante vicissitudini i due fratelli sono pronti ad affrontare la più grande delle sfide: lasciare la propria terra, che nulla ha più da offrire, per raggiungere il Nuovo mondo. Un'avventura epica che ha in sé l'incanto e il terrore di tante prime volte: per la prima volta salgono sul treno che li porterà fino a Genova dove, vissuti da sempre tra i profili aspri delle montagne, vedranno il mare - immenso, spaventoso eppure familiare, amico, emblema di vita e speranza. Per la prima volta la Jole e Sergio sono soli di fronte al destino e lei sa che - presto o tardi - dovrà raccontare al fratello la sorte tragica toccata ai genitori. Nella traversata che dura più di un mese, stesa su una brandina maleodorante, mentre la difterite dilaga a bordo e i cadaveri vengono gettati tra i flutti, la Jole sente ardere in sé la fiamma della speranza, alimentata dalla bellezza sconosciuta del mare e da un soffio di vento che di tanto in tanto torna a visitarla, e in cui lei è certa di riconoscere l'Anima della Frontiera, il respiro universale che il padre Augusto le ha insegnato a riconoscere. Con la forza d'animo e la grazia che conosciamo, la Jole, con i boschi e le montagne di casa sempre nella mente e nel cuore, affronta esperienze estreme che la conducono, pur così giovane, a fare i conti con temi cruciali e di bruciante attualità - il senso di colpa di chi è costretto ad abbandonare la propria terra, il rapporto tra nostalgia e identità, l'importanza di coltivare pazienza e speranza per inventarsi il futuro e continuare a vivere. Si conclude con questo romanzo la "Trilogia della Patria", la saga della famiglia De Boer.
Chi è Max Fox? Chi è il trentenne ex allievo carabiniere, provinciale ambizioso nell'Italia berlusconiana, che strizza l'occhio all'idolo cinematografico della sua adolescenza - al Bud Fox arrampicatore di borsa in Wall Street - quando deve scegliere un contatto Skype per presentarsi nel mondo del terzo millennio? E perché questo figlio unico di due ligi funzionari comunisti somiglia piuttosto a un (dubbio) eroe ottocentesco, al Julien Sorel di Stendhal? Perché il suo sogno di «arrivare» lo rende disponibile a qualunque compromesso, con la destra o con la sinistra, con i chierici o con i laici, con la verità o con la menzogna, con gli onesti o con i disonesti? È quanto si domanda Sergio Luzzatto, lo storico che proprio su Skype accetta di intrecciare con Max Fox - con l'eroe ormai caduto - una sorprendente liaison dangereuse. Pericolosa, così come pericolose si sono rivelate, nel tempo, un po' tutte le relazioni di Massimo De Caro. Il pigro studente universitario che diventa, da giovanissimo, il portaborse di un senatore dell'Ulivo. Lo spavaldo mercante di libri che mette le mani su inestimabili tesori della Biblioteca Apostolica. L'astuto falsario che si fa beffe degli accademici del mondo intero fabbricando dal nulla, con lo scanner, un'opera di Galileo meravigliosamente unica nel suo genere. Il manager non laureato che fa carriera, nel settore delle energie rinnovabili, per conto di un elusivo oligarca russo. Il predatore di libri antichi che svaligia pubbliche biblioteche, ai quattro angoli del Belpaese. Ma ad attirare Luzzatto verso la relazione pericolosa non sono unicamente le varie, sconcertanti incarnazioni di un fenomenale Zelig del nostro tempo. Ad attirarlo è anche l'ombra dispettosa che qualunque storia del presente finisce per gettare sulla storia del passato, è la vertigine che lo storico prova quando si misura con il lato oscuro del suo mestiere.
Bellissime, anticonformiste, spregiudicate, le donne di spade di questo romanzo di Cinzia Tani - secondo volume di una trilogia dedicata agli Asburgo - conquistano la scena muovendosi tra le maglie di un secolo, il Cinquecento, che sembra consacrato unicamente alla glorificazione di cavalieri, principi e sovrani. Maddalena, Flora, Agnes, Dorotea: in modo diverso, ciascuna si renderà protagonista della sua vita rivendicando fino alle estreme conseguenze il diritto alla propria libertà, in una vertiginosa oscillazione fra temerarietà e calcolo, orgoglio e ipocrisia, bisogno di amare e sentirsi amate e cieco desiderio di riscatto. Un discorso a parte merita Ana de Mendoza, l'imperscrutabile rampolla di un'influente famiglia spagnola, il cui mistero pare racchiuso nella benda nera che porta sull'occhio. Tanto abile a tirare di scherma quanto a tessere intrighi a corte, la sfuggente Ana ha gettato attorno a sé un potente incantesimo capace di soggiogare lo stesso re. Cinzia Tani ci introduce nelle grandi corti d'Europa del XVI secolo, e lo fa svelandoci i meccanismi del potere politico, proprio mentre la storia si appresta a celebrare il tramonto di Carlo V, l'imperatore del Sacro Romano Impero, e si fa teatro di una cruenta guerra di religione sotto la spinta di Filippo II, determinato a difendere a oltranza il cattolicesimo contro gli eretici e gli infedeli. Intanto i fratelli Acevedo, Gabriel, Manuela e Sofia, le cui vite hanno preso direzioni molto diverse, a distanza di anni dall'omicidio dei genitori sono ancora in attesa di sapere la verità. Raimunda, la governante che ha assistito al delitto, ormai anziana, è finalmente pronta a rivelare tutto ciò che è accaduto quella notte.
"Non ti ho mai conosciuto davvero, padre. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Hai carne di vento, pelle di nebbia. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte al giorno." Siamo su una montagna ostile, fa molto freddo. Giona non ha ricordi. Ha poco più di quattordici anni e vive in un villaggio aspro e desolato insieme al nonno Alvise. Il vecchio, spietato e rigoroso, è l'uomo che domina il paese e impone al ragazzo compiti apparentemente assurdi e punizioni mortificanti. In possesso unicamente di un logoro maglione rosso, Giona esegue con angosciata meticolosità gli ordini del vecchio, sempre gli stessi gesti, fino a quando, un giorno, non riesce a scappare. La fuga si rivelerà per lui un'inesorabile caduta agli inferi, inframmezzata da ricordi della sua famiglia, che sembrano appartenere a una vita precedente, e da apparizioni stravolte. In un clima di allucinata sospensione temporale, il paese è in procinto di crollare su se stesso e la terra sembra sprofondare pian piano sotto i piedi del ragazzo. La verità è quella che appare? Solo un decisivo cambio di passo consentirà al lettore di raggiungere la svolta finale e comprendere davvero che cos'è l'inverno di Giona. Filippo Tapparelli, qui al suo esordio letterario, ha scritto un giallo onirico lontano da virtuosismi stilistici e intriso di atmosfere di perturbante ambiguità, descritte con potenza evocativa.
«La vita è più forte della salvezza stessa, non ne sente affatto il bisogno, la reclama solo a parole.». Tutti i cuori sono fanatici. Quelli che ci racconta Edoardo Albinati hanno tra i venti e i trent'anni, e sono posseduti da una smania inesauribile: di capire, di essere se stessi eppure diversi, di proteggersi e bruciare. Vogliono poter desiderare senza limiti. Intorno all'amicizia tra Nanni e Nico - il nucleo centrale del romanzo - si ramificano le vicende di una folla di personaggi: studenti pigri, bambine insonni, nonne dispotiche, supplenti dalle trecce bionde, maghi e terroristi, ragazze alla pari e dj. A legarli sono sempre le parole, usate per sedurre e punire: "Cuori fanatici" è dunque un talk novel, romanzo di parole lanciate addosso e strappate di nascosto, di ragionamenti sofisticati o brutali, di chiacchierate assurde e litigi sussurrati. Albinati inaugura una nuova saga dove la posta in gioco sono le profondità oscure delle vite di ognuno di noi e le superfici scintillanti dei rapporti con cui si intrecciano. È la forza della letteratura a rendere conto dello slancio dei suoi cuori fanatici e a guidarli nel labirinto dove possono perdersi o salvarsi, e che ciascuno guardandosi allo specchio chiama: la mia vita.
Ai giardini ci sono solo loro due. Si fronteggiano da due panchine distanti. Poi la bambina si alza, e si muove decisa verso il ragazzino. "Ciao. Sono Alida". Le città della pianura padana, in estate, quando l'afa invade le strade deserte, hanno qualcosa di allucinato, immobili come sono sotto il loro cielo ingannevole. Silenziose, con quell'eco lontana di campagna che nessuno più riconosce. Desolate e vuote, salvo i pochi abitanti rimasti per forza: chi non è potuto partire, qualche anziano, le donne straniere che se ne prendono cura e certi ragazzini sperduti nella loro solitudine infantile. Come Giacomo, arrivato ai giardini a bordo della sua inseparabile bicicletta rossa. E come Alida, in compagnia dell'immancabile cellulare. Lui scappa da un funerale, quello del nonno terribile che nessuno amava e che ora tutti compiangono. Lei fugge dalle ossessioni di una madre che vorrebbe controllarle anche il respiro perché non subisca le sue stesse ferite del corpo e dell'anima. Lui è convinto di essere un assassino. Lei di essere la responsabile dell'infelicità materna. E con quella sintonia istintiva e naturale, che solo i bambini sono capaci di provare, decidono di andarsene insieme. La loro scomparsa, e la disperata ricerca che subito inizia, costringerà la famiglia di Giacomo e la madre di Alida a fare i conti con i fantasmi del loro passato, con le loro colpe e i loro errori. Li costringerà a essere adulti.
L'isola di Sant'Elena sarà davanti a lui all'alba. Napoleone si ritira presto nella sua cabina la sera del 14 ottobre 1815. Un'ultima notte a bordo, dopo mesi di navigazione. A visitarlo, forse nel sonno forse no, è una bella clandestina: forse Eugénie, l'eroina del suo romanzo giovanile rimasto chiuso in un cassetto. Poi arriva la madre, e altri spettri che incarnano la memoria dei grandi eventi attraversati dall'imperatore in esilio. Un uomo che non si è ancora arreso e che ancora pretende di poter mutare il corso degli eventi, mentre la Northumberland si perde in un banco di nebbia. Un romanzo storico e visionario, che umanizza un grande offrendogli uno scorcio di altra vita possibile.
Poche righe, immagini, quasi istantanee. Marina Corradi racconta così una famiglia, la sua, la cui storia si dipana dall'inizio del Novecento a oggi. Una cronaca di eredità e memorie tramandate o perdute, in cui chi legge potrà forse riconoscersi. Come anelli di una catena ci perpetuiamo nei figli, e i padri si allontanano nell'oblio. La nostra storia scorre, breve. Solo voltandoci indietro ci pare di scorgere, dai padri ai figli, un filo: a volte doloroso, a volte imprevedibile. Ma, in fondo, misericordioso. Perché nascono e crescono, dopo guerre, povertà, dopo tutte le passioni e gli errori dei padri, i figli dei figli.
In un'Italia ribaltata - eppure estremamente familiare -, le complicazioni del pensiero e della parola sono diventate segno di corruzione e malafede, un trucco delle élite per ingannare il popolo, il quale, in mancanza di qualcosa in cui sperare, si dà a scoppi di rabbia e applausi liberatori, insulti via web e bastonate, in un'ininterrotta caccia alle streghe: i clandestini per cominciare, poi i rom, quindi i raccomandati e gli omosessuali. Adesso tocca agli intellettuali. Il primo a cadere, linciato sul pianerottolo di casa, è il professor Prospero, colpevole di aver citato Spinoza in un talk show, peraltro subito rimbrottato dal conduttore: "Questo è uno show per famiglie, e chi di giorno si spacca la schiena ha il diritto di rilassarsi e di non sentirsi inferiore". Cogliendo l'occasione dell'omicidio dell'accademico, il ministro degli Interni istituisce il Registro Nazionale degli Intellettuali e dei Radical Chic per censire coloro che "si ostinano a credersi più intelligenti degli altri". La scusa è proteggerli, ma molti non ci cascano e, per non essere schedati, si affrettano a svuotare le librerie e far sparire dagli armadi i prediletti maglioni di cachemire... Intanto Olivia, la figlia del professore, che da anni vive a Londra, rientrando per il funerale, trova un paese incomprensibile. In un crescendo paradossale e grottesco, Olivia indaga le cause che hanno portato all'assassinio del padre. Attraverso i suoi occhi, facendo scattare come una tagliola il meccanismo del più affilato straniamento letterario, Giacomo Papi ci costringe a vedere, più che il futuro prossimo, il nostro sobbollente presente.
Pare che l’espressione “piantare in asso” si debba a Teseo che, una volta uscito dal labirinto grazie all’aiuto di Arianna, anziché riportarla con sé da Creta ad Atene, la lascia sull’isola di Naxos. In Naxos: in asso, appunto. Proprio sull’isola di Naxos, l’inquieta e misteriosa protagonista di questo romanzo sente all’improvviso l’urgenza di tornare. È lì che, dieci anni prima, in quella che doveva essere una vacanza, è stata brutalmente abbandonata da Stefano, il suo primo, disperato amore e sempre lì ha conosciuto Di, un uomo capace di metterla a contatto con parti di sé che non conosceva e con la sfida più estrema per una persona come lei, quella di rinunciare alla fuga. E restare. Ma come fa una straordinaria possibilità a rivelarsi un pericolo? E come fa un trauma a trasformarsi in un alibi? Che cosa è davvero finito, che cosa è cominciato su quell’isola? Solo adesso lei riesce a chiederselo, perché è appena diventata madre, tutto dentro di sé si è allo stesso tempo saldato e infragilito, e deve fare i conti con il padre di suo figlio e con la loro difficoltà a considerarsi una famiglia. Anche se non lo vorrebbe, così, è finalmente pronta per incontrare di nuovo tutto quello che si era abituata a dimenticare, a cominciare dal suo nome, dalla sua identità più profonda… Dialogando in modo esplicito e implicito con il mito sull’abbandono più famoso della storia dell’umanità e con i fumetti per bambini con cui la protagonista interpreta la realtà, Chiara Gamberale ci mette a tu per tu con il miracolo e con la violenza della vita, quando ci strappa dalle mani l’illusione di poterla controllare, perché qualcosa finisce, qualcuno muore o perché qualcosa comincia, qualcuno nasce. E ci consegna così un romanzo appassionato sulla responsabilità delle nostre scelte e sull’inesorabilità del destino, sui figli che avremmo potuto avere, su quelli che abbiamo avuto, che non avremo mai. Sulle occasioni perse e quelle che, magari senza accorgercene, abbiamo colto.