Quanto somiglia Cabras, Sardegna, paese natale di Michela Murgia, ad Avalon, Britannia, luogo mitico di Re Artù e della spada nella roccia? Se Morgana, Igraine e Viviana, le "Signore del Lago", hanno il potere di sollevare le nebbie con le parole e influenzare le vite dei cavalieri della Tavola Rotonda, Michela Murgia, nata in mezzo alle acque di Cabras, ha il potere di sollevare le nebbie intorno alle storie e alle idee che ci circondano, raccontandoci la versione delle donne, nel solco ideale di Ave Mary. In un viaggio che comincia in mezzo al mare e in mezzo al mare ritorna, una delle maggiori scrittrici italiane racconta come e perché è diventata femminista, come e perché ha cominciato a temere le gerarchie religiose, come e perché non ha mai smesso di giocare di ruolo nel mondo magico di Lot, come e perché certi libri che ci hanno fatto crescere, in effetti, li abbiamo mangiati più che letti, e soprattutto come e perché creare ogni giorno il mondo che ci circonda è un gesto politico.
Dalle coltivazioni della Terra dei fuochi alle fabbriche di Pomigliano, dai merluzzi di Somma Vesuviana alle strade della periferia di Ercolano, fino alla nuova Pompei nata duemila anni dopo l'eruzione del 79 d. C.: Il Vesuvio universale è il ritratto di una terra di prepotente bellezza, che brulica di vita e non ha intenzione di arrendersi, nemmeno alla minaccia del vulcano che la sovrasta.
“Gli abitanti del Vesuvio sono abituati a tenere conto di una vita sotterranea ricca e piena di sorprese, indipendente dalla loro volontà, estranea all'universo concettuale umano, a sentirsi frantumi di lapilli, volute di fumo, impercettibili grumi di tempo nella vertigine millenaria in cui affonda l'esistenza del vulcano”.
Nel 79 d. C. Ercolano e Pompei furono distrutte dall'esplosione improvvisa e devastante del Vesuvio. Investiti dalla lava, pietrificati in un'eterna fuga fallita, i corpi di Pompei attraggono ogni anno migliaia di turisti. L'ultima eruzione del vulcano è stata nel 1944. Oggi il Vesuvio è inerte, e la sua calma apparente, replicata all'infinito sullo sfondo delle foto scattate da Posillipo. Ma se con l'obiettivo si ingrandisse al massimo quella montagna di fuoco, più che le rocce laviche e la cenere, sarebbero nitide le case, le strade, le macchine, le persone, ammassate in paesi più o meno piccoli, abbarbicati sui suoi fianchi. Alle pendici del Vesuvio si sviluppa, infatti, non una città, non una periferia, ma una conurbazione, un territorio con decine e decine di centri abitati che ha una densità di popolazione più alta di quella di Milano e Roma. Da sempre qui, immemori - o noncuranti - del pericolo, gli uomini hanno tenacemente coltivato, proliferato, costruito, distrutto, inquinato, pregato. Chi vive nei paesi vesuviani sembra davvero convinto che il vulcano non si risveglierà mai più. «Sarebbe fuorviante e frustrante cercare spiegazioni solo nell'ostinazione pervicace e incosciente», dice Maria Pace Ottieri che per capire quella terra è andata ad ascoltare le voci e le storie di chi ci vive. E allora c'è la famiglia Fortunio, che a Somma Vesuviana ha costruito un impero sul pesce dei lontani mari del Nord; c'è Tonino 'O Stocco, che costruisce e suona tammorre che accompagnano i canti e i balli popolari; c'è Lucio Zurlo, che insegna boxe nella sua palestra in un quartiere difficile di Torre Annunziata; ci sono le voci di Radio Siani con il loro impegno per la legalità; ci sono i morti ammazzati, dal lavoro, dal terremoto, dalla povertà, o da chi nessuno osa accusare. In un'instancabile “quête” tra passato e presente, tra i fasti antichi delle ville romane e i roghi tossici della Terra dei fuochi, tra ricordi leopardiani e interi quartieri abusivi, al ritmo delle traballanti corse della Circumvesuviana, Maria Pace Ottieri intraprende un viaggio alla scoperta delle tante esistenze che resistono in bilico sul cratere.
Come ogni estate, Luca Rollin arriva in Val d'Aosta per trascorrere le vacanze nella casa di famiglia. Il suo ultimo libro, pubblicato da poche settimane, è in vetta alle classifiche e lo scrittore è pronto per godersi il meritato riposo tra le montagne che adora. Sono in molti a riconoscerlo e a fargli i complimenti. Ma una sottile crepa comincia a incrinare la superficie apparentemente perfetta del successo. Luca comprende di essere ammirato perché ormai fa parte della nebulosa dei famosi, mentre le parole dei suoi libri contano ben poco. Tale consapevolezza trasforma quella che per Luca doveva essere una vacanza paradisiaca in una spietata resa dei conti con se stesso, come intellettuale e come padre. Suo figlio Francesco, infatti, in piena adolescenza, conduce un'indagine privata sulla morte di un camoscio, accusando di vigliaccheria chiunque non condivida la sua sete di giustizia animalista. Quando un gruppo di scalatori dilettanti, fra cui una famosa violinista, scompare sul Pillier Jaune, la montagna maledetta della zona, Luca viene contattato da una testata nazionale perché segua i soccorsi e scriva per primo una testimonianza. Ha l'occasione di usare la celebrità per dire al grande pubblico qualcosa di importante e profondo, all'altezza delle montagne che lo circondano e del loro rigore solenne, che non fa sconti. Luca saprà cogliere questa opportunità? E saprà diventare il padre che vorrebbe essere?
Un libro particolare, un romanzo nutrito di autobiografia, che diventa anche biografia di una generazione. Una narrazione composita, fatta di brani di esistenza, ricordi, che ci portano gradualmente al cuore nero della storia, Auschwitz. «Lezioni di tenebra» racconta il rapporto tra la giovane autrice e la madre, l'unica di due famiglie numerose a essere sopravvissuta all'Olocausto, insieme al padre. Ebrei polacchi, vissuti in Germania, dove la figlia Helena è cresciuta sentendosi completamente estranea al mondo tedesco e alla sua cultura, pur usandone la lingua anche nel suo esordio in poesia. Romanzo sull'eterno tema dell'amore difficile tra madre e figlia, che non è soltanto una memoria sull'Olocausto, ma un resoconto lucido, appassionato e distaccato al tempo stesso, che punta soprattutto a misurare l'intensità del contraccolpo che quella tragedia ha lasciato nella generazione successiva. E il contraccolpo sta nell'impossibilità di avere radici, nella confusione linguistica, nel disperato bisogno di appartenere e nella crudele condanna a sentirsi estranei, comunque e dovunque. Sta nello stupore di fronte al destino, al male, alla sorte: «Paghi per ogni errore, anche il più piccolo, sempre e comunque... Ma che cosa sia un errore non lo sai. A questo non devi mai pensare».
Con una lingua piena di venature dialettali ma classica e letteraria allo stesso tempo, Sacha Naspini crea un romanzo potentissimo, un’epopea rurale che è al contempo universale.
Un romanzo che gioca con suggestioni care al giallo, al thriller psicologico, al gotico, al memoir storico e alla favola nera.
Una narrazione appassionata, come l’incredibile storia d’amore che pagina dopo pagina farà vibrare gli animi e i vicoli di Le Case.
C’è un borgo millenario scavato nella roccia dell’entroterra maremmano, il suo nome è Le Case. Un paese morente. Una trappola di provincia. Un microcosmo di personaggi che si trascinano in un gorgo di giorni sempre uguali. Fino a quando la piccola comunità non viene sconvolta dall’arrivo di Samuele Radi, nato e cresciuto nel cuore del borgo vecchio e poi fuggito nel mondo. Il suo ritorno a casa è l’innesco che dà vita a questo romanzo corale: la storia di un paese dove ognuno è dato in pasto al suo destino, con i suoi sprechi, le aspettative bruciate, le passioni, i giochi d’amore e di morte. Perché a Le Case l’universo umano non fa sconti e si mostra con oscenità. Ogni personaggio lascia dietro di sé una scia di fatti e intenzioni, originando trame che si incrociano, si accavallano, si scontrano dopo tragitti capaci di coprire intere esistenze. A Le Case si covano segreti inimmaginabili, si ammazza, si disprezza, si perdono fortune, si tramano vendette, ci si raccomanda a Dio, si vendono figli, si vive di superstizioni, si torna per salvarsi, si tradisce, si ruba, ci si rifugia, si cerca una nuova vita, si gioisce per le disgrazie altrui. Talvolta, inaspettatamente, si ama.
La voce narrante di questo racconto è quella di una madre la quale, dopo un vissuto sofferto, dovrà affrontare un'ulteriore prova: Greta, sua figlia, è succube della droga. L'intera trama si dipana attraverso episodi, i quali mettono in luce la fede e il coinvolgimento emotivo di questa donna. Il racconto rivela come qualunque difficoltà non debba essere un motivo di resa, bensì una ragione per combattere e sperare, nella fede, in una soluzione possibile. Dopo essere riuscita a instaurare un forte legame con sua figlia, questa madre si accorge che l'intera esperienza le ha permesso di riscoprirsi madre, attenta e presente nella vita di sua figlia.
Un uomo alle prese con i dentisti, un altro con i mutui bancari, entrambi esasperati e alla fine beffati. Un inquietante vicino di casa. Una imprevedibile trappola per ubriachi. L'intensa lettera alla figlia di un padre che ha speso la vita nei Servizi Segreti. Una bambina vittima di un padre orco. Due ragazzi che si avventurano di notte nei segreti di una biblioteca. Il lato buio di una vita normale... E tanti uomini e donne ancora, di questo e dell'altro mondo, tutti abitanti di un pianeta popolato di personaggi affascinanti, comici, drammatici, misteriosi, violenti o dolorosamente inermi, tutti a loro modo ribelli. Storie e destini che chiedono di essere ascoltati.
Un cold case per i Vecchietti del BarLume. Un vecchio omicidio mai risolto, avvenuto nel fatidico 1968, si riapre per una questione di eredità. In questo giallo comico Marco Malvaldi coniuga una formula felice di leggerezza intelligente e intricato delitto, un sottile pennello che dipinge l’acquerello di un’Italia esclusa dalla ribalta mediatica, e che del Paese vero, anche quello più attuale, fa capire molte cose.
Un cold case per i Vecchietti del BarLume. Un vecchio omicidio mai risolto, avvenuto nel fatidico 1968, si riapre per una questione di eredità.
Muore nel suo letto Alberto Corradi, proprietario della Farmesis, azienda farmaceutica del litorale toscano. Alla lettura del testamento, il notaio ha convocato anche la vicequestore Alice Martelli, perché nelle ultime volontà del defunto è contenuta una notizia di reato. Erede universale è nominato il figlio Matteo Corradi, ma nell’atto il testatore confessa di essere stato lui l’autore dell’assassinio del fondatore della fabbrica, suo padre putativo. Il 17 maggio del 1968 Camillo Luraschi, capostipite della Farmesis, era stato raggiunto da una fucilata al volto. Le indagini non avevano trovato risultati, forse perché il clima politico consigliava di non scavare troppo.
L’imbroglio nella linea di successione obbliga alla riapertura dell’inchiesta. Matteo Corradi non potrebbe, infatti, ereditare ciò che il padre ha ottenuto mediante un delitto. Alice Martelli, la fidanzata (eterna) di Massimo, in questo caso non può fare a meno dell’archivio vivente di pettegolezzi costituito dai quattro vecchietti, che erano stati coinvolti tutti in modi diversi nel Movimento.
Le indagini si svolgono, come al solito, tra la questura e il BarLume di Pineta dove Aldo, nonno Ampelio, Pilade Del Tacca del Comune, il Rimediotti (detti anche i quattro «della banda della Magliadilana») dissipano gli anni della loro pensione, vanamente contenuti dal gestore Massimo, costretto a esorcizzare con la logica le ipotesi dei senescenti occupanti della sala biliardo del bar. Da dove passano storielle toscanacce di ogni genere. L’inchiesta si imbatte in svolte e nuovi delitti obliquamente diretti a occultare. E scomoda, in stolidi playback, i ricordi del Sessantotto nella zona. Finché – tra dialoghi alla Ionesco o da signor Veneranda, battute micidiali in polemica tra i vecchietti e tra loro e il mondo, perle di saggezza buttate lì nel lessico più scostumato e inattuale – si fa strada l’unica maschera triste di tutto il palcoscenico, Signora la Verità.
Marco Malvaldi, con la serie del BarLume, ha rinnovato un genere, il giallo comico di costume. E, in A bocce ferme, la parte del giallo puro si prende una sua rivincita senza sacrificio per la risata. Una formula felice di leggerezza intelligente e intricato delitto, un sottile pennello che dipinge l’acquerello di un’Italia esclusa dalla ribalta mediatica, e che del Paese vero, anche quello più attuale, fa capire molte cose.
La costa barbaricina rifiuta la condizione di 'Caraibi del Mediterraneo', che tanto piace ai tour operator improvvisati e ai turisti da gossip. Chi navigasse da Posada ad Arbataxlo capirebbe al volo. Chi passasse per mare dalla costa gallurese, quella dove è sempre estate, a quella barbaricina, dove le stagioni si alternano, vedrebbe a occhio nudo la differenza. È proprio l'inverno che dà alla Barbagia quella profondità di territorio vivo, che fa la differenza per il viaggiatore rispetto al turista. Per un barbaricino l'inverno è quasi una condizione naturale. Certo, per chi è abituato a pensare alla Sardegna smeraldizzata, può sembrare una stranezza pensare alla montagna, al clima alpino, al freddo secco, alla neve... Eppure basta voltarsi dal mare alla terra e si possono vedere le montagne che si gettano nell'acqua. Dentro a quelle montagne abita la sostanza di un territorio ancora sconosciuto.
“Chi sono io? Sono un Rimediante... Falegname e filantropo per atto notarile, mistico e profondamente credente, un uomo che il sabato sera passeggia sovente con il giovanissimo spirito di sé stesso in un luogo remoto dell’anima. Insomma uno come tanti.” “Il Rimediante” è un romanzo avvincente, un mito attualizzato narrato dalla voce di un “prescelto”, quotidianamente impegnato a combattere la malignità dell’uomo e la crudeltà di una divinità pagana grazie alla conoscenza di antichi precetti e ad aiuti soprannaturali.
Note sull'autore
Fabiano Fiorenza, nato a Taranto nel 1974, è laureato a Bari in Scienze dell’Educazione. Lavora nella formazione professionale presso l’ILVA di Taranto ed è presidente di una ONLUS che si occupa d’infanzia con disagio sociale. È coniugato, con due figlie. Il Rimediante è il suo primo romanzo.
A Manganelli, che nel 1970 la attraversa dalla Tanzania all'Egitto portandosi appresso l'immagine illusoria e il cliché cinematografico elaborati dal disagio europeo, l'Africa si rivela d'improvviso. Pachiderma planetario dove l'uomo è un'eccezione, affida la sua dignità non allo splendore di monumenti intimidatori, ma a simboli inconsapevoli, "intensamente araldici": gli animali. E il viaggiatore, di fronte a quella minacciosa intensità, non può che sentirsi "esotico ed estraneo", affascinato, allarmato. E uno choc che lascerà tracce profonde: sulla via del ritorno, il Partenone apparirà a Manganelli un gesto di "violenza ragionevole nei confronti della stessa demonicità greca". Postfazione di Viola Papetti.
Sullo sfondo di una natura riarsa, in una terra che sembra posta agli estremi confini del mondo, si consuma una serie di drammi strettamente intrecciati fra loro. E a raccontare questa umanità sconfitta e allucinata, c'è la lingua di Omar Di Monopoli.
In una immaginaria, ma più che verosimile, cittadina del Salento, chiamata Languore, non esistono buoni e cattivi, ma solo individui che lottano per la sopravvivenza, con rabbia, con brutalità, o con cieca disperazione; le sparatorie, le violenze, gli stupri, le sopraffazioni di ogni genere si susseguono, quasi a toglierci il respiro – né c'è differenza vera tra gli uomini e i cani che questi si sono scelti come compagni, altrettanto feroci e ottusi. Sullo sfondo di una natura riarsa, in una terra che sembra posta agli estremi confini del mondo, si consuma una serie di drammi strettamente intrecciati fra loro. E a raccontare questa umanità sconfitta e allucinata, c'è la lingua di Omar Di Monopoli – una lingua, è stato scritto, «tornita, barocca e dialettale».