In un momento imprecisato del 2019 si è verificato un evento biologico di eccezionale rarità: un virus animale ha fatto un salto di specie arrivando nell’uomo. Dalla metropoli cinese di Wuhan, il SARS-CoV-2 si è diffuso rapidamente in oltre duecento paesi. È ciò che gli esperti chiamano «pandemia». Nell’attesa di soluzioni e strategie per la crisi sanitaria, economica e finanziaria in corso, Ilaria Capua, una delle voci più autorevoli della virologia internazionale, prova a buttare cuore e sguardo oltre questo tempo di mezzo e a mettere a fuoco sia le cause sia le opportunità che esso nasconde.
Secondo l’autrice, infatti, si può considerare la comparsa del SARS-CoV-2 uno stress test, in grado di misurare le fragilità del nostro sistema. Questo patogeno dalle dimensioni infinitesimali ha messo l’umanità intera di fronte al disequilibrio creato nel rapporto con la natura, alla riscoperta della propria dimensione terrena e della caducità che le è connaturata, all’arbitrarietà dell’organizzazione sociale che si è data, delle sue scale di valori, del concetto stesso di salute pubblica. In altre parole, ha preso tutto ciò che ritenevamo certo, indiscutibile, e ce l’ha mostrato per quello che è: una scelta, basata su una visione parziale delle cose.
Uno dei motti di Ilaria Capua è: «Every cloud has a silver lining», ogni nuvola ha una cornice d’argento. Se è vero anche una pandemia, mentre ci scuote dalle radici, ha qualcosa da insegnarci. Per esempio, che dobbiamo modificare il nostro atteggiamento nei confronti della natura e della biodiversità, ponendoci come guardiani anziché invasori. Che la tecnologia, se riusciamo a non esserne schiavi, può essere lo strumento straordinario che ci permette di difendere la socialità anche in tempi di distanziamento fisico. Che, se vogliamo una società informata, matura, la scienza non può essere messa all’angolo, ma deve tornare ad avere un ruolo centrale nella conoscenza.
Se non vogliamo farci travolgere, insomma, dobbiamo considerare i segnali che questo evento storico sta facendo emergere, riflettere sul dopo e ripensare il mondo. Perché è a questo che stiamo andando incontro: a un mondo nuovo.
"Noi riteniamo di per sé evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità." Le parole di Thomas Jefferson nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti (1776) hanno definito sin dall'inizio agli occhi del mondo le caratteristiche uniche dell'"esperimento americano". In questo racconto, Jill Lepore ha messo le "verità" di Jefferson al centro della sua indagine su oltre cinque secoli di storia. La narrazione inizia con Cristoforo Colombo, nel 1492, e si conclude nel Paese diviso e tormentato della presidenza Trump. Gli americani di oggi discendono da conquistatori e da conquistati, da schiavi e da proprietari di schiavi, da immigrati e da coloro che hanno combattuto l'immigrazione. "Una nazione contraddittoria sin dalla sua nascita è destinata a discutere per sempre sul senso della propria storia." Perché, in quel giovane Paese votato alla libertà, non tutti erano liberi? Le razze diverse da quella bianca dominante, le donne, le persone omosessuali hanno potuto davvero esercitare i loro "inalienabili diritti"? La democrazia americana ha mantenuto tutte le sue promesse? Le manterrà in futuro? Aneddoti rivelatori su grandi figure e personaggi dimenticati, storie di presidenti e di avventurieri, ritratti di criminali e di idealisti. L'assetto politico e giuridico, il giornalismo e la tecnologia: dalle assemblee delle piccole città coloniali alle grandi macchine elettorali ottocentesche, dalle prime trasmissioni radiofoniche agli ambigui sondaggi su internet. Con questo monumentale quadro di uomini e donne, idee e illusioni, menzogne e verità, Jill Lepore ha creato la grande storia degli Stati Uniti d'America per il XXI secolo.
«Lo storico non è un fiancheggiatore che solo il suono dei tamburi mette in marcia, ma è in marcia perché pensa: un pensare, il suo, che libera dai dubbi, dalle oscurità dell'azione immediata, intendendone egli nel passato i motivi profondi. [...] La storia non è un artigianato tradizionale, ma un impegno totale di comprensione: una comprensione che parte dalla pienezza di vita e che più ampia e profonda diventa non per l'apporto di nuove tecniche di ricerca, ma per la ricchezza, la complessità, l'urgenza dei problemi che lo Storico avverte e suscita in se stesso. Dunque vivere la vita è la condizione essenziale per vivere la storia. E barbaro o imbarbarito, perché fattasi vuota la sua coscienza, è nel nostro concetto di civiltà chi non è in grado di vivere la storia. L'incontro con la storia è l'occasione per gli uomini di capire se stessi e anche di misurare quanto sono disposti a pagare per capire, serenamente, gli altri uomini». Con uno scritto di Chiara Frugoni.
Tra le storie più affascinanti di sempre merita senza dubbio un posto quella del Koh-i-Nur, il diamante dal valore stimato «in due giorni e mezzo di cibo per il mondo intero», la gemma portentosa contesa nel corso dei secoli da un numero impressionante di re, conquistatori, principi, razziatori, ladri e imperatori, le cui morti truculente ne alimentarono la fama di pietra maledetta: accecati, avvelenati, torturati, bruciati nell'olio bollente, 'incoronati' con il piombo fuso o uccisi dai familiari. Nel riscrivere questa storia, William Dalrymple e Anita Anand la sottraggono alle brume del mito e la ricostruiscono meticolosamente a partire dalle fonti originali (persiane, afghane, urdu, in parte tradotte per la prima volta). E mostrandoci, tra l'altro, come la 'maledizione' non abbia nulla di soprannaturale, ma sia la concreta manifestazione della cupidigia e della furia omicida che questo gioiello inestimabile ha suscitato, storicamente, in tutti coloro che lo hanno bramato. E quando il Koh-i-Nur trovò in Inghilterra «la sua dimora definitiva», lo seguì il suo ultimo proprietario indiano, Duleep Singh, che nacque sovrano del più potente regno dell'India e morì, abbandonato da tutti, in un hotel di Parigi, mentre la gemma che un tempo aveva fieramente indossato faceva bella mostra di sé sulla corona della regina Vittoria.
Il libro percorre l'antica preghiera mariana, inserita dalla pietà popolare al termine della recita del Rosario e dalla Chiesa al termine della preghiera di Compieta, attingendo al libro delle Scritture Sante e alla preghiera della Chiesa, in modo particolare alle Messe del Messale mariano. Il duplice riferimento consente di cogliere, non solo la provenienza biblica del "vocabolario" utilizzato nella Salve Regina, ma anche di apprezzare la ricchezza spirituale di quanto le parole della preghiera attestano.
Che cosa vuol dire essere uomini? Gettarsi a capofitto contro gli ostacoli a costo della morte, o pianificare con astuzia ogni mossa? Inseguire la verità, o manipolarla? Essere Achille, oppure Odisseo? «Nessuno fra gli antichi Greci ignorava la profonda distanza caratteriale che divideva i due eroi. Nessuno ignorava la vita di Odisseo e la morte di Achille, l'astuzia del primo e la schiettezza del secondo, la riflessività dell'uomo maturo e l'impulsività del giovane. Il loro desiderio di uccidere la morte. L'uno schivandola. L'altro disprezzandola». Fin dall'antichità, Odisseo e Achille sono considerati i paradigmi di due modi antitetici di affrontare la vita. Da una parte un'intelligenza duttile, capace di adeguarsi alle circostanze per aggirare gli ostacoli, dall'altra la ferocia di chi pretende di dare forma alla realtà. Odisseo sa aspettare, sopportare, pur di salvarsi. Achille no, consuma l'attimo, divora la propria esistenza. Perché è troppo schietto, istintivo, collerico, almeno quanto Odisseo è prudente, strategico e ingannevole. L'uno rivolto al futuro, l'altro concentrato sul presente, sono entrambi incapaci di fare i conti con il passato. E sono fragili, come tutti noi, come noi destinati a un corpo a corpo con la loro finitezza. Ma che cos'è l'eroismo se non vivere fino in fondo la propria condizione mortale? Attraverso lo sguardo di Achille e Odisseo, Nucci racconta due visioni diverse del mondo, tanto radicate nell'immaginario collettivo da riuscire a parlare, ininterrottamente, al nostro tempo.
Può sembrare assurdo, al culmine della recessione più grave del secolo, parlare di "grandi giacimenti occupazionali inutilizzati". Invece proprio di questo si tratta: per uscire dalla grande crisi è urgente dotare il nostro Paese di servizi di orientamento professionale e di formazione che rendano i lavoratori capaci di rispondere alla fame di personale qualificato e specializzato di cui soffrono le imprese. Ancora più singolare può apparire oggi l'idea che non siano soltanto gli imprenditori a selezionare i propri collaboratori, ma anche i lavoratori a scegliere e "ingaggiare" l'imprenditore più capace di valorizzare il loro lavoro. Eppure è davvero questo che accade in un mercato maturo, anche nella congiuntura peggiore. Proprio per uscirne è importante che i lavoratori si considerino parte di un "mercato dell'intrapresa", nel quale hanno interesse ad allargare il più possibile la concorrenza tra gli imprenditori indigeni e stranieri sul versante della domanda di manodopera. Perché tutto ciò accada occorre una nuova "intelligenza": una capacità che i lavoratori devono saper esercitare sul piano individuale e su quello collettivo, per conoscere e capire il mercato del lavoro in tutti i suoi meccanismi, in modo da poterlo utilizzare efficacemente a proprio vantaggio. Per questo c'è bisogno di un sindacato capace di assumere come proprio il mestiere di intelligenza collettiva dei lavoratori e al tempo stesso di essere partner dell'imprenditore nella progettazione di nuove forme di organizzazione aziendale e di spartizione dei frutti dell'impresa. Da sempre convinto della necessità di far cooperare diritto, economia e sociologia, il giuslavorista Pietro Ichino ci propone in queste pagine un rovesciamento della visione tradizionale del mercato del lavoro e del ruolo del sindacato, che può contribuire a trovare la via d'uscita dalla crisi di sistema che stiamo attraversando.
Una parola che sembra quasi da evitare, un ricordo di tempi lontani e di perdute ingenuità intellettuali. Eppure, l'idea di progresso esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio. Scritte appena prima che iniziasse la crisi del Coronavirus, queste pagine, cui tocca oggi la più implacabile delle verifiche, si interrogano sulla funzione progressiva della tecnica e della scienza, che non sono una potenza estranea: sono nostre figlie, siamo noi.
Il lebbrosario di Abu Zaabal, a una quarantina di chilometri a nord est del Cairo, è un microcosmo in cui convivono disperazione e gioia e in cui le suore missionarie comboniane ed elisabettine portano da decenni aiuto e conforto ai malati. Questo libro racconta le profonde emozioni suscitate dall'incontro con i lebbrosi. Piccoli episodi di quotidianità si intrecciano alle vicende personali dei malati che, inaspettatamente, raccontano volentieri le loro storie passate e la realtà che stanno vivendo. Il mondo di Abu Zaabal è doloroso e difficile, ma anche pieno di amore, di semplice progettualità, di gesti solidali. Le voci delle prime missionarie raccontano le difficoltà degli inizi e gli atti di generosità, che come un positivo contagio, hanno permesso la costruzione di alloggi accoglienti, sale operatorie, laboratori di protesi, attivando una solida rete di volontari disposti a donare il proprio tempo ai malati, da sempre ultimi tra gli ultimi.
Il 12 dicembre 1969 scoppia la bomba di piazza Fontana a Milano. Il ferroviere anarchico Pino Pinelli è convocato in Questura per accertamenti e dopo tre notti il suo corpo vola dalla finestra dell'ufficio del commissario Luigi Calabresi, contro cui Lotta Continua inizia una violenta campagna. Nel 1972 Calabresi viene ucciso a colpi di pistola sotto casa. Sedici anni dopo un ex operaio della Fiat, già militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, si costituisce e confessa al sostituto procuratore Ferdinando Pomarici di aver preso parte all'omicidio Calabresi chiamando come corresponsabili Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri e, come esecutore materiale, Ovidio Bompressi. Inizia così l'odissea dei processi.
Siamo entrati nella nuova era della civiltà digitale e stiamo imparando, anche in modo drammatico, come «usarla». La rivoluzione della data economy investe e investirà profondamente la nostra stessa cultura e cambierà - non sempre in meglio - i nostri modi di lavorare, informarci, studiare, muoverci, produrre beni e servizi, creare nuove opere, vendere, comprare, coltivare relazioni personali. Ma non possiamo arrenderci di fronte allo straniamento che si prova tra boom del commercio online e chiusura dei negozi, robotizzazione e caduta dei posti di lavoro, trionfo dei social network e «fine della privacy». La sfida è reagire e «vivere» il cambio dei modelli di vita, di lavoro, di socialità. Mettere la tecnologia al nostro servizio senza esserne sopraffatti, imparare ad affrontare la novità come in passato abbiamo fatto con le altre grandi rivoluzioni scientifiche dalla comparsa delle macchine a vapore, del treno, dell'elettricità, dell'automobile. E per farlo occorre mettere in campo proposte e correttivi concreti che gli autori avanzano in queste pagine ricche di esempi e dati. Un pamphlet provocatorio e costruttivo al tempo stesso su come affrontare la più grande discontinuità nella storia recente dell'uomo.
Questo libro prefigura il nostro futuro prossimo. Quello quotidiano delle nostre case, delle città in cui abitiamo, fino ai nuovi e pervasivi usi che faremo degli smartphone. Ma questo futuro sta già accadendo in Cina: intelligenza artificiale, veicoli a guida autonoma, tecnologie green, smart city, riconoscimento facciale... Lì, chi progetta il nostro mondo di domani è già all'opera.